Bestie

paul-dufour-172607-unsplash

Nessuna infanzia è priva di terrori.
Philip Roth

Nell’estate del 1978, quando al nostro rientro ci saremmo dovuti trasferire in Via del Pellegrino, mio padre disse a mia madre che non se la sentiva, voleva prendersi una pausa. Non ebbe il coraggio di ammettere, che dopo otto anni di matrimonio, si era innamorato di un’altra donna. Disse solo che era infelice, che aveva bisogno di pensare, starsene per conto suo, ridisegnare i confini di un’esistenza che gli stava sfuggendo di mano. Nel corso dell’ultimo anno aveva lottato contro violenti attacchi d’ansia, era diventato vulnerabile e fragile. Passava notti insonni a fumare Gauloises senza filtro guardando la punta della sigaretta brillare nel buio. Era accecato dalla paura di morire. Non riusciva a prendere sonno, temeva di non risvegliarsi più, passava ore camminando in lungo e in largo per casa, e alla fine, quando da fuori vedeva sorgere l’alba, crollava esanime, blandito dagli ansiolitici. Mia madre si aspettava ingenuamente che la crisi svanisse da un giorno all’altro con la stessa repentinità con cui era apparsa. Era evidente quanto fosse lontana dal comprendere la natura distruttiva di quei disturbi. Perché tutto a un tratto l’uomo dal sorriso brillante che aveva dimostrato di sapersela cavare in ogni circostanza passava le giornate a fissare il vuoto? Che stava succedendo? Cuore in gola, palpitazioni, ansia: erano sensazioni a lei sconosciute; per afferrarle nella loro complessità avrebbe dovuto calarsi in meandri che neanche sospettava esistessero. Eppure cercò di aiutarlo in ogni modo. Fu accondiscendente, solerte, premurosa. Ma quando seppe che aveva un’altra, e che la cosa era seria, crollò. Non riusciva a credere che nel mezzo della tempesta suo marito avesse trovato un nuovo amore.

Rimase chiusa in camera a piangere per settimane, convulsamente. Non so se mi parlarono, se qualcuno mi disse che papà avrebbe smesso di vivere con noi; la cosa in sé non aveva alcuna importanza ai miei occhi. Mio padre non era il mio mondo, io ero legata visceralmente a mia madre, era con lei che volevo stare. L’assenza di mio padre non sembrava costituire un problema. Il problema, semmai, era che mia madre stava andando in pezzi e io non sapevo come arginare la sua sofferenza.

La separazione dei miei genitori mi confinò in un emisfero solitario. All’improvviso persi qualsiasi riferimento; mi ritrovai nel centro di Roma, un ambiente sconosciuto, così diverso dal quartiere Trieste, dov’erano i luoghi incantati della mia infanzia, il Parco Nemorense e Villa Ada. Anche la mia tata andò via: Florentina. Una donna filippina paziente e aggraziata con cui passavo gran parte delle mie giornate. Era lei a portarmi al parco. Mi vestiva, mi lavava, mi accompagnava a scuola. Si prendeva cura di me con sollecitudine materna. La sera cenavamo insieme, io sulla mia seggiolina lei in piedi; diceva che così avrebbe digerito meglio. Mi aveva insegnato a lavarmi i denti prima sotto e poi sopra, a mangiare gli occhi dei pesci, a pettinarmi fino allo sfinimento. Nel vecchio quartiere avevo qualche amichetta, ma era con lei che mi divertivo di più. Ora che era andata via, e mia madre vagava affranta per la casa, passavo lunghi pomeriggi davanti alla televisione scartando Cipster, Mars e Big Babol, elettrizzata dal suono della sigla di Bim Bum Bam: prendevo peso languendo in una bolla foderata di noia e solitudine.

La casa di Via del Pellegrino era un appartamento scenografico di duecento metri quadri, all’ottavo piano, senza ascensore, con una terrazza mozzafiato che affacciava sui tetti della vecchia Roma. Era di proprietà di una nota attrice teatrale, Valeria Moriconi, passata alla storia per aver recitato una parte incantevole accanto a Totò in Miseria e Nobiltà. Ricordo la lunghissima scala che divideva la stanza con il terrazzo dal piano di sotto; c’erano tre saloni e tre camere da letto, una cucina lunga e stretta, decine di metri quadri che io e mia madre non riuscivamo a riempire, esiliate nei nostri crucci.

Cenavamo in cucina appollaiate su alti sgabelli; mangiavamo mais, pasta al pomodoro, petti di pollo. Il telefono alle otto squillava, lei rispondeva: diceva , diceva insomma, diceva è tuo padre, e mi lasciava la cornetta. Io facevo silenzio e la guardavo, mentre con gli occhi bassi inzuppati di tristezza intingeva il pane nel piatto.

A settembre m’iscrisse alla Mater Dei, una scuola elementare per sole ragazze in Trinità dei Monti. Si trattava di un istituto blasonato che pullulava di cognomi altisonanti; le mie compagne si chiamavano Camilla, Lavinia, Ginevra, ed erano figlie di senatori, avvocati, chirurghi. L’edificio destinato ad accoglierci era imponente, con aule lustre e austere che affacciavano su giardini fioriti e crocefissi lignei che scintillavano sulle pareti immacolate. E poi c’era la divisa di ordinanza, rigorosamente blu: gonna plissettata, colletto bianco, ballerine e cerchietto. Non era consentito portare capelli troppo lunghi, né presentarsi con acconciature sofisticate. Durante le ore di lezione sedevamo educatamente tra i banchi, scandivamo le prime lettere dell’alfabeto e recitavamo il Padre Nostro sgranando il Rosario. Le suore erano severe, determinate: inculcare nei nostri cuori il cattolicesimo era la loro missione. Mio padre e mia madre in realtà erano atei, si erano sposati con rito civile, io non avevo ricevuto i sacramenti. In casa non si pregava e non si parlava di Dio. Avevo frequentato l’asilo e la prima elementare sempre in una scuola privata, ma c’era un clima diverso rispetto al rigido indottrinamento della Mater Dei. Qui si faceva sul serio: bacchettate sulle mani, occhi bassi, facce contro il muro; si pregava fino allo sfinimento, la merenda era condita con il senso di colpa, la giornata era puntellata di obblighi e pensieri cupi. L’unica cosa che mi piaceva di quella scuola era la divisa: vestirmi tutti i giorni allo stesso modo metteva ordine nel mio caos emotivo.

Non legai con nessuna delle mie compagne, del resto era impossibile fare amicizia durante le ore scolastiche; anche solo rivolgersi la parola sembrava costituire un azzardo agli occhi delle sorelle. Cercavo di essere più diligente possibile: temevo le punizioni e avevo cominciato a sviluppare un terrore sotterraneo nei confronti di Dio. La sera, anziché perdere tempo davanti allo specchio a pettinarmi come mi aveva insegnato tata Florentina, mi inginocchiavo accanto al letto e pregavo. Pregavo soprattutto per le bugie che dicevo.

«Hai mangiato due Kinder Cereali?»

«No, solo uno…»

Ave Maria piena di grazia…

Un giorno mi cadde un bicchiere in terra e scoppiai a piangere. Piansi immaginando l’inferno ingoiarmi. Mia madre era allibita; continuava a fissarmi mentre urlavo che Dio mi avrebbe punito. Mi abbracciò, cercò di rincuorarmi, disse che il Diavolo non esisteva, dovevo stare tranquilla. Il giorno dopo iniziò a interessarsi per farmi cambiare scuola.

Dal mondo monastico della Mater Dei finii in un istituto di sapore montessoriano in via dei Giubbonari. La “Trento e Trieste” era una scuola frequentata da un acquario incredibilmente eterogeneo e vivace. I miei nuovi compagni erano Siddartha, una bambina riccia e asciutta che era la figlia di Ilza, un mimo che ci aiutava ad allestire le recite di fine anno; Mirka, un bambino lungo e ossuto che a otto anni suonava il sax; Matteo Garrison, figlio di due musicisti africani, prima emigrati a New York e poi a Roma; André, con i capelli ramati, figlio di Beatriz, una ballerina brasiliana che ricordava Sonia Braga; Giuliano, che aveva il padre a Regina Coeli; Marta, la figlia del pizzicagnolo. E poi c’era Fabiola: una creatura con occhi lunghi e fulgidi capelli color onice, pervasa da una sensualità precoce che lasciava i maschi inebetiti. Era lei a capitanare il branco, una bambina tenace e fallica che aveva saputo conquistare la classe a colpi di parolacce.

In quella scuola si faceva il tempo pieno. La mattina studiavamo con la maestra Cuzzolaro, una signora attempata dai modi garbati, minuta e esile, vestita sempre allo stesso modo: gonna grigia, chignon argenteo e un filo di perle. Cercava di contenere la classe come poteva, insisteva sulla grammatica, l’aritmetica, la storia e la geografia; sedeva accanto ai bambini provando docilmente a persuaderli all’ascolto. Ogni tanto perdeva la pazienza; era come se cercasse di mettere in pratica un metodo del quale non era completamente convinta. Portava le mani al petto, arrossiva, tremando biascicava: «Ma insomma ragazzi, non possiamo andare avanti così, questa è una scuola, non un campo estivo!» Nessuno le dava retta, e dopo un attimo di silenzio il disordine riprendeva.

L’entusiasmo e l’attenzione si accendevano quando entrava in scena lei – la maestra Sciunzi, un’energica ragazza dall’aria volutamente sciatta, con una tolfa a tracolla, dialettica, sempre pronta ad accogliere il plauso dei bambini, ad accontentarne le fantasie. Con lei si disegnava per ore, si faceva giardinaggio (avevamo allestito un orto sul terrazzo della scuola; semi di pomodoro, zucca, papaveri), ogni settimana si cambiava la disposizione dei banchi assecondando l’umore: oggi siamo una esse, siamo triangolari, siamo un elissi, un cerchio, siamo liberi. Si batté come un’erinni per portarci al cinema Farnese ogni mercoledì mattina. Nella didattica della Sciunzi il bambino doveva seguire le proprie inclinazioni, potenziarle al massimo, anche se ciò significava trascurare le materie principali.

Il primo anno rimasi in disparte, ostinatamente seduta al mio banco, incapace di relazionarmi. Avevo continuato a indossare la divisa della Mater Dei sebbene mia madre mi avesse suggerito di toglierla. Ogni mattina varcavo il grande portone ad arco a piccoli passi, retta e compita nella mia gonna plissettata, mentre una fiumana di ragazzini in jeans, giubbotto di panno, Kefiah e Clarks mi travolgeva imboccando l’ampio corridoio. Non impiegai molto a diventare l’oggetto di scherno della classe. «Cicciona viziata, chi ti credi di essere?»

All’inizio furono parole, insulti, scherzi beffardi; dopo un po’ cominciarono a suonarmele, spesso nell’ora ricreativa, su in terrazzo, dove la Sciunzi lasciava i ragazzi liberi di esprimersi. Fabiola capitanava il cerchio nel quale venivo stretta: pugni, calci, spinte. Incassavo i colpi come un sacco di sabbia; senza piangere, tornavo in classe rintronata dalle botte e dall’umiliazione.

Un giorno rincasai con un dito lussato e un enorme ematoma sulla tempia. Mia madre m’incalzò per ore fino a quando non sputai il rospo. «A scuola mi menano.»

I miei genitori chiesero di parlare con l’insegnante; tra loro non comunicavano quasi più, appena un saluto di circostanza nei giorni in cui mio padre passava a prendermi; eppure decisero di affrontare insieme il problema.

La maestra Sciunzi indisse una riunione, un dibattito in piena regola dove tutti in egual misura avrebbero avuto la possibilità di dire come la pensavano. Arrivai scortata dai miei genitori e presi posto tra loro. Un presepe scomposto. Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata dalla vergogna; il senso di colpa che mi avevano instillato alla Mater Dei mi suggeriva che tutte quelle botte erano meritate, dovevo pagare, ero rea, andavo punita.

Il processo si svolse nell’aula della terza C: le pareti erano tappezzate dei disegni ispirati dalla Sciunzi. Alle sei di sera, quando il buio cominciava a calare, la maestra prese la parola: «Allora, Federica è tornata a casa ferita. Federica dice che durante la ricreazione la menate, è così? Giuliano, dico a te, guardami, è così?»

Giuliano fissava il pavimento di piastrelle arancio, le spalle strette da uccellino. Nessuno fiatava. Le sedie erano dislocate in cerchio. Seduta tra mio padre e mia madre mi sentivo ancora più fragile, più stupida.

«Va bene, non ci siamo capiti. Qui c’è un problema. E il problema va risolto. Parliamo? Perché la menate?»

La maestra Sciunzi aveva densi riccioli che le cadevano sulla fronte ogni volta che si muoveva. Era sempre in cerca di qualcosa, ti puntava gli occhi addosso, accavallava le gambe, ti osservava con aria interlocutoria finché non reagivi.

«Perché è stronza!» disse Fabiola a un tratto. Teneva lo sguardo alto, non aveva paura di nulla.

«Marta, sei d’accordo? Federica è stronza?»

Marta annuì; pesava sì e no quaranta chili, mosse la testa in avanti come una marionetta disarticolata.

«Sì, è stupida, è sempre triste, non gioca, non parla, che ci viene a fare a scuola?» Mirka aveva la voce più sicura.

«E poi perché si veste in quel modo?» rincarò Fabiola. «Chi si crede di essere?»

La Sciunzi si voltò verso di me: «Federica, lo senti che dicono? Bisogna che ti svegli, che ti difendi.»

L’atteggiamento della maestra ci lasciò a bocca aperta. La Sciunzi non voleva discutere l’aggressività della classe nei miei confronti, piuttosto indagare le ragioni della mia passività, darmi una spinta verso la vita. Ragionava come un allenatore di boxe. «Te le hanno suonate, avanti, alzati in piedi, tocca a te!»

Non riuscii a dire nulla, fissai un punto a spillo fino che la vista sfumò in un abbaglio; aspettavo che tutto finisse, avrei voluto scomparire tra le pieghe della mia gonna, assottigliarmi.

Mio padre provò a dire la sua: «Maestra, ad ogni modo, la violenza non è una soluzione.»

«Mi chiamo Teresa… e tu?» rispose lei con un sorriso disteso, gli occhi freschi della giovinezza, fiduciosa di aver trovato la soluzione, quella cosa lampante, che era lì, che tutti fiutavano, tranne noi.

«Valerio…» disse sorpreso mio padre.

«Valerio, aiutiamo Federica a reagire…»

Mio padre restò con la bocca asciutta e nessuno aggiunse nulla. Le pedine non si erano mosse di un solo millimetro, l’odio della classe si era fortificato, una muraglia di sguardi m’intrappolava nella mia postura di vittima. Tutti andarono via. La Sciunzi ci salutò con enfasi. Era incredibilmente entusiasta del risultato ottenuto.

Quando fummo fuori dalla scuola, mio padre fece un sospiro nel buio, guardò mia madre e lei, tenendomi per mano, disse: «Amore andiamo, è tardi, fa freddo.»

Tornai a casa spossata dalla mortificazione: avevo fatto la spia, avevo ascoltato in silenzio tutte quelle offese, subendo gli sguardi accusatori dei miei compagni, ora che la Sciunzi li aveva esortati a parlare. Ero la bambina grassa che si faceva accompagnare da mamma e papà, la spiona, quella con la divisa che non sapeva difendersi, la stronza.

Due giorni dopo, nella palestra con le spalliere in legno, la cavallina, le palle mediche dislocate in fila, i bastoni di legno ammassati in un cesto, il linoleum come una scacchiera monocromatica, il cerchio si formò di nuovo: c’era il sole fuori, tagliava la palestra in fasci obliqui; qualcuno iniziò a spingermi, i corpi ondeggiavano, le facce si confondevano, erano solo mani, calci, gomitate, ginocchia piantate nella schiena. Qualcosa improvvisamente mi animò; anziché atterrirmi, la paura mi scosse. La voce della Sciunzi mi riecheggiava in testa. Bisogna che ti svegli, che ti difendi! Mi mossi veloce e decisa, uscii dal cerchio e afferrai il bastone di legno della palestra, lo brandii, stringendolo forte all’impugnatura; poi cominciai a colpire. C’era una bestia dentro di me che fino a quel giorno era rimasta sopita, e adesso ruggiva, mi tirava gli arti da dentro, sapeva esattamente in che direzione colpire. Diedi bastonate sui costati, sulle teste, gridavo che dovevano lasciarmi in pace. Gridavo, sì, senza piangere.

Aveva ragione la Sciunzi: bisognava reagire. Nessuno mi toccò più con un dito, nessuno si permise più di attaccarmi. Né con le parole né con le mani.

Anzi si avvicinarono tutti e io mi schiusi, presi confidenza, dismisi i panni della vinta, dell’esclusa, dell’emarginata.

A Giugno ero al fianco di Fabiola; mi aveva presa nella sua squadra di palla avvelenata; indossavo jeans, magliette colorate e espadrilles rosa che mi aveva tinto mia madre; mi facevo una coda di cavallo alta come un personaggio dei cartoni animati che adoravo: Penelope Pizzo. Senza rendermene conto, cominciai a dire parolacce. Mortacci era quella che preferivo, la usavo continuamente. «Mortacci, è spuntato un pomodoro!»

Lavorai per quattro mesi con la Sciunzi a un cartellone teatrale. La Cuzzolaro era incredibilmente fiera dei miei pensierini, e a fine anno ballai in prima fila alla recita scolastica: ero una ciliegia di lurex rossa che saltava sulle note di Toquinho (i mesi di lezioni con la madre di André avevano dato i loro frutti).

Iniziò un interregno nel quale, nonostante la tristezza che si respirava in casa, a suon di bastonate presi a farmi largo nella vita. Cominciavo ad abituarmi alla scuola, all’appartamento in Via del Pellegrino, all’ombra di mia madre che si spostava da un salone all’altro senza meta.

Quello che seguì fu un anno in cui il suo pianto si spense gradualmente e l’abulia sfumò. Cominciò a uscire la sera, dapprima soltanto nei weekend, poi anche durante la settimana. Aveva ripreso a frequentare una vecchia amica, Lidia, una ragazza bene dei Parioli che ora viveva a due passi da noi, in Via dei Cappellari, insieme a uno spilungone inglese biondo cenere, Cristian, e a due spinoni con ciocche di pelo arruffate come dred che di notte dormivano sdraiati nel salone tra cuscini e tappeti indiani. Spesso quando tornavo da scuola li vedevo a campo de’ Fiori mentre mangiavano pizza bianca o fumavano con gli occhi rivolti al sole, i cani scodinzolanti ai loro piedi. Furono Lidia e Cristian a introdurre mia madre in quella parte di Roma che sul finire degli anni ‘70 accoglieva soprattutto comunisti estremi, alternativi e rivoluzionari. Per una certa borghesia che si era svegliata tardi, quegli anni rappresentarono l’onda lunga del Sessantotto. Chi si trasferiva a Campo de’ Fiori dai quartieri alti si soffiava via dalle spalle il perbenismo, gli ideali democristiani, parlava un romano ostentato, fumava erba, dava del tu a chiunque e giocava a fare l’artista. Fu una forbice di anni, prima dell’avvento del socialismo, in cui si respirava un’aria di sinistra libertaria, che in realtà era a sua volta un conformismo capovolto, una forma di omologazione, una maschera, come la divisa della Mater Dei.

Mia madre sembrava a suo agio nei panni della rivoluzionaria figlia dei fiori. L’aspetto da signora per bene, buone maniere e sobrietà, faceva parte di quella vita che stava cercando di dimenticare, non c’erano più i ristoranti con le posate d’argento e i tovaglioli di lino, i locali dove ballare sotto luci stroboscopiche fino a tarda notte come l’Opengate e il Jacky ‘O, sbronzandosi di gin tonic e tirando cocaina. C’erano le trattorie a buon mercato, la matriciana e il vino rosso; si camminava per le strade del centro illuminate da una luna di piombo, si finiva nelle case suonando le chitarre o i bonghi, si ballava strusciando gli occhi su tappeti di cocco, si fumava hashish, erba, si parlava fino alle prime luci dell’alba.

Anche mia madre cominciò a invitare un sacco di gente; il cerchio si allargava di volta in volta, il citofono di Via del Pellegrino suonava in continuazione: persone sconosciute passavano, si fermavano oppure andavano via dopo qualche minuto. Partecipavo anch’io all’inizio delle serate, la promiscuità faceva parte del nuovo spirito rivoluzionario; cani, gatti, bambini, uomini e donne: non c’erano distinzioni. Mi sedevo sul divano con il piatto in mano e li guardavo, era come stare davanti alla televisione. Spesso venivano a parlarmi, ma non ero trattata da bambina. Non mi era chiaro se mi considerassero già adulta o se loro si comportassero come ragazzini. Imparai presto a conoscerli uno a uno. Hanghel, un filosofo spagnolo che girava su un Honda CB 500 Four K2; Pier Carlo, un alcolizzato appassionato di vintage che aveva rubato la faccia ad Albero Sordi e che disegnava Micky Mouse, Paperino e Pippo come Michelangelo; Giuliana, una minuta ragazza calabrese che parlava giapponese e assiepava origami; Angelo e Massimo, due splendidi trentenni accompagnati da ragazze mozzafiato; Milly, che vendeva lampade a Via dei Cappellari; Graziano, che blaterava convulsamente sulle Brigate Rosse.

Mangiavano fumanti piatti di pasta, poi spengevano le luci e la casa s’illuminava di citronelle; le candele erano sparpagliate ovunque, l’incenso mitigava l’odore della marijuana: «Vai a dormire amore, è tardi» diceva mia madre a un certo punto della serata.

La faccia rivolta verso la parete, il coniglio di pezza da stringere sulle costole, lo sciamare di voci che s’allontanava, mentre Haidi mi accompagnava in camera. Era la ragazza filippina che mia madre aveva assoldato per tenermi compagnia quando usciva. Ordinata, mite, taciturna, Haidi pattinava nelle pulizie, stirava e cantava sommessamente sempre la stessa litania, per ore.

Con Haidi era entrato nella mia vita anche Tommy, un piccolo criceto beige che mi fu regalato per il compleanno. Tommy dormiva accanto al letto, era il mio unico interlocutore: un bambino a quattro zampe, un amico immaginario di vene, pelo e olfatto cui raccontavo i miei segreti. «Tommy, lo sai che mi è successo oggi?» Passavo interi pomeriggi a inseguirlo, lo tenevo in braccio come un neonato, mi piaceva guardarlo mentre si riempiva la bocca di cibo. Defecava di continuo, lasciandosi dietro un sentiero di palline solide; ogni giorno stendevo a terra tre pagine di un quotidiano, poi pulivo la gabbia e versavo acqua nel bricchetto; quando non correva sulla ruota bianca, il mio compagno di giochi usciva annusando il pavimento in cerca di cibo; sparpagliavo in terra semi di girasole e mais, e mi sdraiavo sul petto mentre Tommy spingeva il piccolo muso contro il mio, gli occhi senza iride opachi come biglie.

Ero preoccupatissima quando Lidia e Cristian venivano a casa con i loro spinoni; chiudevo Tommy nella gabbia chiedendogli scusa per il torto, perché in fondo era a casa sua, spettava a lui circolare libero.

Tommy fu il primo cui raccontai di Giulio.

Era arrivato poco dopo agli altri, ma conquistò immediatamente la scena. Girava con una corda lunghissima cui erano attaccate un mazzo di chiavi, la faceva roteare nell’aria ed era capace di farle volare da una mano all’altra con incredibile maestria, sembrava un giocoliere. Quando tornò mi affacciai sperando che facesse ancora qualcosa di sorprendente. E lo fece. Si avvicinò, masticando una gomma americana con cui faceva enormi palloncini, e dalle mie orecchie fece apparire cento lire come fossi un salvadanaio. Seduto sui talloni mi sorrise e mi regalò il bottino. Era di una bellezza abbagliante, un filiforme ragazzo etiope da parte di padre, italiano per madre: aveva ventotto anni, un Apollo mulatto altissimo ed esile come un giunco, con denti di madreperla, molleggiato e scolpito. Aveva un naso piccolo e importante, gli occhi lunghi e definiti come se un tratto di china li avesse descritti. Indossava sempre Superga bianche e camicie ampie, si muoveva rapidissimo, metteva la musica a tutto volume e ballava We will Rock you. Di tutti quelli che passavano per casa, Giulio era l’unico che dimostrasse un interesse autentico nei miei confronti. Anche quando me ne stavo chiusa in camera, lui veniva a salutarmi; il suo modo di fare mi catturava, era spontaneo, libero.

E poi aveva un incredibile ascendente su mia madre.

Quando compariva, lei s’illuminava. Le veniva fuori una risata scrosciante, sbatteva gli occhi, gesticolava, come se non riuscisse a contenere l’euforia. Aveva cambiato modo di vestirsi: indossava pantaloni spantex fuxia, magliette fluorescenti, giacche enormi con spalline a punta; e una serie di gadget, tra cui braccialetti di cuoio nero, con borchie e zirconi. Si era persino tagliata i capelli, i suoi lunghi capelli biondi, cedendo alla moda della permanente. Cominciava a somigliare ai suoi nuovi amici. Una trasformazione che Giulio sembrava approvare, che forse aveva incoraggiato, trovando in mia madre un’adepta compiacente.

Che tra lei e Giulio stesse accadendo qualcosa era evidente, non c’era bisogno di parole. E le parole non c’erano. Forse non mi sorpresi la prima volta che lo vidi gironzolare per casa di primo mattino. E neanche quando lo trovai nel letto di mia madre completamente nudo. Non era imbarazzato, al contrario; era a suo agio: Giulio non subiva il giudizio del mondo, men che mai quello di una bambina che lo scrutava senza avere il coraggio di alzare gli occhi.

Cominciò a farsi vedere anche di giorno, passava più tempo insieme a mia madre. Si erano messi a fare magliette con l’aerografo; appendevano delle fruit of the loom bianche a un pezzo di compensato e poi ci sparavano sopra il colore, una gettata istintiva alla Pollock; si divertivano come adolescenti, facevano una maglietta a turno, sfidandosi, correggendosi, iniziando tra un colpo di giallo e di azzurro, un amore che era un gioco. La signora di trentatré anni, fresca di separazione, con l’esotico ragazzino nero.

La sera si preparava con cura nel bagno verde acquamarina, si travestiva: «Vado a mangiare con Giulio…»

La mia deliziosa mamma bionda non era più dalla mia parte, era sparita nelle trame delle lenzuola bianche su cui si stagliava il corpo mulatto di Giulio. Andavo a scuola da sola, tornavo con le mani in tasca, salivo su una sedia in cucina, arrivavo ai fornelli, mi scaldavo una scatola di mais con il burro, poi alle cinque del pomeriggio accendevo la televisione e sognavo di essere un’orfana bionda con i codini.

Giulio prese posto nelle nostre vite allungandosi giorno dopo giorno come un’iguana. Aveva un modo primitivo di stare al mondo che affascinava mia madre, mangiava spesso con le mani, girava nudo per casa, scalzo, si avvoltolava dei parei africani intorno alla vita, alla testa, al collo, aveva la risata facile e contagiosa, e un eleganza innata. Con me non si comportava da patrigno, non impartiva ordini e non pretendeva di educarmi; cercava di coinvolgermi in modo burlesco e infantile, mi faceva fare le capriole in aria, mi sollevava da terra, la sua forza fisica era abbacinante. Il ballo, l’esuberanza, quella condizione per cui il corpo supera la mente, erano le strade che congiungevano i nostri mondi. Due bambini amati dalla stessa donna.

La musica suonava sempre, anche in macchina, scorrazzavamo per la città su una Mini novanta veloce come un furetto, che Giulio guidava; da dietro li guardavo, lei bianca latte e biondo platino, lui bruno e mulatto. La sua presenza potenziava una parte che era dentro di lei, attaccavano bottone con tutti, allacciavano amicizie sul momento, si tiravano dietro la gente investendola con la loro allegria. S’intendevano con gli occhi, con il corpo, si stuzzicavano di continuo. Mentre lui guidava, le mani si annodavano sul cambio, c’era un campo elettrico dominato dalla loro attrazione fisica che a volte mi coinvolgeva, spesso mi turbava. Soprattutto di notte, quando li sentivo gemere nella camera da letto accanto alla mia. Ridevano, belavano: la mia stanza si trasformava in uno spazio vuoto su ci si scagliavano orgasmi ostentanti come meteoriti.

Ogni tanto Giulio perdeva la pazienza o rispondeva in modo perentorio. Fumava moltissimo hashish. Iniziava la mattina presto a girarsi una canna, riusciva a fare tutto con una mano. Il fumo influenzava parecchio il suo modo di essere; con gli occhi scheggiati di capillari rossi ondeggiava per casa, sorridendo; si muoveva leggero come in assenza di gravità. Altra volte diventava schivo, freddo. La sua persona sembrava attraversare un confine dove la temperatura del suo umore cambiava, in un attimo la sua allegria poteva cadere a terra, smascherando uno sguardo arrabbiato, addirittura guardingo.

Una domenica partimmo per una gita fuori porta. Ci fermammo al primo autogrill dopo il casello, comprammo dei panini e Giulio si mise in fila per pagare. La cassiera rimase infastidita dai suoi modi sbrigativi: scattante, con un rock immaginario che gli rombava nelle orecchie, era passato davanti scavalcando un tizio. La donna sussurrò qualcosa di molto offensivo a denti stretti: «Ma guarda sto’ negro di merda…» Lui sentì, si voltò e la guardò impietrito. Rimase con le gambe aperte e ben piantate al suolo; la furia che lo stava attraversando era visibile, aveva le vene del collo in rilievo, digrignava i denti. D’un trattò liberò la bestia, cominciò a tirar giù le rastrelliere con le musicassette e i giornali, a rovesciare i cesti delle caramelle, poi prese a calci la cassa e grugnì in modo disumano. I baristi si affacciarono dal bancone, gli avventori posarono tazze e cornetti e si voltarono. Giulio da solo lottava con tutte le sue forze. Quando si fermò sfiancato, con le mani che gli tremavano si avvicinò alla cassiera: «Prova a ripeterlo ad alta voce, stronza!» urlò, sputandole in faccia zampilli di saliva.

Io e mia madre lo seguimmo verso l’uscita, eravamo incredule, non potevamo immaginare una furia simile. Non pagò i panini e nessuno si permise di proferire parola. Giulio si era scagliato contro quella donna in nome della sua razza, una cellula impazzita nel suo corpo si era ribellata con forza primigenia a quella forma di discriminazione. Il punto era questo. Non far vedere uno straccio rosso al toro.

Una settimana dopo eravamo di nuovo in macchina, una Ritmo ci tagliò la strada, Giulio tirò giù il finestrino e insultò il guidatore, che gli rispose per le rime, ma senza usare epiteti razzisti. Lui lo inseguì, sgattaiolando con la Mini nel traffico romano, tagliò la strada al conducente della Ritmo impedendogli di procedere, tirò il freno a mano con forza, prese il crick da sotto il sedile e balzò fuori dall’auto. Si avventò sul pover’uomo, lo tirò fuori come se non avesse peso, un fazzoletto tra le sue mani nere, lo scaraventò sul cofano e picchiando col crick a un centimetro dalla sua faccia, urlò: «Pezzo di merda, ora voglio vedere se continui a fare lo stronzo.»

Gli distrusse la macchina e andò via come aveva fatto dall’autogrill. Neanche quella volta mia madre disse nulla.

Ma cominciò ad aver paura, e io con lei.

Se Giulio era in casa, ci muovevamo in punta di piedi; mia madre era molto attenta a non raccogliere le provocazioni, ma bastava che non gli prestasse attenzione perché lui perdesse la testa. Quando era fuori di sé, dirottava la rabbia sul primo oggetto che gli capitava a tiro. Sembrava come dominato da un bisogno primario di fare a pezzi qualcosa. Solo così riusciva a placarsi.

A Pasqua arrivò un gigantesco uovo di latte: era alto un metro, screziato da floreali disegni di zucchero, avvolto in una frusciante carta trasparente con un nastro rosso ben in vista. Mia madre lesse il bigliettino che lo accompagnava e disse immediatamente: «Diciamo che l’ha mandato papà, sennò Giulio si arrabbia.»

Annuii. Verbalizzando lo stato delle cose, mia madre segnò un confine tra noi e lui. Era un reclutamento: dovevamo fare squadra se volevamo sopravvivere.

Ascoltami bene, io e te.

Una sera mi ritrovai a letto con loro, Giulio leggeva “Il Manifesto”, avevamo appena finito di cenare, e mia madre mi aveva dato un pezzo di cioccolata; mentre masticavo dissi: «Che buono! Chissà chi è che ci ha regalato un uovo così grande.» Non ricordo di aver fatto caso all’espressione di mia madre, né di aver avuto il tempo di cogliere la mia inavvedutezza; nella testa c’è l’immagine di Giulio che stringe il giornale tra le mani e salta dal letto un istante dopo aver visto mia madre scattare in direzione del corridoio, mentre io corro a perdifiato dietro di loro, per andare a rifugiarmi sotto al tavolo, da dove vedo Giulio strattonare brutalmente mia madre, e colpirla, colpirla senza ricordarsi che è la donna che ama, che ci ama, senza pensare che si tratta di mia madre.

Le conseguenze di quel pestaggio furono un occhio tumefatto e una rotula fratturata. Mia madre rimase claudicante per un mese. Giulio riparò dietro uno sguardo basso da cane bastonato; in un tempo che non aveva lo stesso peso delle percosse (ci voleva una vita per dimenticare quell’evento), i due riprese ad amarsi.

Ma la violenza ormai aveva preso il sopravvento: poteva accadere che Giulio l’afferrasse per il collo, la colpisse in faccia o la buttasse a terra.

Non riuscivo più ad avvicinarlo, e ogni volta che vedevo il suo corpo accendersi scappavo in camera, infilavo le cuffie del walkman e ascoltavo Love me tender di Elvis Presley, accarezzando Tommy fino a sfinirlo.

Quando iniziarono le violenze domestiche, mia madre cominciò a mandarmi a casa di Fabiola. In un anno ero stata da lei solo due volte, ora ci andavo tutti i giorni; dopo scuola non passavo neanche più da casa. Il padre di Fabiola era il portiere di un famosissimo plesso romano, Palazzo Orsini, che confinava con il Teatro Marcello; la famiglia Barone – il padre Aldo, la madre Tina, Daniela, la sorellina di Fabiola, Carletto, di appena cinque anni, e tre volpini meticci e grassi che Tina sgridava di continuo – vivevano in una casa piccolissima (prima del grande cancello del palazzo) con i soffitti bassi e i divani fiorati avvolti nel cellophane, piena di ammennicoli di ogni genere, bamboline di porcellana, souvenir turistici, animaletti di vetro trasparente con occhi di pietruzze neri.

I Barone erano siciliani di origine, ma avevano vissuto a Ipswich per diversi anni; parlavano un dialetto colorato di parole inglesi storpiate che impiegai parecchio ad assimilare. Per merenda Tina, ci dava del porridge tiepido strofinato nello zucchero bianco che lei stessa aveva preparato. Assecondare le usanze inglesi li faceva sentire extraordinary cool, avevano vissuto in Inghilterra, e questo alimentava un fortissimo orgoglio; si percepivano un nucleo internazionale ingabbiato nella portineria di un antico palazzo romano.

Dopo la merenda io e Fabiola scorrazzavamo per ore all’interno di Palazzo Orsini, giocando a palla avvelenata, a nascondino e a tennis; poi sfiancate rincasavamo e ci chiudevamo nel bagno, dove Aldo lasciava impilati, in bella vista, dei fumetti pornografici. Mentre Tina preparava la cena, restavamo abbagliate, sedute in terra a guardare i giornalini; erano minuti estatici, il corpo veniva attraversato da scosse improvvise, il senso di eccitazione si faceva tangibile. Finché sentivamo Aldo bussare alla porta. «Faci go in!» ci urlava da fuori, e quando uscivamo a testa bassa rifilava a Fabiola un ceffone. «Go out immediatamenti!»

Anche in casa Barone la violenza era sempre in agguato. Tra di loro si picchiavano liberamente, erano prodighi d’insulti, volavano pantofole, si schiantavano piatti; Aldo richiamava tutti all’ordine gridando «Shaddup!», con il mignolo destro (su cui spiccava un’unghia di almeno due centimetri) teso davanti alla bocca. Gli procurava un certo gusto ammonire la famiglia con quello che riteneva il suo dito più importante, al quale aveva destinato un anello d’oro massiccio. Solo davanti agli inquilini del prestigioso palazzo dissimulava la naturale protervia. Godeva nel comandare, e lo faceva come un bimbo imperioso. Si accaniva su Tina e Fabiola, che a loro volta se la prendevano con Daniela e Carlo, ai quali non restava che rifarsi sui cani; la violenza rimbalzava dal più grande al più piccolo, ma; la brutalità negli atteggiamenti rifletteva una bestialità atavica. All’interno dell’esistenza buia e coatta che i Barone conducevano la violenza era il solo linguaggio intelligibile.

La mia testa era satura di schiaffi, pedate, spinte, insulti, grida, eiaculazioni, glandi enormi e donne inculate, sopraffatte. La pornografia non aiutava, mandava in orbita altre sensazioni ingestibili, ma ormai con Fabiola passavamo sempre più tempo in bagno, dove il padre, settimanalmente, rinfrescava il repertorio di oscenità di cui ci nutrivamo. A dieci anni eravamo consapevoli che il mondo si divideva in vittime e carnefici; noi volevamo appartenere alla prima gerarchia.

Fu Fabiola che aprì le danze alla violenza sul mondo animale. Era come se quell’informe massa di emozioni brutalizzanti dovesse trovare uno sfogo. Ce la prendevamo con insetti piccolissimi, davamo fuoco ai formicai, schiacciavamo le coccinelle oppure amputavamo i grilli delle zampe. Una volta riuscimmo a prendere una ranocchia e Fabiola suggerì di metterla al posto del detersivo nella lavatrice; sedute a gambe incrociate guardammo l’oblò macchiarsi di filamenti verdi. E ridemmo. Lei era la mente, capitanava la nostra piccola squadra come una veterana, che si trattasse di inventare un gioco con la palla, di scegliere l’immagine più accattivante di un giornalino, di ammazzare un animaletto; aveva sempre le idee chiare, era perentoria.

Il primo gioco veramente strutturato che facemmo riguardava la faccenda di Alfredino Rampi, il bimbo di sei anni caduto in un pozzo nella borgata romana. Tutta l’Italia era incollata davanti al televisore facendo il tifo per il piccolo bimbo e sperando che vigili del fuoco o speleologi riuscissero a salvarlo. Aldo rimase tre giorni sdraiato davanti alla piccola televisione, succhiandosi l’unghia del mignolo e incaricando a turno i figli di portargli da bere e mangiare. In Inghilterra, ripeteva, una cosa del genere non sarebbe mai successa. Tina stava in piedi vicino al marito e stringeva un fazzoletto al petto, chiudendo gli occhi ogni volta che la telecamera si avvicinava al pozzo. Se l’interesse di lui era rivolto soprattutto all’inefficienza dei soccorsi, per Tina era un supplizio dover assistere alla morte in diretta di quel povero innocente. Noi invece avevamo catturato una lucertola, le avevamo legato la coda e l’avevamo calata nel buco del lavandino. Facevamo la spola tra il piccolo salotto di casa Barone e il bagno, cercando di riprodurre la realtà, con una promessa: qualunque fosse stato il destino di Alfredo, noi l’avremmo ignorato per uccidere la lucertola. Quando il decesso di Rampi fu annunciato, mentre l’Italia piangeva di fronte alla morte crudele di un bambino di appena sei anni, noi saltellammo divertite in bagno, tagliammo il filo gridando: «By by Alfredino!»

Misuravamo la nostra forza su esseri indifesi, assorbivamo la violenza e la restituivamo in forme sempre più crudeli. Ma la faccenda di Alfredino dimostrava una cattiveria più articolata: la lucertola era davvero un essere simbolico, noi desideravamo la morte di quel bimbo, ecco il punto. Anche con la pornografia avevamo fatto un salto in avanti: assuefatte dai fumetti, che seppur incredibilmente espliciti restavano dei meri disegni, c’eravamo spinte tra i ruderi del Teatro Marcello, pullulanti di siringhe e veri giornali porno. Passavamo ore davanti a quelle immagini che non sembravano assecondare nessuna trama, erano corpi in bianco e nero che si montavano senza requie, un cumulo di uomini per lo più senza volto e di donne con ciglia da cerbiatte e facce imbrattate.

Sentivo che il mio ruolo di gregaria in qualche modo mi scagionava dai comportamenti deplorevoli che mettevamo in atto. Se facevo quello che facevo era per assecondare Fabiola, per mantenere vivo il legame che ci univa. La sua famiglia mi aveva offerto un angolo nel quale rifugiarmi, una casa dove la violenza domestica assumeva un sapore completamente differente da ciò che avveniva da noi, da loro amarsi significava implodere nello spazio angusto che li ospitava, lasciar esplodere una rabbia quotidiana senza sangue e umiliazione.

A mia madre non parlavo di quanto accadeva in casa Barone.

Aldo l’aspettava sempre con me quando veniva a riprendermi, gli piaceva da pazzi quella bionda mozzafiato che conosceva benissimo il signor Notarbartolo, l’inquilino più altolocato di palazzo Orsini, che era stato un suo fidanzato in gioventù, e l’aveva invitata nel suo faraonico appartamento – quello che Tina lucidava a fondo ogni settimana – decine e decine di volte.

«È lui che ci ha mandato l’uovo, sai?» mi disse mia madre una sera mentre mi riportava a casa, dopo aver chiacchierato con Aldo che la guardava sbavando.

«Lui chi?»

«Il signore che vive nel palazzo di Fabiola, Emilio Notarbartolo. L’ho incontrato la prima volta che ero venuta a prenderti, abbiamo parlato un po’. Ci ha mandato l’uovo… ti ricordi la storia dell’uovo?»

La storia dell’uovo.

Anche Fabiola ogni tanto veniva a casa nostra. Ero terrorizzata che Giulio potesse scoppiare di fronte a lei, non le avevo raccontato mai niente di quanto succedeva tra lui e mia madre. A dieci anni le relazioni sono costituite da fatti, non certo da confessioni; se Aldo aveva una predilezione per mia madre, Fabiola aveva perso la testa per Giulio, che di fronte ai suoi grandi occhi neri giocava il ruolo del giullare e la incantava come aveva fatto con me all’inizio. Lei era totalmente stregata; esibiva forme di seduzione che ancora non dominava, ma che erano germogliate in modo prorompente. Aveva solo un anno più di me, ma non era più una bambina, e i suoi atteggiamenti avevano seguito l’ellissi della maturità precoce.

Subito dopo la faccenda di Alfredino, lei venne a casa, e mentre eravamo sul terrazzo con mia madre e Giulio ad annaffiare le piante, d’improvviso le bretelline della sua canottiera caddero e lei con il seno nudo rimase immobile e sorridente a fissare Giulio; non fece il gesto di coprirsi, nessun pudore, era lì a offrire se stessa senza abbassare lo sguardo. Nella sua famiglia erano tutti bassi e tozzi, ma lei no, era dinoccolata e sensuale, piuttosto alta per la sua età e già sviluppata, con i seni che premevano per uscire e una pelle diafana cosparsa di ciuffi di peli neri sotto le ascelle e sul sesso.

La gelosia e l’imbarazzo mi travolsero. Capii che venire a casa mia significava per Fabiola un appuntamento con Giulio, e cioè l’uomo da cui stavo fuggendo terrorizzata, al punto da scegliere la sua famiglia alla mia. Un appuntamento adulto, dove Fabiola raccoglieva le forze per sedurlo.

Quella sera, dopo che se ne fu andata, mi stesi sul letto ad accarezzare Tommy; ero stordita dal dolore. La mia amica voleva stare con Giulio, in quel modo. Grazie ai giornalini di Aldo, avevo focalizzato cos’è che facevano mia madre e Giulio di notte, e se l’immaginazione mi aveva atterrita, il Decameron delle immagini che avevo assimilato mi scioccava. Era al sesso che pensavo, senza metterlo davvero a fuoco, a Giulio, a Fabiola, a mia madre, ad Aldo e Tina, che non risparmiavano certo i figli, stipati in un letto a castello di tre piani, nella stanza accanto, divisi da un foglio di cartongesso.

Mentre ero sul punto di addormentarmi, quella sera, sentii un incredibile rumore provenire dalla camera di mia madre; mi affacciai e vidi Giulio che la caricava come un ariete; le s’infilò tra le costole facendola sobbalzare, poi la sbatté contro il muro, e quando lei cercò di divincolarsi se la caricò sulle spalle e la sporse con tutto il busto oltre la ringhiera del balcone, la testa e le braccia ciondolanti nel vuoto; eravamo all’ottavo piano. Io assistetti immobile alla scena, in apnea.

Tornando in camera aprii la gabbia e liberai Tommy; l’unica cosa che volevo era ritrovare un briciolo di umanità accarezzando il suo corpicino morbido, assorbire il tepore del suo pelo che ricopriva l’esile carcassa. Giocammo un po’, poi quando cercai di acchiapparlo scappò sotto al letto; lo tallonai, spostai la sedia, nulla, mi sfuggiva. Faceva parte del gioco. Fu un lampo. Un’accecante sensazione di rabbia; persi completamente il controllo, esattamente come accadeva a Giulio. La velocità con cui un cerino strusciato prende fuoco. Afferrai Tommy per portarlo all’altezza del mio sguardo, ma non bastarono gli occhi a svuotare la mia rabbia: avvolsi l’intera mano intorno a lui e lo stritolai, consapevole che l’avrei ucciso. Ero lucida, non mi stavo difendendo come quel giorno in classe, ero palesemente l’essere dominante, il più forte, l’assassino. Quando mollai la presa era schiacciato sul pavimento, muoveva disarticolato le zampette; dovevo avergli spaccato la spina dorsale. Lo portai sul balcone, lo stesso balcone dove mia madre qualche ora prima agitava le braccia, e con una schicchera lo feci volare giù.

Poi piansi. E svenni. Uccidere Tommy non era servito a niente.

______________________
Federica De Paolis è nata a Roma nel 1971. Dialoghista cinematografica, ha pubblicato per Fazi Lasciami andare (2006) e Via di qui (2008). Per Bompiani, Ti ascolto (2011) e Rewind (2014). Per la NEO Edizioni ha cura­to l’antologia Pensiero Madre (2016). E’ in uscita con Mondadori, il romanzo Notturno Salentino (aprile 2018). I suoi libri sono tradotti in diverse lingue.

Commenti
Un commento a “Bestie”
  1. Ally ha detto:

    Non conoscevo l’autrice, e con questo racconto mi ha ipnotizzata allo schermo. Grazie mille delle immagini che hai saputo raccontare, perché la violenza e la stessa soggettività si realizzano in una complessità paradossale e contraddittoria, non stanno mai all’interno di un percorso lineare consequenziale, logico. E questo racconto, con enorme maestria riesce a ricostruire questo impietoso battersi della vita per la sopravvivenza attraverso e contro la violenza.

Aggiungi un commento