Il gatto ai confini dell’universo: considerazioni sulla letteratura

Che lingua fa? è il titolo della sezione principale dell’ultimo numero di Nuovi Argomenti, in uscita il 1 marzo. Curata da Giuseppe Antonelli, la sezione è dedicata alla lingua italiana: linguisti, poeti, scrittori, critici letterari affrontano il tema. A me è stato chiesto di riflettere sulla forma romanzo.

Non ho mai pensato che nei romanzi la lingua dovesse essere il risciò di sua maestà la narrazione, ma in passato mi è capitato di credere il contrario. Con sempre maggior frequenza i giornalisti culturali esaltano i romanzi in cui la “neutralità” (oserei dire l’imparzialità) della lingua rende la narrazione agevole e non pesante, scorrevole e non ostica, neanche la letteratura fosse una branca dell’economia dove ottimizzare il noto fosse più importante di perdersi nell’ignoto per risalire dal pozzo stringendo in bocca uno strano oggetto (perfino brutto o mostruoso) che l’umanità vede per la prima volta.

Al contrario degli ottimizzatori, credo che la letteratura abbia semmai più a che fare con la fisica teorica e con la stregoneria, con le Scritture (di cui molto spesso è la parodia) e con gli orologi fermi le cui lancette segnano almeno due volte al giorno l’ora di Dio.

Scoprire una verità nascosta (risalire dal pozzo con quell’oggetto) è tra le più belle ricompense che si possono ottenere grazie alla pazienza e alla fatica così spesso necessarie per scrivere un romanzo. Magari l’oggetto è inservibile. Magari è trascurabile e non rappresenterà mai una delle architravi su cui si reggerà la civiltà di domani, ma solo un fregio. E però quell’oggetto ha per me lo stesso un valore inestimabile.

Ho parlato di “oggetti” ma forse sarebbe più calzante l’ipotesi di specie viventi, perché questo in un certo senso sono i romanzi. Ecostistemi, specie viventi che ne contengono mille altre. Immaginate di aver visto tanti tipi di gatti ma mai un certosino. O tutti i fiori esistenti sul pianeta (tutti quelli che credevate i fiori esistenti fino a due secondi fa) ma mai un papavero. Il mondo andrebbe avanti lo stesso senza quel tipo di fiore o di gatto (e anche su questo, ci sarebbe da discutere), ma sapere che nell’universo – questo gigantesco spazio di cui saremmo contenitore e contenuto – cresce un papavero o si muove sinuosamente un gatto grigio di cui non sospettavamo l’esistenza è una cosa magnifica.

A questo tipo di scoperte, in letteratura, si giunge solo attraverso il lavoro sulla lingua. Mi correggo: non ci si può giungere senza un vero lavoro sulla lingua. Lavoro che non significa solo artigianato. Non vuol dire limare una frase fino a vederla risplendere, come pretendono gli ottimizzatori. Significa strofinare uno straccio sulla lampada fino a sentire la presenza del Genio. Inventarsi, in definitiva, una lingua. Una lingua che sembri quella d’uso comune, scritta e parlata nella vita quotidiana (nel nostro caso, l’italiano standard) ma di fatto sia una lingua straniera. Una lingua che viene da quel fuori che poi non è altro che il fondo del pozzo da cui ci auguriamo di risalire stringendo per la collottola il gatto grigio nuovo di zecca. Il quale felino, probabilmente, sonnecchiava indisturbato dalla notte dei tempi o da qualche decennio. Scoprire ciò che già esiste. Di solito si tratta di questo.

La faccenda della lingua straniera (o della lingua minore) l’hanno già spiegata tanti filosofi molto meglio di me. La ribadisco solo perché il messaggio non sembra passato del tutto, anzi sembra passare a stento se devo dare credito ai discorsi sulla letteratura che riempiono giornali, convegni, blog, chiacchiere da social.

Amare questi aspetti della letteratura mi è sempre venuto istintivo. È seguendo l’istinto che un ragazzino autodidatta nella cui casa non entrava nessun libro si innamorò di Proust, di Faulkner, di Lowry, di Joyce, di Musil e così via. Era ignorante, quel ragazzo, ma credo avesse orecchio.

Oggi, che è quasi passato un secolo dall’età d’oro del modernismo, a livello di discorso generale si ammette la grandiosità di un libro come Ulisse o L’uomo senza qualità, e al tempo spesso si auspica l’ottimizzazione, cioè il non lavoro sulla lingua, per meglio dire il lavoro sulla lingua standard esclusivamente funzionale a un plot, che, così facendo, non scopre neanche il noto ma rifrigge in una salsa di cattiva qualità ciò che abbiamo già detto o scritto male nel mondo dell’apparenza che è la vita quotidiana attraversata dai dormienti che quasi sempre siamo.

Sono discorsi che ogni frequentatore della buona poesia sente prima ancora di teorizzare. Si tratta in fondo di prestare orecchio senza la protezione di alcuna stele di Rosetta ai geroglifici di Amelia Rosselli o Wallace Stevens, tanto per fare due esempi. Se sentite ronfare il gatto grigio (o chi per lui) non c’è altro che dobbiate davvero sapere sulla letteratura. Dovete solo continuare a leggerla.

Solo che la prosa vola meno alta della poesia, e io scrivo romanzi. Così, la cosa che credo di aver scoperto man mano che procedevo nel mio lavoro, è che nei romanzi anche la storia, o se volete la trama, fa parte del linguaggio. Se la lingua è la luce in questo universo chiamato letteratura, ci sono percorsi che essa può compiere (pozzi in cui può infilarsi) solo se la vicenda raccontata prende una ben precisa piega. Ci sono curvature che la luce può subire solo se Yvonne torna dal Console Firmin e lui continua a bere come un forsennato, solo se Ulrich si interessa dell’Azione Parallela e ha una sorella di nome Agathe, solo se la mamma di Dolores Haze viene investita da un’automobile mandata dal signor McFatum. È grazie alla trama, se la lingua in certi casi può viaggiare più veloce della luce. Perché a volte la trama è una diramazione (o un crocicchio, come sarebbe piaciuto a Robert Johnson) ma altre volte potrà essere quello che i fisici teorici stanno cercando di trovare da qualche decennio senza successo: un wormhole.

Il gatto grigio (simile alla lettera di Poe) può avere sonnecchiato da sempre nella tua stanza senza che lo sapessi, o al contrario è il gatto grigio che da una vita aspetta te, proprio te, ma alla fine dell’universo. Senza una lingua aliena non lo vedreste. Ma senza che questa lingua possa intrecciarsi a una buona storia, non riuscireste a raggiungerlo.

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2 Commenti a “Il gatto ai confini dell’universo: considerazioni sulla letteratura”
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  1. […] sulla lingua. Bene, oggi l’ha spiegato egregiamente Nicola Lagioia su Mimima & Moralia (qui) e volentieri condivido. Anzi, adesso mi stampo tutto il pezzo di Lagioia e me lo porto dietro alle […]