Rinascimento psichedelico. Tra comunismo acido e distopie

Pubblichiamo un pezzo uscito sull’Espresso, che ringraziamo. «Il rinascimento c’è, la tendenza è innegabile. Lo dimostra un dato: l’anno scorso gli Stati generali della Psichedelia prevedevano 40 interventi in una giornata e mezzo, quest’anno ne abbiamo avuti 80 in 4 giorni e abbiamo dovuto dire molti no». Direttore del Centro di cultura contemporanea nell’ex birrificio […]

Koh-i-Nur. La storia del diamante più famigerato del mondo

Pubblichiamo un pezzo uscito sul Venerdì di Repubblica, che ringraziamo.

Il primo maggio 1851, quando il diamante Koh-i-Nur, la “montagna di luce”, viene posto su un telo di velluto rosso dentro una gabbia di ferro dorato e presentata alla Grande esposizione di Londra, il pubblico rimane deluso. La pietra che incarna le grandi conquiste dell’impero britannico appare modesta. Milioni di visitatori inglesi, fieri della gloria ottenuta oltremare, tornano a casa sbigottiti. Il diamante finisce in un laboratorio di Piccadilly, dove viene tagliato, “emancipato dalla sua condizione di straniero”, rimodellato secondo il gusto dell’epoca.

Cities at war. Intervista a Saskia Sassen

Questa intervista è uscita sull’Espresso, che ringraziamo.

Per Saskia Sassen, docente di Sociologia alla Columbia University di New York, tra le più autorevoli intellettuali del nostro tempo, il virus è un segnale d’allerta che ci costringe a confrontarci con la vulnerabilità delle città globali, con i limiti della nostra conoscenza e con le conseguenze di quell’economia predatoria ed estrattiva che crea veri e propri «buchi nel tessuto della biosfera». Ma è proprio a partire da bisogni e vulnerabilità comuni, e proprio a partire dalle città – i luoghi più colpiti dalla pandemia ma anche quelli che ospitano un «terzo spazio» tra ciò che è urbano e ciò che fa parte della biosfera – che possiamo ripensare il rapporto con il mondo.

Hayden White: il passato messo in scena

Il 5 marzo è morto Hayden White, filosofo della storia e storico della cultura, autore di testi che hanno profondamente influenzato il dibattito accademico sul rapporto tra i fatti storici e la loro rappresentazione. Lo ricordiamo con un’intervista uscita sul manifesto nel 2006. Proprio quando, negli anni ’70, la polizia di Los Angeles lo considerava […]

Afghani, respinti due volte

Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Kabul. «Dalla Turchia abbiamo tentato due volte di attraversare il confine con la Grecia, cinque con la Bulgaria. Alla fine abbiamo rinunciato. Ora rieccoci a casa». Abdul Hakim Mengal ha 19 anni. É nato e cresciuto a Kabul. Sguardo furbo e parlantina veloce, non si allontana mai dal miglior amico, Asatullah Ahmadi. Insieme hanno tentato di raggiungere l’Europa. Senza successo. «Fino a Teheran è filato tutto liscio», spiega Abdul. Un visto regolare, tremila dollari a testa pagati agli intermediari per il viaggio in aereo per Mashad e in treno fino alla capitale iraniana. «Ma da lì in poi le cose si sono fatte complicate». Asatullah e Abdul raccontano di un itinerario diventato comune.

«Nel 2015, circa duecentomila afghani hanno lasciato il paese per l’Europa. Il numero poi è sceso, a causa della chiusura della rotta balcanica, ma nei primi sei mesi del 2016 già si registrano 40.000 partenze», spiega al Venerdì Abdul Ghafoor, direttore dell’Afghanistan Migrants Advice and Support Organization (Amaso).

Guardando il cielo. Intervista a John Berger

Ricordiamo John Berger, morto ieri sera all’età di novant’anni, con questa intervista uscita sul Manifesto, ringraziando la testata (fonte immagine).

Nel 1972 comparve sugli schermi televisivi del Regno Unito un uomo con una T-shirt in stile pop art che, con voce calda e rassicurante, sollecitava gli spettatori a interrogarsi sul rapporto tra arte e società. Lontano da ogni pedagogismo paternalistico, alieno dagli eruditi esibizionismi dei cultori della materia, capace di dubitare persino delle proprie posizioni, quell’uomo, John Berger, rivoluzionò il modo di pensare l’arte, lasciando sconcertati esperti e comuni cittadini. Impantanati nei tortuosi meccanismi ermeneutici derivati da Barthes e dallo strutturalismo francese allora di gran moda, i primi stentarono a riconoscere l’efficacia di un approccio così chiaro e diretto; i secondi si sorpresero nello scoprire come le opere d’arte non fossero oggetti muti e impenetrabili, che acquistano eloquenza solo dopo un lungo apprendistato alla critica d’arte, ma veri e propri interlocutori con cui dialogare, intrisi di contenuti politico-ideologici, così come di storie personali, memorie e speranze.

Il ritorno di al-Qaeda

Da oggi fino al primo novembre lo spazio Porta Futuro di Roma ospiterà il Salone dell’editoria sociale, giunto all’ottava edizione. Qui una sintesi degli incontri in programma. Di seguito pubblichiamo un articolo di Giuliano Battiston, curatore del programma della rassegna, apparso sull’Espresso, che ringraziamo.

«Geronimo E-KIA, enemy killed in action». È la notte tra l’1 e il 2 maggio 2011. La voce del vice ammiraglio William Harry McRaven, a capo del Joint Special Operations Command degli Stati Uniti, arriva ovattata nella Situation Room della Casa Bianca, riempita dall’attesa incerta dei più alti membri dell’amministrazione americana. Con asciutto linguaggio burocratico, McRaven annuncia la morte di Geronimo, nome in codice per Osama bin Laden.

Scovato dagli uomini del Navy Seals nel suo compound di Abbottabad, cuore dell’establishment militare pachistano, il 2 maggio 2011 il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti è ufficialmente morto: «giustizia è fatta», afferma con orgoglio il presidente Obama rivolgendosi al popolo statunitense. Si volta pagina, pensano in molti. L’operazione delle forze speciali chiude per sempre una storia durata fin troppo a lungo. Quella di al-Qaeda, l’organizzazione responsabile degli attentati dell’11 settembre.

Mondo nomade, città aperte. Intervista a Richard Sennett

Questa intervista è uscita sull’Espresso, che ringraziamo.

Parigi. Pensare di arroccarci nella nostra identità, di «esimerci dal contatto e dalla contaminazione con gli altri è ridicolo, un’illusione». Respingere chi cerca aiuto, «una nuova forma di fascismo». Richard Sennett, tra i più autorevoli sociologi contemporanei, docente alla London School of Economics e alla New York University, guarda con preoccupazione al modo in cui in Europa si affronta la questione migratoria. Il «nuovo tribalismo», che combina la solidarietà con i propri simili e l’aggressività contro chi è diverso, è frutto di un’incompetenza sociale, sostiene l’autore de Lo Straniero. Due saggi sull’esilio (Feltrinelli 2014).

Un’incompetenza favorita dal modo in cui sono costruite le nostre città. Sistemi chiusi, sigillati, che dequalificano i cittadini e neutralizzano le differenze, eliminando quegli spazi ambigui in cui si può imparare a fare un uso produttivo della diversità. Perché la cooperazione con gli altri, specie con gli estranei, è una competenza, un’arte che va acquisita. E le città aperte, porose e dinamiche, possono aiutarci a esercitarla, «rendendoci cittadini migliori».

Ágnes Heller: l’Europa a un bivio

Questa intervista è uscita sull’Espresso, che ringraziamo (fonte immagine).

L’Europa è a un bivio, sostiene Ágnes Heller. Ed è urgente che decida in che direzione orientare la propria rotta: sulla strada dell’universalismo e dell’inclusione, o su quella opposta dei confini, della paura e dell’ostilità nazionalista. Nata a Budapest nel 1929, espulsa una prima volta dal partito comunista ungherese nel 1949, allieva e collaboratrice del filosofo György Lukács, Ágnes Heller è tra i più autorevoli intellettuali contemporanei.

Diffidente verso ogni assunto dogmatico, docente prima a Budapest, poi a Melbourne e infine, dal 1986, alla New York School for Social Research, dove ha ricoperto la cattedra intitolata ad Hannah Arendt, l’autrice de La filosofia radicale ha attraversato tutto il Novecento da protagonista. Studiando il rapporto tra individuo e società, con l’idea che la filosofia serva a desacralizzare il mondo, e a trasformarlo. Lo crede anche oggi. Ma crede soprattutto che di un cambiamento, di un’apertura verso l’altro, abbia bisogno l’Unione europea, se non vuole rimanere «un’Europa burocratica, senz’anima».

Bulgaria, gendarme d’Europa

Questo pezzo è uscito su Pagina99, che ringraziamo (fonte immagine).

Sofia. «Ho scelto la rotta via terra per evitare la traversata del mare dalla Turchia alla Grecia, troppo pericolosa. Ma se avessi saputo quel che mi aspettava in Bulgaria, mi sarei imbarcato». Idris è un ragazzo poco più che ventenne. Preferisce che il suo cognome rimanga anonimo. Viene da Wardak, una provincia afghana a due passi da Kabul, in gran parte controllata dai Talebani. Non vede i genitori da molto tempo: «ho lasciato la mia famiglia otto anni fa».

Ha vissuto a lungo in Iran, nelle città di Mashad, Teheran, Shiraz. Poi ha deciso di raggiungere l’Europa. «In Iran non c’era più lavoro e venivo trattato male. Sono ripartito due mesi fa e ora eccomi qui, a Sofia, ma mi sento in trappola». Di tornare in Afghanistan non ci pensa. «Che dovrei fare, finire nelle braccia dei Talebani?». Continuare il viaggio verso «posti ricchi come la Germania» è diventato sempre più difficile. Fino a poche settimane fa, una volta raggiunta la cittadina serba di Dimitrovgrad, subito oltre il confine bulgaro, si otteneva facilmente un lasciapassare di 72 ore che consentiva di arrivare in Croazia, per poi proseguire verso l’Austria, la Germania, i Paesi scandinavi. «Ma ora è tutto bloccato. Colpa dei politici europei».