Shakespeare a Berlino

Pubblichiamo, ringraziando l’autore, alcune poesie di Marco Mantello.

di Marco Mantello

Penso che essere ricordati o dimenticati non ha alcun valore
come non sono valori il sentirsi sicuri o felici, via denaro fica e amici
Penso inoltre che i sonetti siano una forma superata di amore
per un qualcosa che non esiste nella realtá, ma solo negli artifici
e che la mia unica libertá, dalla parola noi e dai suoi profeti
sia nel netto superamento dell´identitá, che troppi dicono collettiva
penso che il vento e la primavera, siano meglio di una partita iva
e che una volta che comincio a scrivere, e non ho pareti
ma canzoni da classifica in testa, e poemi per la middle class estiva
non ho bisogno di nessun finale, nessuna fine nessun inizio
nessuna immagine buona o cattiva, di me a parole e di voi in ospizio.
Ho solo bisogno di amore. O al massimo di un divano
come quel killer del romanzo americano

I signori del cibo di Stefano Liberti: un estratto

È in libreria per minimum fax I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta, un’inchiesta di Stefano Liberti che segue la filiera di quattro prodotti alimentari: la carne di maiale, la soia, il tonno in scatola e il pomodoro concentrato. Pubblichiamo un estratto dal capitolo dedicato alla carne di maiale e vi segnaliamo che domani, giovedì 6 ottobre, alle 18 Stefano Liberti presenta il libro da Ibs-Libraccio a Roma con Giorgio Zanchini. (Foto di Stefano Liberti)

Il mattatoio più grande del mondo

I movimenti sono cadenzati, meccanici, ripetitivi. I maiali sono appesi a un gancio, che scorre lungo un nastro a velocità regolare. Gli uomini sono disposti lungo il nastro, a distanza fissa l’uno dall’altro. Hanno tute bianche, stivali di gomma, guanti, mascherine, cuffiette per i capelli. Tra loro sono indistinguibili: non fosse per le differenze di altezza, si direbbe un esercito di robot. In mano hanno gli strumenti di lavoro: chi un coltello, chi una mannaia, chi un gancio.

La disperata felicità di Sylvia

di Giacomo Giossi

(fonte immagine)

Limiti, opportunità, realtà e immaginazione. Poi ancora percezione, lavoro, amore, occasioni e bisogni: tutti elementi sparsi e spesso confusi di una biografia, di una vita che tenta di districarsi, di darsi forma e come spesso si ripete oggi darsi visione. Un obbligo di natura si potrebbe dire, ma spesso nulla più che un piatto amaro di conformismo.

Di certo oggi il pensiero anche e soprattutto quello su di sé vive fortemente all’interno di questa coercitiva suddivisione e analisi di ruoli e sensazioni. Un inseguimento perenne ad una performance in realtà priva di ogni senso se non nella cornice di un illusorio istante che tuttavia all’istante si condanna e si perde.

Su “Questi giorni” di Giuseppe Piccioni

di Valerio Valentini

Un attimo dopo a quello in cui nell’animo di Adria il sospetto sul malessere di sua figlia Liliana matura in modo improvviso e feroce, dei volti di donne goffi e ridicoli, con in testa retine bigodini e messe in piega lasciate a metà, colorano il pathos con tinte di grottesco felliniano. La tensione che s’accumula nella scena in cui Liliana e Caterina litigano e piangono in una squallida stanza d’ospedale si scioglie in un sorriso di fronte alla tenerezza impacciata di una delle due ragazze («Mangia un po’ di crostata» «Non posso, se prima non mi lasci le mani»).

Nei momenti più tragici di Questi giorni, si ride. E già questo basterebbe a suggerire che quello di Giuseppe Piccioni è stato un buon lavoro. Ma che il regista ascolano avesse una notevole capacità di governare vari registri, toni diversi, modulandoli in maniera tutt’altro che scontata, in fondo lo si sapeva già: lo dimostravano le sue opere precedenti. Quanto a Questi giorni, presentato in concorso alla 73sima edizione del Festival di Venezia, come giudicarlo?

La necessità della purezza: “Un bene al mondo” di Andrea Bajani

Questo pezzo è uscito su La Lettura del Corriere della Sera, che ringraziamo.

di Emanuele Trevi

«È da notare come toccando la fiaba uno scrittore dia infallibilmente il meglio della sua lingua». È il parere di Cristina Campo, forse ancora oggi il più autorevole in materia. Ma in cosa consiste, esattamente, questo «meglio»? Forse per prima cosa sarà necessario ricordare che la favola è certamente un genere letterario, ma affonda le sue radici in uno strato molto più oscuro e profondo dell’esperienza umana.

Siamo addirittura sul confine incerto che separa la necessità biologica dal prodotto culturale. Per un tempo inconcepibilmente lungo, la durata di una favola è stata una sfida alla notte e alla morte; l’espressione di una fondamentale esigenza di orientamento e di durata. Oggi riusciamo a malapena a concepire emozioni così intense.

Simone Carella e il teatro del Tremila

(fonte immagine)

E alla fine se n’è andato, Simone Carella. A guardarlo lì, smagrito nel letto di un ospedale di Roma, non sembrava più lui, finché gli occhi un po’ spersi si facevano di nuovo attenti e ti guardava. E allora eccolo di nuovo lì, a fare capolino da una faccia scavata che non sembrava la sua, e a dire, senza riuscire davvero a parlare, con quella noncuranza sorniona che lo contraddistingueva, “Oggi non va, ci vediamo domani”.

E come fare, adesso, a raccontarlo Simone Carella? A raccontare le tante incarnazioni che ha avuto? Regista, artista sperimentale, organizzatore, agitatore culturale. Sempre in movimento eppure sempre legato a quella Roma che, se ancora vale la pena, è anche per l’impronta lasciata da gente come lui. Gente curiosa, attenta, gente per cui il gesto artistico è sempre legato agli altri, al teatro inteso come “noi” prima che come “io”. Persone che aprono spazi dove provare, sbagliare, ricominciare, spazi dove sentirsi a casa. C’è n’è sempre meno di quella gente. Oggi, con la scomparsa di Simone, c’è n’è drammaticamente ancora meno.

Il falso Borges

Questo pezzo è uscito sull’Unità, che ringraziamo.

Una delle poesie più famose di Jorge Luis Borges non è di Jorge Luis Borges. S’intitola Istanti e su Google è citata decine di migliaia di volte. La storia del suo successo non si limita però all’apprezzamento di tanti anonimi fan. L’ultimo ad aver abboccato è stato Fabio Volo, che l’ha declamata con grande enfasi durante il suo programma mattutino a Radio Deejay, ma nel corso del tempo aveva già ispirato un’opera d’arte contemporanea di Riccardo Orsoni, era stata menzionata in un romanzo di Sergio Calamandrei e in un manuale di lingua castigliana (Por supuesto 2 di Joaquin Masoliver), fu usata nello spot pubblicitario della compagnia di assicurazione spagnola Mapfre, e il cantante degli U2 Bono Vox la recitò alla televisione messicana. Tutti, naturalmente, credendola autentica.

Sabbie bianche: i nuovi saggi di Geoff Dyer

Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Geoff Dyer eccelle come sempre nell’arte della divagazione. Vaga e divaga nei suoi libri, facendo della sua opera la diretta applicazione della celebre frase di John Lennon: “La vita è quello che ti capita mentre stai facendo altro”.

Nella sua nuova raccolta di saggi, White Sands. Experiences from the Outside World (Pantheon Books, pagg. 256, $ 25), Dyer scrive della vita che gli capita mentre in solitario o con la moglie attraversa il mondo in lungo e largo. E la vita diventa di colpo molto più interessante di luoghi e personaggi promessi nei titoli dei suoi brevi reportage di viaggio.

I ventincinque anni di Nevermind

Qualche giorno fa Nevermind ha compiuto 25 anni. Questo pezzo (uscito sull’Unità, che ringraziamo) ricorda il disco dei Nirvana.

Il grunge, la musica di Seattle che si sviluppa a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta all’insegna del suono di chitarra e di una forma canzone di stampo tradizionale, mescolando (in differenti dosi a seconda dei casi) l’hard rock anni ’70, il punk, il noise, l’heavy metal, l’alternative rock e il pop, ha il suo manifesto in un disco uscito 25 anni fa. Nevermind dei Nirvana, infatti, basta da solo a spiegare le dinamiche su cui si tiene l’intero movimento musicale.

Seattle si avvia a diventare una città prospera, al centro del boom che negli anni novanta ruota attorno alle nuove tecnologie; la Microsoft ha funzionato come catalizzatore per la creazione di un esteso regno industriale, e le risacche di malcontento giovanile, successive alla crisi economica degli anni ottanta, vibrano di una rabbia subito depurata del suo lato distruttivo: per quanto verace il sentimento che ne è alla base, il grunge viene immesso all’interno di un ciclo produttivo e diventa brand non appena esce allo scoperto, col video di Smells like teen Spirit.

Nella Milano di “Teneri violenti”

È uscito il 12 settembre per Einaudi Stile Libero Teneri violenti. Il libro racconta la storia di un redattore televisivo e della sua ossessione nostalgica, nata giorno per giorno all’interno di un programma per il quale si occupa di recuperare notizie da un archivio stampa. La vicenda è ambientata nella Milano di questi anni: ecco come il protagonista, uscito dal lavoro, attraversa la città, la descrive, per poi entrare ed uscire dalla quotidiana cerimonia dell’aperitivo.

di Ivan Carozzi

L’avevamo messa in cascina, l’avevamo portata a casa, come diceva Franco, un collega di redazione: un’altra settimana se n’era andata, insomma. La quinta da quando ero sotto contratto. E il week-end potevamo entrare in stand by, come diceva sempre Franco. Yes, week-end. L’arbitro ha fischiato. Ora di staccare, basta. Di staccare il cervello o la spina.

Avevo salvato un’ultima foto e me n’ero uscito. Relax. Via, per un aperitivo in piazzale Lavater. Mi aspettava una decina di ex compagni di lavoro, conosciuti in una produzione chiusa a maggio. Un po’ spietatamente, per verificare un mal comune mezzo gaudio, con impazienza ci saremmo chiesti di fronte a uno spritz: «E tu che fai ora? Stai lavorando?» Un traffico frequente di vecchi colleghi che si riproponevano per serate in pizzeria, rimpatriate, fino a quando i rapporti non si sfilacciavano del tutto: ci si perdeva di vista e capitava d’incontrarsi solo per caso.

Il genio di Borromini

Negli ultimi anni ho visitato spesso, dopo molto tempo, Sant’Ivo alla Sapienza. E mi sono accorto – o penso di essermi accorto – di una cosa che non avevo mai colto. Sant’Ivo (forse la più bella architettura di tutti i tempi) dall’esterno, dalla strada non lascia sospettare nulla di ciò che c’è dentro.

Noi ci troviamo davanti a un muro rossastro, piatto, anonimo, il più anonimo che si possa immaginare; all’interno, Borromini ha costruito questo spazio fantastico, questo spettacolo, questa incredibile simulazione di pietra che attraversa i secoli, gli stili e le forme espressive, e che continua a dire: “quello è lo spazio pubblico, lo spazio della strada, lo spazio della politica in cui io artista non posso intervenire (perché so quello che mi succederà se lo faccio, conosco le conseguenze); però, all’interno di questo spazio separato, di questa sorta di eterotopia che è lo spazio della cultura e dell’arte, accetto le condizioni del fallimento e vi faccio vedere quello che è possibile costruire per voi”.

L’inutilità disarmante di #ioleggoperché

Il disastro della campagna del Fertility Day ha avuto almeno un risultato: di ribadire – lo scriveva bene Annamaria Testa qualche giorno fa – che la comunicazione non è altra cosa rispetto al contenuto politico.

Questo potrebbe essere un buon punto di partenza per giudicare il mondo della comunicazione istituzionale in generale, soprattutto quando si spende in campagne costose su temi complessi.
Ecco perché vorrei soffermarmi su un progetto che forse non è un disastro assoluto come il Fertility Day, ma che è altrettanto inutile anche perché non è nemmeno alla sua prima – scusabile – edizione. Sto parlando di Ioleggoperché, la campagna che l’Aie, l’associazione editori italiani, sostiene ogni anno per la promozione della lettura. Lo fa insieme al Centro per il libro e la lettura, il ministero per i beni culturali, all’assoc

Spira Mirabilis, ispirata celebrazione del genere umano

In Spira Mirabilis Massimo D’Anolfi e Martina Parenti propongono una forma-documentario di dichiarata matrice filosofica. Quattro variazioni su un tema: l’immortalità. Il tema sottende le storie, stabilisce un ponte narrativo, ma ad affiorare con forza, in questa spirale di pensiero, è la magia di un umanesimo resistente ed esemplare.

Presentato in anteprima al festival di Venezia, dove è stato in corsa per il Leone d’oro, Spira Mirabilis esce oggi, 22 settembre, nelle sale italiane, distribuito da I Wonder Pictures.

D’Anolfi e Parenti adottano un metodo induttivo: partono dall’esperienza sensibile, dal singolo caso particolare, dalla materia grezza: una zolla di terra, una lastra di pietra, una lamina di metallo, la lente di un microscopio per ampliare ed elevare progressivamente la visione. Addizionando gradualmente nuclei narrativi scolpiscono l’opera. Un passo alla volta, un tassello alla volta scopriamo l’universalità di ogni “ciclo operativo”, fino a ottenere un affresco completo, che attesta e giustifica la funzionalità di ciascun quadro all’interno dell’insieme.

Bravi e cattivi. Gli italiani, la guerra, la memoria

1943-1945: I «bravi» e i «cattivi» (Donzelli editore, 110 pagine, 24 euro) è un’interessante raccolta di cinque saggi, densa per contenuti pur nella foliazione limitata, che propone una comparazione del percorso compiuto dalla Germania e dall’Italia nell’elaborazione di una memoria condivisa e consapevole sugli ultimi anni della seconda guerra mondiale.

Il volume è stato curato da Massimo Castoldi, filologo e critico letterario, direttore della Fondazione Memoria della Deportazione di Milano. Thomas Altmeyer, direttore scientifico dello Studienkreis Deutscher Widerstand 1933-1945 e professore di didattica della storia presso la Goethe Universität di Francoforte, apre il libro con una riflessione sul complesso processo di recupero dei luoghi della memoria del nazismo e della fondazione dei memoriali, che solo dagli anni Sessanta ha conosciuto uno sviluppo intenso. Nel 1977 il ministero della Giustizia della Repubblica Federale riconobbe ufficialmente 1600 siti come campi di concentramento e unità esterne dei lager negli ex territori del Reich. La maggior parte dei memoriali fu inaugurata tra gli anni Ottanta e Novanta, quando si concretizzò l’istituzionalizzazione e il pubblico riconoscimento degli stessi e delle loro attività. Il ricordare è stato a lungo una lotta solitaria dei superstiti della Resistenza e delle persecuzioni. E oggi sono poste nuove sfide nell’ambito della divulgazione e della tutela di una memoria non limitata solo ai grandi campi di sterminio.