Piccole storie di famiglia: intervista a Maya Forbes

TeneramenteFolleMarkRuffalo

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica.

C’è una grazia particolare che si manifesta nei piccoli film autobiografici. Film di finzione che hanno la consistenza sentimentale di certi filmini di famiglia girati da genitori desiderosi di fermare il tempo, di consegnare il presente al passato in forma definita per richiamarlo in vita all’occorrenza. Teneramente folle (dal 18 giugno in sala per Good Films), impeccabile opera prima della sceneggiatrice e regista americana Maya Forbes, è uno di quei film.

Dei Forbes Maya ha ereditato il cognome, sostituendo felicemente all’opulenza della famiglia del padre una ricchezza di parenti artisti: una sorella cantante (China Forbes dei Pink Martini), una figlia attrice (Imogene Wolodarsky, in Teneramente folle al suo esordio nei panni della madre da bambina), un marito sceneggiatore (Wally Wolodarsky). “Il prossimo film lo sto scrivendo con mio marito Wally e lo dirigeremo insieme”, racconta la regista, “sarà interpretato da Jack Black, e sarà pieno di canzoni. Una la scriverà sicuramente mia sorella”. Poi spiega la sua idea di cinema di famiglia che insieme al marito porta avanti: “Si tratta di lavorare insieme, di scrivere insieme le storie e girarle insieme”. Spiega anche che “le piccole storie di famiglia” sono la ragione per cui ha iniziato a fare cinema. “Ed è quello che ho sempre voluto fare: piccole storie familiari che hanno a che fare con il vissuto e che permettono di stabilire un contatto emotivo e sentimentale con il pubblico”.

La storia di famiglia che racconta nel suo film è quella del bipolarismo del padre (Mark Ruffalo nel film), di una madre (Zoe Saldana) che decide di riprendere gli studi in un’altra città per trovare un lavoro che permetta alle sue figlie di avere un’istruzione all’altezza del migliore dei futuri possibili, di due bambine (Amelia e Faith Stuart, versioni non poi così distanti da se stessa e sua sorella China) che nell’assenza temporanea della madre si ritrovano a fare famiglia con un padre a tratti imbarazzante e inadeguato, che non ha un lavoro ma abbonda in creatività e soprattutto in amore per la moglie e le figlie. Una storia di famiglia ambientata a Boston nel 1978, apparentemente unica o quantomeno singolare, ma che a ben guardare non lo è affatto. “La malattia mentale è una cosa di cui la gente fatica a parlare”, dice ancora la regista, “ma all’interno delle famiglie è più frequente di quanto si possa pensare”.

Quando ha iniziato a scrivere il film?

Prima ancora di scriverlo ho iniziato a raccontare delle brevi storie su mio padre alle mie figlie. Gliele raccontavo la sera a letto, prima di dormire. Mio padre è morto quando ero incinta della mia prima figlia, e non lo hanno mai conosciuto. Poi qualche anno fa, mio marito per lavoro è stato via sei settimane e mi sono ritrovata da sola con le mie figlie, nella stessa identica situazione in cui si era ritrovato mio padre nel 1978 quando mia madre decise di riprendere gli studi e andare a New York. In quelle settimane ho vissuto la stessa esperienza dal punto di vista di mio padre. E in qualche modo è come se mi sia sentita più vicina a lui. Lì ho deciso che avrei dovuto raccontare la sua storia. E ho iniziato a scriverla.

Ha deciso da subito che il film l’avrebbe diretto lei?

Sì, più che altro per paura di affidarlo ad altri. Non volevo che fosse un film freddo, o triste. La storia che racconto è una celebrazione dell’amore, del come una circostanza sfortunata possa essere comunque vissuta in modo gioioso da persone che fondamentalmente sono gioiose. E poi volevo che le mie figlie vedessero che è possibile realizzare un progetto in cui si crede. Credo sia stato questo a farmi vincere la paura di dirigere io stessa il film.

La spaventava la possibilità di tradire in qualche modo i suoi ricordi?

Esatto. Anche se è una cosa a cui all’inizio non ho pensato. Ero troppo presa dal dovere imparare tutto. A spaventarmi erano più le cose pratiche che il resto. È al montaggio che ho sentito per la prima volta la paura di rischiare di tradire i ricordi. Anche perché in un film è impossibile raccontare tutto, devi fare delle scelte, e devono essere scelte che siano funzionali al sentimento che vuoi trasmettere e che vuoi raccontare, in cui altri possano riconoscersi.

Trova ci sia una relazione tra un’infanzia così e il percorso artistico che sia lei che sua sorella avete intrapreso?

Sicuramente, soprattutto perché a sostenere la nostra scelta di fare dell’arte il nostro lavoro sono stati per primi i nostri genitori. Mio padre era un grande narratore. Amava raccontare storie a noi figlie, ma anche ad amici e conoscenti. Per lui era un modo per stabilire una relazione con il prossimo, per mostrare una forma di empatia. E credo me l’abbia trasmesso. E mia sorella è sempre stata una cantante incredibile, ed è sempre stata incoraggiata dai miei genitori. Anche mio padre era a modo suo un artista, solo non riusciva a portare a termine i suoi progetti.

Perché ha scelto di raccontare proprio il 1978?

È l’anno in cui mia mamma è andata a studiare a New York, e per me e mia sorella è cominciata questa vita con un padre di cui all’inizio un po’ di vergognavamo ma che abbiamo imparato ad amare. La storia è andata avanti per anni, e raccontarla tutta in un film sarebbe stato troppo complicato. E allora mi sono fermata all’inizio, l’anno in cui bambine abbiamo imparato, per necessità, a prenderci cura di noi stesse.

A che punto della storia ha deciso che avrebbe fatto la sceneggiatrice e poi la regista?

Sono sempre stata un’avida lettrice. Leggevo ogni volta che potevo. Al college e all’università ho iniziato a scrivere testi teatrali e racconti, e poi ho cominciato a scrivere per la televisione e per il cinema. Anche se la cosa che preferisco sono le piccole storie personali di cui parlavamo prima. Storie apparentemente insolite, ma che poi scopri che non lo sono affatto.

La malattia mentale non è insolita.

No, ma è una cosa che ho scoperto facendo questo film, incontrando alla fine delle proiezioni gente che mi racconta storie non così diverse dalla mia. Credo che il cinema permetta una comunicazione diretta sul piano dei sentimenti. Ci sono dei film che anche a me fanno questo effetto. I quattrocento colpi e in generale i film Truffaut. E poi Kramer contro Kramer e Voglia di tenerezza. E Grey Gardens di Albert e David Maysles.

Una moglie di John Cassavetes?

Assolutamente sì, è un film che ho amato moltissimo e mi piace pensare che in qualche modo mi abbia influenzata.

Commenti
2 Commenti a “Piccole storie di famiglia: intervista a Maya Forbes”
Trackback
Leggi commenti...
  1. […] una interessante intervista con la regista Maya Forbes si può leggere QUI […]



Aggiungi un commento