Ari – un racconto di Anna Ditta

 

di Anna Ditta

Ora che il seno è stato svuotato per l’ultima volta, Ari non può più nutrirsi. I suoi tralci mi invadono la bocca, si insinuano nelle narici e premono sui bulbi oculari. Circondano il mio cranio e si intrecciano ai capelli. Scivolano sull’addome e tra le lenzuola, alla ricerca di ciò che non posso più dargli.
Il parto era stato un tuffo in una pozzanghera piena di fango. Quattro mani sollecite avevano piazzato sul mio petto un viscido bolo che si dimenava. Emetteva un fischio penetrante che al contatto con la mia pelle si placò. L’ostetrica recise la liana e poco dopo un giovane ginecologo iniziò a ricucirmi.
«Preferisce maschio o femmina?». Le mani con cui il botanico reggeva la cartellina erano sporche della stessa melma che impregnava la mia camicia da notte.
Un tempo avevamo fantasticato su una femmina, ma questo accadeva prima che il destino della nostra famiglia si compisse. «Maschio».
Ari fu sciacquato e collocato in un vasetto azzurro. Mi addormentai contemplando il suo unico bozzolo, avvolto in una rete di venature violacee. Fui svegliata dal suo fischio, le foglioline che ondeggiavano lamentose.
A mio figlio avevo donato il movimento. Lui, invece, mi ha condannata alla paralisi. Quel giorno, nella stanza dell’ospedale, presi Ari dal comodino e lo poggiai sul vassoio estraibile. Abbassai la scollatura incrostata e iniziai la spremitura. Raccolsi le gocce di colostro con la paletta e le feci scivolare sul terriccio, dove rimasero un istante prima di essere assorbite. Ripetei l’operazione un paio di volte col seno sinistro e poi passai al destro, finché Ari non smise di piangere. Mi sentii colma e mi rimisi a dormire.
Avevo deciso di non conoscere in anticipo la specie del donatore. Sin dal giorno dell’inseminazione avevo fantasticato su di lei (pensavo ancora fosse una femmina). Mentre attecchiva dentro di me percepivo le sue minuscole radici solleticarmi l’addome. «La senti adesso? Ha dato un colpetto», avrei detto a Paolo in un altro momento, in un’altra vita. Ma non potevo più premere la sua mano sulla pancia.
Adesso Ari è sul comodino, nel vaso in cui l’ho travasato quando iniziava a stare troppo stretto. È cresciuto molto in questi tre mesi. Le sue fronde occupano una vasta porzione della parete alle spalle del letto. Il suo bozzolo ieri si è schiuso in un calice aggraziato dall’odore sgradevole. Se fossi ancora in grado di farlo, allungherei la mano per accarezzare il fiore appena sbocciato.
Paolo avrebbe saputo come prendersi cura di un’aristolochia gigantea. Era lui ad avere il pollice verde in casa, per questa ragione dopo la sua morte avevo scelto un’inseminazione vegetale. Un animale avrebbe sanguinato, e io non avrei sopportato altro sangue. In più, la sorte mi avrebbe affidato una specie e io ne avrei ricavato un messaggio. Era così che Paolo mi parlava, anche da vivo.
Un giorno si era presentato a casa con un mazzo di fiori di lavanda. Il loro profumo era quanto di più buono avessi mai respirato.
«Sai qual è il loro significato?».
Avevo scosso la testa.
«È una promessa: mi prenderò cura di te».
Un giorno – Ari era ancora molto piccolo – ho preso uno dei suoi rametti e l’ho spezzato. Lui si è ritirato indietro e io ho percepito incomprensione e disappunto.
Paolo non mi aveva mai nominato l’aristolochia, altrimenti me ne sarei ricordata. Gli piacevano le piante rampicanti, ma non collego questo nome a nessun ricordo specifico. Nonostante questo, credo che Ari sia un messaggio da parte sua: non è altro che il mio destino – il destino della nostra famiglia – che si compie.
Vorrei soffrire per Ari. È mio figlio e lo sto abbandonando, mio malgrado, alla morte. Invece non provo dolore per lui, neanche per quella parte di patrimonio genetico umano che gli ho donato. Sento che i suoi tralci mi si avvitano intorno e vorrei che mi soffocasse, vorrei finirla subito, qui e adesso. O che almeno il suo fischio cessasse.
Quando sono tornata a casa dall’ospedale con Ari ho provato a metterlo sul tavolino del soggiorno, sul tavolo della cucina, sul davanzale della finestra. I botanici si erano raccomandati: una zona luminosa e temperatura mai inferiore ai 25 gradi centigradi. Sulla via del rientro avevo comprato il terriccio fresco e il concime, ma avevo scordato i guanti da giardinaggio. Non riuscii a trovare quelli di Paolo, così quando arrivò il momento del travaso mi misi a scavare a mani nude. Ogni volta che sfioravo le radici di Ari percepivo il suo appagamento al mio tocco. Alla fine lo misi sul comodino della mia camera, così quando piangeva potevo raggiungerlo senza alzarmi dal letto.
La montata lattea era arrivata presto, grazie alla stimolazione del seno che continuavo a fare ogni tre ore. Avevo iniziato a usare il tiralatte ma, quando sentivo il seno particolarmente pieno, a volte lo spremevo direttamente in direzione di Ari, e lo spruzzo gli arrivava sul terriccio. In quelle occasioni era sorpreso e tintinnava una risata.
Non avevo comunicato a nessuno la nuova gravidanza, neanche a mia madre. Non avrebbe capito. Da quando Paolo si era ammalato mi ero progressivamente sottratta alle attenzioni che lei mi rivolgeva, mostrandomi sempre più infastidita dalla sua presenza. Alla fine si era arresa: adesso mi telefona una volta a settimana e io le racconto solo bugie.
Stanotte i tralci di Ari sono giunti sul mio petto. Si è attaccato al seno e per la prima volta ha mangiato da solo, grazie al fiore sbocciato ieri. Il mio corpo ormai inerte e disidratato ha ceduto l’ultimo latte con inesorabilità.
Toccare le radici di Ari, il giorno del travaso, mi ha fatto uno strano effetto. Sembravano vermetti che pulsavano di vita. L’ho messo nel nuovo recipiente e ho visto quei filetti bianchi sparire sotto il terriccio nuovo. In quel momento ho sentito una fitta al basso ventre. È stato il primo sintomo. La conferma è arrivata durante la visita post-partum. I medici parlavano tra loro indicando lo schermo dell’ecografo.
«Sì, i carpelli sono ben visibili».
«Sembra esserci anche un accenno di stilo».
Mi avevano spiegato che c’era stato un innesto. «Alcune cellule di suo figlio hanno attecchito nei suoi organi riproduttivi: è come se l’aristolochia avesse colonizzato il suo utero, trasformandolo profondamente». Era una controindicazione, un rischio raro di cui ero a conoscenza quando avevo optato per l’inseminazione.
«Non sappiamo quanto la pianta potrebbe crescere, dovrà avvisarci se compaiono nuovi sintomi».
Il telefono squilla, è domenica e mia madre chiama. Nessuno risponderà e lei si preoccuperà: avviserà qualcuno, forse verrà lei stessa. Ma quando succederà sarà tardi. I miei organi sono ormai pervasi dalla stessa linfa verde che scorre nei tralci di Ari. Non posso bere, non posso nutrirmi. Non posso essere nutrimento per lui.
Mio figlio fischia, percepisce la mia assenza. Non è solo il latte che vuole, ha bisogno della mia voce, del mio tocco. Nell’ultimo periodo della malattia di Paolo ero io a lavarlo e a cambiarlo. Mi prendevo cura dei suoi bisogni come avrebbe fatto un genitore con un neonato.
«Non rinunciare a lei. Sarai una brava madre», mi aveva detto. Non l’ho fatto, è stata la bambina a rinunciare a me. Nove mesi dopo, ho pensato che una riproduzione inter-specifica mi avrebbe tirata fuori. Magari avrei avuto della lavanda: una piccola piantina mi avrebbe aiutata e rimessa in contatto con mio marito.
Nonostante il formicolio e i dolori degli ultimi giorni, non ho chiamato i medici. La mattina ho scoperto di non riuscire più a muovermi non sono stata sorpresa.
La mia morte sarà solo un travaso, migrerò in un contenitore più grande. Un’aiuola o un terreno boschivo, dove ci sarà anche Paolo e la nostra bambina e dove le nostre radici si congiungeranno. Sento i tralci dell’aristolochia scavare dentro di me, mentre quelli di Ari premono da fuori. Un profumo di lavanda si diffonde nella stanza.

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Anna Ditta (1991) è nata in Sicilia e vive a Roma. Giornalista professionista, ha pubblicato i reportage “Belice” e “Hotel Penicillina” con M. Passato e A. Turchi (Infinito edizioni, 2018 e 2020). Ha fondato il progetto di approfondimento letterario WeltLit.
Commenti
Un commento a “Ari – un racconto di Anna Ditta”
  1. Carmela ha detto:

    Affascinante racconto surreale ma toccante e sconvolgente

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