“Anatomia di un suicidio”: tutte le dimensioni in scena dal testo di Alice Birch

foto di Masiar Pasquali (fonte immagine)

Ci sono almeno due questioni profonde, capitali, che il testo di Alice Birch, “Anatomia di un suicidio”, realizzato dalla compagna Lacasadargilla, non solo porta in scena ma squaderna in una dimensione che è allo stesso tempo estetica e filosofica. La prima, che riguarda l’intreccio della storia raccontata, ha a che vedere con la natura del dolore evocata già dal titolo. La seconda, invece, ha a che vedere con la natura del tempo, non solo come dimensione dello scorrere degli eventi, dell’inanellarsi delle cause e degli effetti, ma anche della possibilità che l’esperienza e il sentire umani travalichino la dimensione lineare per proiettarsi in una simultaneità dove si può vivere il proprio presente ma anche – contemporaneamente, qui e ora – la rifrazione di epoche distanti.

Tutto parte da – o torna a – un interrogativo che può sembrare puro pretesto poetico: può trasmettersi il dolore, come una sorta di codice che innerva di informazioni il nostro corpo e la nostra mente, passando frammenti di sentimento di generazione in generazione come fanno i geni con il dna? L’idea, suggestiva quanto inquietante, aleggia sulla scena tripartita dello spettacolo, ambientato, contemporaneamente, negli anni Settanta, a cavallo del Duemila, e negli anni Trenta del XXI secolo (ancora tutti da venire). I destini di tre donne della stessa famiglia di nome Carol (Tania Garibba), Anna (Petra Valentini) e Bonnie (Federica Rosellini) non sono soltanto intrecciati, in un rapporto di causa ed effetto tra le generazioni, ma sono anche la manifestazione di un interrogativo sulla presunta libertà delle nostre azioni e dei nostri sentimenti. Ma attenzione: quello che Birch tratteggia non è un mondo deterministico, ma un mondo di relazioni, in cui i personaggi sono immersi e di cui sono partecipi in modo così indistricabile da finire per farci dubitare se ha senso parlare di un “io” individuato. La tristezza, la felicità, l’esaltazione, la depressione, possono essere frutto delle nostre azioni come delle azioni degli altri; ciò che emerge è una fitta trama di relazioni, assai distante dalla narrazione dominante sulla libera scelta di ognuno, su cui ancora si poggiano le retoriche odierne, e il soggetto, l’io, non è che uno dei fili di un’intricata tessitura.

Le case sembrano assorbire le ombre del tempo e restituirle in un rilascio lentissimo e logorante, come avviene per le radiazioni solari, solo che in questo caso a propagarsi sembra essere il freddo della solitudine, un sentimento che aleggia nelle storie narrate da Birch in modo curioso, perché si tratta in fondo di storie di sentimenti familiari piuttosto intensi, di accudimento e cura, ma che non riescono a smorzare il senso di estraneità che sembra aleggiare – come un fantasma, appunto – persino sui rapporti più profondi. Il ciclo delle nascite e delle morti, in questo senso, non riesce ad incarnare la speranza, ma piuttosto la scoperta che la propagazione del dolore più avvenire, nostro malgrado, come un’onda che si propaga da un’esistenza all’altra.

Ma ciò che rende questa propagazione un elemento tattile, visibile, del tessuto dello spettacolo è la scelta della simultaneità dei tempi. In scena si apre contemporaneamente sulle tre epoche, che si spartiscono lo stesso palco e lo stesso ambiente acustico. Le onde sonore si propagano e si intrecciano come le epoche, in una recitazione che va avanti in parallelo su tre quadri, mentre le parole si rincorrono come il contrappunto di una sinfonia, cercandosi e risuonando per assonanze e ripetizioni, mentre il significato scorre per conto suo, anch’esso molteplice, contendendo ogni porzione della scena una porzione di attenzione degli spettatori.

È impossibile seguire davvero ogni passaggio degli scambi di battute perché, pur volendo concentrarsi su un piano temporale, l’attenzione finisce per schizzare altrove e sintonizzarsi (è il verbo più corretto) su altre frequenze temporali, danno all’esperienza dell’ascolto una dimensione multiforme e caleidoscopica. Ma siamo molto lontano dalla confusione, anche perché Birch, consapevole che è impossibile seguire davvero una simultaneità tripartita, si avvale di giochi di ripetizioni e sospensioni – spesso due quadri procedono mentre uno si sospende quasi, ripetendo termini o concentrandosi su questioni momentanamente ridondanti, come a fare da bordone ai primi due – e tutto questo rende davvero possibile una sintonizzazione sulla trama del testo, dentro la quale si procede a balzi d’attenzione, è vero (e ogni spettatore ha i suoi) ma che è congeniata in modo tale da accompagnare lo spettatore senza il rischio che egli o ella si perda.

Non è solo un gioco virtuosistico – nel quale eccellono i dodici attori in scena, davvero impressionanti nel loro farsi cassa di risonanza senza perdere la tridimensionalità dei loro personaggi (oltre alle attrici citate ci sono Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani,  Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Camilla Semino Favro, Francesco Villano e  Anita Leon Franceschi). È la materializzazione della compresenza dei piani temporali, la simultaneità che i personaggi principali letteralmente vivono nel loro mondo interiore.

Frutto, ovviamente, non soltanto dell’architettura del testo ma del raffinatissimo lavoro di regia compiuto da Alessandro Ferroni e Lisa Natoli, basato non solo sulla gestione del suono e della scena, ma anche sull’edificazione di una squadra di lavoro che agisce come un coro, dove parole, tempi e sonorità si staccando da un fondale di porte – semplice oggetto quotidiano che aiuta a edificare una scena fatta di abissi e di superficie, dove i piani temporali convivono e si confondono, pronti però a consegnare i loro singoli squarci nella profondità della storia. Il lavoro di Pasquale Citera per il suono e di Maddalena Parise per il video, inoltre, rendono l’universo di Birch di grande impatto, a cavallo tra realismo e dimensione onirica, dal gusto vagamente hopperiano.

“Anatomia di un suicidio” è uno spettacolo che, più che commuovere, smuove. Smuove certezze e visioni del mondo, in un momento in cui l’uscita dalle proprie convinzioni resta l’unico antidoto alla tentazione del ripiegamento (sentimentale, sociale, esistenziale). È un lavoro che interroga discretamente, senza esagerazioni, la ridefinizione dell’esperienza umana che scienza e filosofia stanno operando sulla narrazione dell’io e del tempo, ma senza per questo perdere di vista la condizione umana, spesso alimentata dal dolore, è vero, ma che forse proprio da esso trae la consapevolezza del proprio essere – animale, relazionale – nel mondo.

 

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Anatomia di un suicidio è stato pubblicato da Il Saggiatore, mentre lo spettacolo, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, è andato in scena al Teatro Strehler tra febbraio e marzo.

 

Commenti
Un commento a ““Anatomia di un suicidio”: tutte le dimensioni in scena dal testo di Alice Birch”
  1. Ilda ha detto:

    Sono andata a vedere lo spettacolo al Piccolo e non sono assolutamente d’accordo con la recensione. Premetto che ho vissuto da ventenne in prima persona il trauma di una madre suicida ed ero perciò molto interessata a vedere quale lettura artistica si potesse trarre da una tale tematica. Come si sa – e io ne sono fermamente convinta – l’arte può essere catartica e mostrare una dimensione di riflessione che può aiutare a leggere situazioni di vita durissime. Ebbene, MAI , dico MAI, mi sarei aspettata una tale incredibile superficialità nell’affrontare una tematica tanto profonda quanto delicata e così tremendamente attuale. Una lettura così stereotipata e fasulla era l’ultima della cose che mi sarei aspettata. Da una parte c’erano evidenti lacune di regia: dalla scarsa qualità della recitazione al piattume del ritmo generale, malgrado l’escamotage del trittico narrativo. Quest’ultimo già dopo cinque minuti risultava stucchevole nel convergere (a stento) degli attori sulle stesse parole, mantenendo tutti però sempre la stessa dinamica, lo stesso ritmo e la stessa agogica. Si voleva recuperare una dimensione corale, d’ensemble? Benissimo, non capisco perchè non si sia cercato di usare – e con mestiere – appositi parametri musicali, per diversificare e rendere davvero autonome dal punto di vista sonoro le tre storie. Quello che ho ascoltato io per tre ore è stato invece semplicemente un dialogo letteralmente “monotono” da tre diverse aree del palco… alla lunga, noiosissimo. Ma la cosa più vergognosa è stata a mio avviso l’incredibile superficialità con cui è stato trattato il tema: dall’attrice che arriva in ospedale e minimizza con nonchalance il fatto di essersi appena tagliata le vene (… falso, ipocrita e decisamente non realistico: ma, accidenti, davvero non si poteva fare un po’ di ricerca concreta interrogando chi queste cose le ha vissute?!?) all’apoteosi della soluzione finale: la sterilizzazione. Ma per favore! Poteva davvero incappare in una sua comicità involontaria questa piece nel montare di dramma in dramma, di scena in scena, alla ricerca di un pathos che ha tirato in ballo di tutto, pure l’omicidio in sala operatoria di un bimbo da parte del medico curante. Se non fosse che la realtà è BEN DIVERSA. L’abbracciare la scelta di un suicidio, riuscito o meno, il non saper trovare una propria ragione di vita e proiettarla nei figli, la prigionia della vita da casalinga per convenzioni sociali vetuste e maschiliste, il rifugiarsi in droghe o psicofarmaci NON sono una barzelletta! Come non lo sono i traumi dei figli dall’altra parte, che hanno vissuto sulla loro pelle la depressione e poi il suicidio materno. Da figlia femmina so quanto siano DAVVERO problemi PROFONDI rientrare nella casa di famiglia, decidere di venderla, e più di tutto affrontare l’ipotesi di una maternità, avendo alle spalle sempre presente la soluzione che la propria madre ha abbracciato. Perchè è VERO che la via d’uscita d’emergenza del suicidio è sempre presente in testa… ma tutto si pensa fuorchè ad una sterilizzazione, punto clou di questo orribile spettacolo! Ma come si fa a portare in scena una tale idiozia?!? Senza contare che in questa soluzione assolutamente assurda e fuori dalla realtà c’è un ulteriore diniego della vita: ma che razza di messaggio è?!? Ho trovato davvero vergognoso che chi dall’alto di un palcoscenico davvero poteva parlare di una tematica così delicata l’abbia buttata via con una tale assoluta superficialità. No comment.

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