Diario afghano, prima parte

Sabato 21 marzo, Kabul

Un’isola di calma ed eleganza in un mare di traffico e clacson. Un fortino sempre più militarizzato. Nel corso degli anni il Serena Hotel – dove giovedì 20 marzo 4 giovani barbuti sono riusciti a infiltrarsi e a uccidere 8 persone al ristorante – si è chiuso su se stesso. Le mura di cemento esterne più alte e robuste, i controlli più attenti. Per difendersi dai taleban, che qui già erano entrati nel 2008 facendo sette vittime. Ma un po’ anche dai poveracci che dal bazar sul lungofiume Kabul spuntano sulla grande piazza del parco Zarnegar, gesticolando ai conducenti dei taxi collettivi. Fuori i gas di scarico anneriscono il mausoleo dell’emiro Abdur Rahman Khan, appena restaurato. Dentro, dall’altro lato della strada, l’aria pulita dell’hotel Serena. Le stanze linde, arredate all’orientale ma senza ammiccamenti. Attrezzate sale conferenze.

Saracha, il villaggio dei martiri

Questa inchiesta è uscita sul manifesto. Una versione più breve è apparsa in inglese su Inter Press Service. (Foto: Giuliano Battiston.)

Giuliano Battiston, di ritorno dal distretto di Beshud, Jalalabad

Saracha è un villaggio di contadini del distretto di Beshud, alle porte di Jalalabad, la principale città afghana della provincia orientale di Nangarhar, a due passi dal confine con il Pakistan. Per raggiungerlo si deve lasciare il congestionato centro della città, puntare verso sud-est e costeggiare le alte mura di cemento dell’aeroporto di Jalalabad, che ospita una base militare americana e include la Forward Operating Base Fenty, uno dei centri strategici della guerra afghana: da qui partono molti dei silenziosi e micidiali droni diretti in Afghanistan e Pakistan. Superato l’aeroporto, continuando per un paio di chilometri, sulla sinistra si affaccia una stradina sterrata che porta a Saracha. Stretta tra due case, sembra una via chiusa, senza uscita, ma una volta imboccata si apre su campi rigogliosi, per poi passare accanto al cimitero del villaggio.

Da qualche giorno, nel cimitero ci sono tre nuove tombe, tre cumuli di terra alti più o meno mezzo metro, ricoperti di arbusti per evitare che i cani randagi scavino in cerca di carne non ancora decomposta. Lì sotto ci sono i corpi senza vita di Sahebullah, Wasihullah e Amanullah, tre dei cinque ragazzi uccisi a Saracha venerdì 5 ottobre da un attacco aereo dalle forze Isaf-Nato (che qui sono americani). Per i soldati stranieri erano “insurgents”, Talebani, pericolosi terroristi. Per gli abitanti di Saracha sono dei martiri, uccisi senza ragione. Così recita lo stendardo bianco su cui sono impressi i loro nomi, la loro età, i versetti del Corano.