Microfinzioni 1

Ecco il vincitore del concorso per microfinzioni. Tra i tanti racconti che ci sono arrivati – e di cui, ça va sans dire, ringraziamo tutti gli autori – è quello che ci è sembrato declinare meglio il tema proposto, lentius, profondius, suavius, l’idea di una decrescita demodernizzante, di un ritorno ad altri ritmi, ad altri modi di intendere la contemporaneità.

Domani pubblicheremo altri due racconti, classificatisi secondi a pari merito, e presto uscirà il bando per il prossimo concorso.

La sentinella di ferro

Una vita risucchiata dal vuoto.
Ecco quello che vide Ermete la prima volta che ci rimise piede.
Tutta la fatica, il sudore, la forza dei muscoli in tensione, in armonia con il rumore folle delle macchine, e le esplosioni di calore, e i boati, e quell’odore di bruciato che li assediava ovunque; tutto questo era come evaporato, risucchiato dal verminaio di tubi che correva sotto ai suoi piedi.
Si guardò intorno, per ritrovare almeno uno dei diciannove anni passati là dentro, ma l’acido li aveva corrosi al punto da renderli irriconoscibili.
Non una macchia, un cumulo di limatura, un groviglio di reggette alle quali attaccare la memoria.
Non riusciva neanche più a immaginarla, la vita precedente. Chi l’avrebbe mai detto: non gli mancava.
Aveva sentito di altri operai che si erano chiusi in casa senza più uscire, di alcuni che non parlavano più neanche con la moglie o con la figlia. Aveva saputo di Franco, che lo ritrovarono che camminava sulla spiaggia di Carbonifera. Non lo sapeva dov’è che era stato in quei due giorni, che cosa aveva fatto. Non se lo ricordava, però da quel giorno aveva preso l’abitudine di svegliarsi alle cinque del mattino e di andare a passeggiare per due ore sul lungomare argilloso vicino alla centrale dell’Enel.
La rimozione forzata lasciava buchi che ognuno di loro tappava in modo originale.
Non Ermete. Il suo passato era sempre stato un buco, un ripetersi di gesti che non gli appartenevano e che avevano aperto e allargato a dismisura una falla nella propria volontà. Nessuna affezione per quella vita, per quel veleno che il progresso gli aveva inoculato nei polmoni e nella pelle giorno dopo giorno. Quando cominciò a girare la voce che si voleva riconvertire l’economia, che era finita l’epoca dell’acciaio pesante, a lui non cominciarono a tremare le mani come agli altri; non si mise a fare più di quello che aveva sempre fatto, lui, come se ad aumentare la produzione avessero potuto invertire il senso di marcia.
Eppure, erano anni che sentivano raccontare la fine della storia. Lo sapevano che il ciclo integrato non conveniva più quando c’erano altri paesi che fornivano i semilavorati a prezzi molto più competitivi. Ma saperlo non costituiva un’alternativa, non per chi aveva passato una vita fra gli ingranaggi della grande macchina, che inghiottiva carbon fossile e sputava ghisa, e lanciava fiamme e sbuffava fumo e si mangiava anche le persone, non solo i loro corpi, ma anche le loro vite.
Sapevano anche che molto presto sarebbero arrivati i discorsi riciclati sulla bonifica e il recupero dell’ambiente, la retoriche ritrite sull’educazione al rispetto del pianeta per le nuove generazioni.
Al centro esatto di quella bolla silenziosa, Ermete sospettava che è sempre più facile delegare agli altri, dare la responsabilità a chi viene dopo.
Percorrendo la vasta area dismessa, lui poteva ancora sentire i discorsi di prima: del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare, perché le alternative non c’erano e allora si doveva nascondere l’inganno, la vergogna di quel paesaggio deturpato. Vennero gli anni dei progetti, anni in cui si pensava di risolvere tutto con una strada, con una striscia d’asfalto che avrebbe risparmiato la vista dell’immondo scempio ai turisti di passaggio che ingolfavano il porto per raggiungere l’isola del ferro. Nel frattempo, in quegli anni, l’acciaieria già perdeva i suoi pezzi: le ditte esterne che emigravano altrove, verso aree meno depresse.
Durante la fase entropica, nel cataclisma delle energie che si disperdevano in piccoli rivoli, la direzione propose a Ermete di passare ai laminatoi, ma lui aveva preferito rimanere lì, all’interno del guscio vuoto, nel grande scheletro che avrebbe ospitato il museo di archeologia industriale. Aveva preferito partecipare all’edificazione del mito, farsi inquadrare dagli occhi sgranati di chi avrebbe passeggiato fra quei ruderi. Non era abituato alla liquefazione della ghisa, Ermete, non avrebbe saputo che farsene dello spettacolo delle billette e dei blumi che diventano barre e rotaie.
Non riusciva proprio a immaginarsela la notte periferica, come sarebbe stata senza lo sciame di luci che galleggiava ai bordi della statale, senza il sibilo di fondo che manteneva un ordine sull’orlo dell’esplosione; ma era proprio là dove aveva sempre sognato d’arrivare: all’esposizione del gran cadavere novecentesco, la grande madre che smetteva di nutrire la città dopo oltre un secolo di perseveranza.
“Guarda che bestiaccia”, gli ripeteva suo padre ogni volta che l’ammasso di tubature e torri e rotaie sfilava fuori del finestrino dell’auto, anche se lui preferiva decisamente lo spettacolo dei gabbiani in lontananza, i loro voli concentrici sui detriti di rifiuti che lo scirocco alzava in nuvoloni di polvere rossa.
“Guarda che bestiaccia”, diceva suo padre gettando un’occhiata alla propria destra.
Con gli anni Ermete aveva invece dovuto imparare a guardarla meglio, a non distrarsi, a oltrepassare quell’immagine da cartolina che svolazzava nell’aria dei suoi anni adolescenziali. Aveva superato i bordi per entrarci dentro, per stare nel ventre caldo della bestia. Ne aveva ispezionate in lungo e in largo le interiora, ne aveva assaporato il gusto rugginoso che contaminava del suo sapore ogni cosa o persona, quella patina sottile che riempiva tutti i buchi, che s’infiltrava nel naso e tra i denti per scendere poi nella bocca dello stomaco. L’aveva vista a tutte le ore, durante i turni di giorno e di notte, e in fondo, per quanto ne conoscesse già la fine, la sua pancia aveva continuato a ripetergli fino all’ultimo giorno che sarebbe sempre stato così. La pancia pensa al presente, non certo al futuro, questo Ermete lo sapeva bene, ma senza quella fabbrica la storia della città si sarebbe consumata fino all’osso e avrebbe perso il ricordo degli Arditi del Popolo, “vigili ed armati contro gli sgherri neri”, e degli anarchici Giuseppe Morelli e Landino Landi, uccisi da quegli stessi fascisti che i dirigenti dell’Ilva avevano ingozzato di denaro.
Troppi ne erano morti, fuori e dentro la fabbrica, per lasciarla sbriciolare e assorbire dal terreno che avrebbero bonificato spargendovi diserbante.
Tutto quel vuoto doveva tornare presto a parlare, a essere abitato da voci, a testimoniare delle stragi in nome del lavoro e del profitto, di una logica che aveva sconfitto in un sol colpo l’uomo e la natura.
“Vedrai”, gli aveva detto suo padre, “ci rimarrà soltanto il busto di Pietro Gori, e presto imbratteranno anche quello, vedrai se non sarà così”.
E invece Ermete aveva visto anche troppo, in diciannove anni. Aveva sentito il rumore di qualcosa che si staccava, a poco a poco, anche se nell’immaginario volevano tenere l’intero tutto insieme, far finta che non si crepasse. Avrebbe vigilato su quel cimitero di lamiere per conservare intatto il proprio sguardo, la memoria visiva che si perde prima delle altre.
Era quello il suo posto: il punto di stallo, la giuntura fragile dell’ingranaggio, il tempo in cui tamponare le falle aperte da altri racconti.

 

Simone Ghelli

Scrittore e critico cinematografico.
È cofondatore del collettivo “Scrittori precari”.
È autore di due romanzi – L’albero in catene (NonSoloParole, 2003) e Il Pigneto liberato (0111 Edizioni, 2009) – e di due saggi di cinema – L’Atalante in Jean Vigo (Traccedizioni, 2000) e La tradizione grottesca nel cinema italiano (L’Orecchio di Van Gogh, 2009).
Suoi racconti e interventi sono sparsi in varie antologie, riviste e siti web.

Commenti
7 Commenti a “Microfinzioni 1”
  1. eFFe ha detto:

    Complimenti all’autore, gran bella storia!

  2. Simone Ghelli ha detto:

    Grazie eFFe, e grazie anche alla redazione di Minima & Moralia per aver scelto il mio racconto.

  3. sara ha detto:

    grande carbonifera!

  4. liz ha detto:

    🙂
    Liz

  5. Maico Morellini ha detto:

    Quando ho letto il bando e ho deciso di partecipare mi ci è voluto un bel po’ per mettere insieme qualcosa che potesse andare bene.
    Ed ero curioso di vedere cosa gli altri avrebbero scritto.
    La curiosità è stata appagata, e non posso che complimentarmi. Come si dice? Avrei voluto scriverlo io. 🙂

  6. Simone Ghelli ha detto:

    Ciao maico, anch’io c’ho messo un bel po’ per raccapezzarmici… e sono felice che ti sia piaciuto 🙂

  7. fabiano ha detto:

    Molto bene! complimenti…

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