Vikash Dhorasoo. La vita è una e la maggior parte di noi la passa in panchina

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Questo pezzo è uscito su Vice.

The Substitute è il film girato da Vikash Dhorasoo durante quel mondiale del 2006 passato quasi interamente in panchina. A 36 anni, quel mondiale avrebbe potuto essere l’happy-ending  di una carriera complicata da un carattere difficile (problemi con gli allenatori, pochi amici tra i calciatori). Una ciliegina senza torta, o quasi (ha comunque vinto due campionati da titolare nel Lione di Le Guen). Se lo era conquistato giocando praticamente tutte le partite di qualificazione. In nazionale poi aveva ritrovato l’allenatore più amato, Raymond Domenech, con cui dieci anni prima aveva partecipato alle Olimpiadi con la nazionale under 21. Ma quello del 2006 sarebbe stato sopratutto il mondiale del ritorno di Zidane e dell’esplosione di Ribery (che ha esordito in nazionale proprio in Germania). Il video qui sopra mostra i dieci minuti di Dhorasoo contro la Svizzera, prima partita del girone, a cui vanno aggiunti altri sei minuti contro la Corea del Sud pochi giorni dopo, per avere l’integralità del suo contributo alla spedizione francese. Quel tiro di controbalzo su assist di Luis Saha è l’unica occasione avuta da Dhorasoo per cambiare, non sapremo mai come, mai quanto, il suo ruolo in quel mondiale e, probabilmente, il ricordo che i francesi avrebbero avuto di lui.

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The Substitute parla di due cose. Del rapporto tra Dhorasoo e Domenech (“Giocavo per lui, avevo l’impressione che mi stesse mandando in missione ogni volta”) e dell’ingiustizia di cui sente di essere vittima. Un’ingiustizia inesistente in termini razionali, persino assurda in alcuni momenti. Domenech, come qualsiasi altro allenatore al mondo, non deve proprio niente ai suoi giocatori, se non: prendere le scelte giuste e farli esprimere al loro meglio. La cosa che rende interessante il delirio di Vikash è che lui queste cose le sa. Il cuore del film sta nel conflitto tra l’affetto che proviamo per lui e la consapevolezza che non sarebbe potuta andare diversamente. Che non sarebbe stato più giusto, se fosse andata diversamente.

Secondo poi, The Substitute parla dell’amicizia tra Dhorasoo e Fred Poulet, l’amico artista che gli consegna due cineprese Super 8 spingendolo a riflettere sulla sua situazione.  Che lo conforta, che gli dà spago, che gli mostra la via dell’arte come uscita dalle frustrazioni terrene (“Sarà la storia di te con questa. La storia delle Super 8 che non funzionano. La storia che non c’è abbastanza luce…” The Substitute è la versione altrettanto artistica ma più autenticamente dolorosa di Zidane, un portrait du 21e siècle). Certo, ci sono anche scene pretenziose, da artista dilettante (un rallenti di un minuto con Dhorasoo che si filma da solo controluce in una stanza con una manichino da sartoria alla sua sinistra; Dhorasoo che filma quadri e servizi da tè, corridoi verdi, mappamondi e cartelli con su scritto in corsivo TOUT EST DANS MA TÈTE), ma che c’è di male nel dilettantismo pretenzioso? Dhorasoo non ci vuole convincere di niente, la sua è una confessione sincera e dolorosa su cosa significa essere messi da parte, perdere una Coppa del Mondo senza neanche partecipare veramente. Né semplice spettatore, né giocatore di calcio, né veramente artista. La bellezza sta proprio in questa cifra imperfetta, incompiuta, mai pienamente espressa.

La sua attesa senza senso di entrare in campo ricorda la nostra quotidiana, che ci venga data l’opportunità di lasciare una traccia di noi stessi. Per questo anche per noi è importante. La sua è la perdita di tempo di chi crede che il proprio posto nel mondo sia ancora da definire, ancora definibile. L’immaturità, il cazzeggio, la sciatteria, la presunzione, la paranoia, l’egocentrismo, l’enorme voglia di giocare a calcio di Dhorasoo. L’incapacità di partecipare veramente a una cosa che non lo riguardi strettamente in prima persona, l’impossibilità in una società individualista e competitiva di rappresentare e di sentirsi rappresentato. La speranza che qualcosa possa succedere da un momento all’altro, la frustrazione di sentirsi piccoli di fronte all’ostilità di eventi al di fuori della nostra portata. Soprattutto, piccoli di fronte ad altri uomini, di fronte a Zidane, a Ribery, a Gouvu.

Quello che segue è un play by play delle scene che mi hanno più impressionato. E per impressionato intendo: che mi hanno fatto venire le lacrime agli occhi, che mi hanno fatto stare male per il fallimento umano esaltandomi al tempo stesso per la riuscita artistica.

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Dhorasoo, cresciuto tra gli HLM di Le Havre (“Quando vivi in periferia, è strano, non vai al mare. È una cosa culturale. Non è automatico, andare al mare”—immagini di coatti quindicenni che danno del Lei all’operatore e palleggiano tenendosi su i jeans con le mani), viene fischiato al momento del suo ingresso in campo durante l’amichevole Francia-Messico, quando prende il posto di Zidane.

Vikash riflette su quelle persone che lo hanno fischiato, sulla distanza che li separa:

“Queste persone che vengono allo stadio che mi fischiano, che mi detestano, sono sicuro che sono il tipo di persone che amo e che difendo. È loro che difendo. Perché immagino facciano parte della massa.”

Immagini di tifosi con bandiere e cappelli ridicoli, bambini con la faccia dipinta, francesi, tedeschi, africani in abiti tradizionali.

“Gente di periferia, che viene da dove vengo io, sono queste le persone che difendo, che amo… anche se non ho più a che fare con loro, questa gente… Politicamente, socialmente, come vuoi tu, queste sono le persone che difendo. Al tempo stesso mi rendo conto che non sono più come loro. È paradossale, ma ciò non toglie che continuerò a difenderli.”

Il suono è qualitativamente discontinuo, la prima parte di monologo e faccia alla telecamera, la seconda, invece, sembra registrata in seguito.

“Io sono il tizio che sostituisce questo e quello. Sono il tizio che sostituisce Zidane non so a che minuto, mentre tutti aspettavano Ribery, aspettavano… tutti tranne me.” C’è molta lucidità, ma la lucidità non modifica di una virgola il dolore. I nostri desideri sono irriducibili alle verità esterna. In un certo senso, desiderare davvero qualcosa significa pensare di meritarla a priori. Immagine di Vikash in panchina: si inquadra da solo o si fa inquadrare da qualcuno?

Nella partita d’esordio contro la Svizzera, come abbiamo visto, Dhorasoo entra a pochi minuti dalla fine e va vicino al gol.

Conversazione telefonica con Fred Poulet, mentre è in pullman, poco prima della seconda partita contro la Corea del Sud.

“Se fosse entrata magari sarebbe cambiato qualcosa per la partita dopo. Dieci centimetri più in qua e sarebbe tutto diverso.”
“Diciamo 20.”
“20 centimetri, sì. La Gloria dipende da venti centimetri, è così eh.”
“Già.” 
“Sai qual è la cosa divertente? Di solito sei in panchina e in situazione simili, quando mancano dieci minuti, pensi: che palle. E invece alla fine della partita mi dicevo che dieci minuti così vanno bene. In altre partite magari quei dieci minuti li fai senza neanche toccare palla… sono contento dei miei dieci minuti. Adesso viene il bello. Sono contento di esserci. Pensavo di giocare un po’ di più. Ma sai alla fine… Ce ne sono sette o otto che non hanno giocato per niente e che magari non giocheranno per niente. Più altri 30 che avrebbero voluto essere qui. È vero che anche la terza partita rischia di essere decisiva, quindi… sarebbe stato meglio se la terza partita avessimo potuto giocarla tutti.”

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Il documentario raggiunge un picco di crudeltà quando Dhorasoo, con la polo della Francia fischia l’inno nazionale nella sua stanza, e la voce fuori campo dice che contro il Togo non giocherà neanche un minuto.

“A un certo momento mi chiedo: Cos’è la mia Coppa del Mondo? La mia stanza e delle partite di poker, mentre per due anni sono stato titolare di questa squadra. Mi sembra strano.”
“Sai, stiamo facendo un film proprio su questo.”

Dialogo telefonico, Fred e Vikash sono a 50 metri di distanza, separati da un muretto, si riprendono a vicenda.
“Allora sei felice?”
“Non sono triste. Mi rode per un fastidio all’adduttore…”
“Altrimenti ti avrebbe fatto entrare?”
“Sì, mi ha chiesto come stavo perché mi avrebbe fatto entrare, forse a fine primo tempo o poco più tardi ma mi avrebbe fatto entrare. Ma mi faceva male l’adduttore e ha preferito non rischiare. E ha fatto bene perché era una partita importante. Ma insomma ero abbastanza arrabbiato. Alla fine però ci siamo qualificati e quella è la cosa più importante.”

Immagini da un allenamento. Dhorasoo si tocca sotto la coscia, si avvicina a uno dello staff di spalle con le braccia conserte e una tracolla verde che non se lo fila per niente, poi va da un altro tipo grande e grosso coi capelli bianchi, che scuote la testa su e giù, poi lo prende per un braccio e lo rimanda in campo.

“Nella mia carriera ho giocato per salvarmi la pelle, per ottenere un contratto.” Nelle immagini dell’allenamento si aggiusta le mutande. “Ma ora non è cosi. Non mi sentirei apposto se mi portassero via la mia Coppa del Mondo. Ma vedrai, domani entro e qualcosa succede. Mi sento abbastanza bene.”

Vikash deve lanciare il girato a Fred oltre un muretto. Per prendere al volo la sacca con le pellicole, prima che finisca in mezzo alla strada, Fred posa la telecamera. In fase di montaggio aggiunge un’inquadratura sfocata di un cartello che dice: LE FAVOLE FINISCONO BENE. Di chi è l’inquadratura? Sua? Di Vikash?

“La verità è questa. Che mi hanno seppellito non so perché e non mi vogliono più far giocare.”
“C’è ancora tempo, ci sono ancora delle occasioni.”
“Sì, ma ogni occasione può essere l’ultima. Quindi oggi è una delle ultime”.
“È così.”
“Vedremo. Però. Mi piacerebbe sapere cosa è successo.”
“Qualcosa è successo, tra di voi, e non cambierebbe niente, qualsiasi cosa tu faccia.”
“Lo rispetto e non dirò mai niente di male su di lui. Ma alla fine ha mollato, come gli altri in passato hanno mollato.”

E appena finisce di parlare dall’albero dietro a lui un mucchio di foglie si stacca da un ramo e si posa a terra.

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27 giugno, ottavo di finale Francia-Spagna.

“Sei in una situazione veramente particolare.”
“La cosa è questa. È come se fossi suo figlio. Per due anni mi ha allenato per scalare una montagna, capisci? E il giorno in cui bisogna scalarla sceglie il figlio del vicino. Sono chiuso in casa e non so perché.”

Immagini dell’allenamento. Dhorasoo si avvicina a dei palloni di fianco a Domenech. Tra di loro c’è un tizio con cui sta parlando Domenech. Dhorasoo palleggia, credo, con Malouda e Gallas, che non gli passano la palla.

“L’impressione che ho io è di un tradimento. Capisco che vincere è bello, ma tradire le persone è orribile. E non è che gli vado a dire: fammi giocare. Me ne frego. Ma voglio che capisca che mi sta tradendo. E questo… non è umano, ecco.”

Fred Poulet ride. Si rende conto che Vikash la sta sparando grossa, ma la loro è una forma di amicizia basata sulla complicità nel bene e nel male. Senza alcun desiderio che l’uno corregga i difetti dell’altro. Anzi, probabilmente per Fred l’egocentrismo di Vikash non è un difetto. Ma l’affetto non va frainteso con la lealtà.

“Non mi interessa che mi dica: non giochi perché è meglio qualcun altro o ho scelto così, me ne frego. Di quelli con cui non andavo d’accordo non mi interessa, e ce ne sono stati. Ma tra quelli che io ho stimato, alla fine, è praticamente il solo che mi ha tradito.”
“Pensi che potresti parlargli?”
“Sì, certo.”
“Ma?”
“Be’, se lo faccio ora, ecco, quello che gli vorrei chiedere è: perché mi ci hai fatto credere solo per poi scartarmi..”

La Francia batte la Spagna. Partita incredibile di Zidane. Dhorasoo non gioca. Fred teme che Vikash possa perdere interesse. Lo chiama mentre passeggia col resto della squadra: “Non vi costringono a tenervi per mano?” Gli chiede come va il morale, se sta ancora filmando. Vikash dice di sì, solo che non sta registrando molto audio.
“Perché nella mia stanza non parlo con nessuno.”
“Certo. Te lo avevo dato pensando che magari avresti avuto voglia di parlare a te stesso.”

Durante questa conversazione telefonica lo spettatore del film capisce davvero che in tutta questa storia Domenech ha ragione (si è dimostrato debole magari di fronte a Zidane, ha concesso qualcosa alla nazione che gli chiedeva Ribery, che non era il Ribery che conosciamo adesso, ma una cosa è certa: non doveva proprio niente a Dhorasoo).

(…)

“Hai parlato con Domenech?”
“Sì, ci ho parlato ma… fa le sue scelte, non ha niente contro di me. Ho preso la temperatura, non sono proprio convinto, ma almeno l’ho fatto. Quello che mi sono detto dopo è: ho fatto bene a non restare col dubbio perché altrimenti avrei rimpianto di non avergli chiesto niente. Non è importante quello che che lui ha detto a me ma quello che ho detto io.”
“Ma lui non è voluto rientrare nell’aspetto umano della questione?”
“No, ma mi sono fatto capire. Quello che dice è anche vero.”

Vikash racconta che mentre era in terrazza con la moglie Emilie ha tirato fuori la cinepresa, per la prima volta in un’esterna, e forse Domenech se ne è accorto.

“Credo mi abbia visto. C’erano le telecamere, e io filmavo loro che filmavano me. E lui deve avermi visto. Era la prima volta che tiravo fuori la telecamera all’esterno. E mi ha detto: ‘Ho visto che stai filmando…’” (In una scena precedente, Dhorasoo aveva detto di tirare raramente fuori la cinepresa, di filmare con discrezione per non farsi vedere, anche se in realtà se ne erano accorti tutti ma non dicevano niente).

Fred gli dice che per i quarti (Brasile) indosserà la sua maglia numero 8.

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La Francia ha battuto il Brasile ai quarti. Un risultato storico, incredibile, inaspettato, ma Vikash è triste, solo nella sua stanza, stanco. Ha perso la speranza, ormai, di giocare. Monologo.

“Che giorno è? Domenica, non so che numero. Abbiamo battuto il Brasile ieri. Cioè: loro hanno battuto il Brasile ieri…” Sembra drogato, o appena sveglio. “Sono stufo di parlare da solo. Adesso parlo con qualcuno. Allora parlo con te, Fred, tanto sei te che ascolterai il nastro. E in effetti non ho voglia di parlare con nessun altro. Inizio a non poterne più di essere in Germania. Mi chiedo cosa sono venuto a fare oltre che a fare un film. La mia Coppa del Mondo è andata un po’ male. Non come avrei voluto io. Oggi va un po’ meglio. Ma tre giorni fa contro la Spagna, avevo più voglia di piangere che di ridere. Adesso posso anche aver voglia di ridere, ogni tanto. Devo relativizzare: mi dico che comunque sono nei 23, che sto vivendo quest’avventura… e che… ma io non sono un tifoso, non sono uno spettatore, sono un giocatore di calcio e non sto giocando… è questo che mi dà fastidio. E non ne posso più.”

Possibile che sia così solo? Perché tra quei 23 non ha neanche un amico, una persona con cui passare il tempo? Ha ragione chi dice che è colpa sua se non ha mai legato con nessuno da nessuna parte? È per via dei suoi interessi extra-calcistici, troppo raffinati? È perché è di origini indiane?

“In più devi far finta. Devi sorridere, devi sembrare contento, di buon umore. E sarà peggio dopo, una volta finito tutto. Perché ci sarà lo sguardo degli altri e pfff… non ho più voglia di rispondere al telefono, non ho più voglia di parlare di calcio, non ne posso più del calcio, non ho più voglia di accendere la tv. Quindi… vorrei che finisse tutto, ma al tempo stesso sto così bene solo nella mia stanza, senza dover rendere conto a nessuno. Sarà dura tornare coi piedi per terra. In mezzo agli altri che non capiranno nulla, nel loro mondo… e va bene, stiamo facendo un film, no? Almeno in questo ci credo. Il solo sms carino che ho ricevuto è il tuo. Mi rendo conto che questa Coppa del Mondo sta facendo soffrire tutti quanti attorno a me. È questo che mi rende triste. So che la mia famiglia è triste e mi rendo conto che non è un bel momento per nessuno. Non lo so, magari fra vent’anni mi dirò che ci sono stato, è stato bello, spero… Cosa sarebbe stato meglio: venire qui per vivere quello che sto vivendo o non venire per niente? Mi dico che deve essere sempre meglio essere qui. Faccio poche telefonate. Il meno possibile. Parlo da solo, in effetti. Penso sempre alle stesse cose. Non sto diventando pazzo, eh. Sono abituato a stare in una stanza d’hotel. Anche a lungo, non mi dà fastidio. Mi dico che succederà qualcosa. Allora mi aggrappo a questo pensiero e vado avanti. Ma ci credo sempre di meno. È questo il problema. Prima o poi uscirò da questa stanza. Uscirò, non c’è problema. Tutta la mia carriera è stato questo: affrontare le cose dritto sulle proprie gambe, guardare la gente negli occhi senza abbassare la testa.” Vikash si mette a letto con un libro Gallimard in canottiera e slip bianchi.

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Dopo la delusione col Brasile Vikash torna di buonumore. Ha perso le speranze di giocare e questa, adesso, sembra la cosa migliore che potesse capitargli. Adesso ragiona così:

“Immaginiamo che vinciamo la finale. Bisogna che arrivi ad impossessarmi di un pezzettino di medaglia. Non so come. Mi dico che c’ero. Che facevo parte dei 23… e… mi piace questa canzone (“Another Sunny day“)… e che in ogni caso ho fatto qualificare la Francia, ho giocato tutte le partite. Poi sono stato fatto fuori, d’accordo, il mio piccolo orgoglio potrebbe essere questo, di aver fatto le partite in Irlanda, in Svizzera, contro Cipro, in Israele. Quelle partite dove—viene da ridere anche a lui, si rende conto che quelle partite non sono niente in confronto a queste—ho partecipato comunque a questa bella avventura anche se non ho avuto il dessert. Ecco, mi hanno tolto il dessert, credo sia questa l’immagine. Ho mangiato bene ma è mancata una bella torta al cioccolato. Mettiamola così. E non fa niente… Lo mangerò rientrando il mio dessert. Magari la mia torta al cioccolato è questo film. Magari devo pensare a questo.”

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Prima della finale, con i Ricchi e Poveri in sottofondo, Vikash è ottimista: “Mi sono svegliato di buon umore. Ho voglia di alzarla questa coppa, quindi.. mmh… faremo il massimo. Sarà un gran momento. Credo ci siano 80.000 persone, tre miliardi davanti la tv. Cioè credo, tre miliardi, forse sto esagerando. Un po’ meno [ride]. Una finale di Coppa del Mondo. Sono già fortunato a giocarne una, non siamo in molti… quando mi dico che ci sono solo 23 francesi che giocano la coppa del mondo e che ogni quattro anni ci sono solo 40 giocatori che giocano la finale e io sono uno di questi pochi giocatori a poter vivere questo, sono contento.”

Arriva davanti allo spogliatoio.

“Eccoci qui: mi metto la tuta, mi faccio bello. Poi spero di togliermela.”

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Dopo la sconfitta Dhorasoo tira fuori la telecamera nello spogliatoio.

Trezeguet che si aggiusta il colletto, giocatori irriconoscibili con l’asciugamano sulle ginocchia. Quello dietro a Vikash sembra un minacciosissimo Viera. Poi Dhorasoo torna in Francia. Si affaccia dalla terrazza dell’Hotel Crillon su Place de la Concorde piena di tifosi. Sale le scale di casa coi bagagli. Si siede al tavolo in salotto, davanti alla corrispondenza accumulata. È finita, si ricomincia. Titoli di coda. La vita di tutti i giorni. Prende un gran respiro, si mette le mani nei capelli, se li pettina. Poi inizia a smazzarsi la posta.

The Substitute significa di fatto la fine della carriera di Dhorasoo. L’idea generale, quando torna, è che non pensi più a giocare a calcio, che sia partito per la Germania solo per girare un film.

Considerato un calciatore intellettuale (definizione che rifiuta, primo perché “non è carino  nei confronti degli intellettuali e dei calciatori”; secondo perché una simile caratteristica “mi ha causato più problemi durante la mia carriera che vantaggi adesso”) scrive su Le Monde e SoFoot e ha fondato il suo movimento calcistico, Tatane (dall’argot: scarpa, pantofola) “per un calcio sostenibile e gioioso”.

Il calcio di oggi, per come lo vede Vikash, è schiacciato tra interessi economici (che ne determinano una legislazione anomala: ha scritto contro la precarietà dei calciatori e le indennità di trasferimento—in quale altro settore due datori di lavoro scendono a patti tra di loro per garantirsi le prestazioni di un dipendente?) e la cattiva reputazione dei calciatori che guadagnano troppo. Vikash difende il calcio senza pregiudizi, può difendere Nasri perché rompe il muro di ipocrisia che i giornalisti pretendono, e attaccare Nasri come rappresentante supremo di un calcio individualista all’eccesso.

Vikash non ha voluto allenare o restare in maniera attiva all’interno del mondo del calcio, e forse non sarebbe stato simpatico ad un numero sufficiente di persone da ricevere offerte in tal senso. Ha preferito mettersi in disparte, cercando di influenzare culturalmente quello sport che ama senza avidità, senza più egoismo, per il suo valore sociale e umano. Perché la vita è una e la maggior parte di noi la passa in panchina.

Commenti
3 Commenti a “Vikash Dhorasoo. La vita è una e la maggior parte di noi la passa in panchina”
  1. Vagabond ha detto:

    la cosa bella, di certi francesi, e’ che fanno film sempre e dovunque.

  2. Gianluigi Simonetti ha detto:

    Dhorasoo è l’anticalciatore per eccellenza; persino i suoi pregi – la versatilità tattica – nascono dai suoi difetti (il suo essere mediocre in tutto). Particolarmente rivelatore il suo sogno di un calcio “sostenibile e gioioso”: uno così è giusto che passi la vita in panchina.

  3. Bruno del Pazzo ha detto:

    E’ un illuminato. E anche come calciatore non era male

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