Ritorno a Odessa (e a Brighton Beach)

Questo pezzo è uscito su Europa. (Immagine: Anno Matthias Henke)

Era «una San Pietroburgo in miniatura», secondo un visitatore inglese dell’800. «Una copia dell’America», secondo Mark Twain, che la visitò nel 1867. È stata un focolaio di intrighi politici e il porto da cui salpavano più di mille navi all’anno, nella fase di massimo splendore. E ancora, alternativamente, è stata «un covo fatiscente di povertà» e un «luogo magico per la musica e per la nostalgia». La storia della città di Odessa è un vorticoso avvicendarsi di prodigi e violenze: l’idillio cosmopolita che la rese un modello di integrazione sparì per la cieca brutalità dell’antisemitismo. L’epopea di questa controversa utopia arroccata tra il Mar Nero e la steppa russa è ora raccontata da Charles King nel libro Odessa. Splendore e tragedia di una città di sogno (Einaudi, pp. 322, euro 30).

Non c’è luogo migliore per osservare come opera la Storia che leggere i resoconti delle grandi città. È qui che la Storia si spoglia della retorica e si manifesta nella sua essenza più tangibile. Si realizzano scalinate monumentali, svettano le cupole, si scolpiscono statue e si danno i nomi alle vie, e poi la Storia cambia registro, si distruggono i teatri, si incendiano le botteghe, i simboli imperiali vengono sostituiti con emblemi nuovi. In base alle fasi politiche, a Odessa si giocava a whist fino a notte fonda oppure si impilavano cadaveri sanguinanti di turchi sugli estuari gelati. In certi anni, i suoi caffè erano affollati di russi abbronzati, e in altri le sinagoghe venivano chiuse. Le città insegnano che la Storia edifica, apre parchi, allarga i viali e poi riscrive il passato, all’infinito. Il lettore di Charles King assiste così alle epoche che si sfarinano insieme ai quartieri.