La valutazione dell’utilità e l’utilità della valutazione

K3-Wassily-Kandinsky-Concentric-Circles

Questo pezzo di Francesca Coin è uscito su aut aut 360/2013 a cura di Alessandro Dal Lago.  (Immagine: Concentric Circles, Kandinsky)

di Francesca Coin

I have planted the tree of utility,

I have planted it deep, and spread it wide.

J. Bentham

Il contesto di questa riflessione è il passaggio dalla democrazia liberale di stampo welfarista-keynesiano, basata su un modo di produzione fordista, alla governance neoliberale, forma di governo post-democratica contraddistinta, sul piano produttivo, dalla produzione postfordista e dal libero mercato. Il concetto di merito funge da spartiacque tra le due epoche presentandosi quale dispositivo di allocazione delle risorse su base selettiva, in contrapposizione ai “finanziamenti a pioggia” che caratterizzavano l’epoca fordista. Utilizzato dapprima nel lavoro industriale, e poi esteso alla sfera pubblica, il concetto di merito si presenta come dispositivo di inquadramento alternativo alla contrattazione nazionale (1) che consente di ripensare il salario sulla base di criteri definiti di tipo premiale, che nella sostanza trasferivano sul lavoro parte della crisi di accumulazione dell’epoca fordista. Era stato Ohno nelle fabbriche toyotiste ad affiancare al controllo disciplinare, tecnico e meccanico, contraddistinto dalla catena di montaggio, quella che chiamava “auto-attivazione”: (2) nel sistema Toyota solo un terzo della busta paga era assicurato mensilmente secondo un contratto. Il resto dipendeva dalla produttività, dai tassi di assenteismo e dalla “lealtà” dei lavoratori agli interessi e agli obiettivi aziendali.

Il salario, in altre parole, era legato strettamente alla performance, alla quantità di lavoro erogata dal singolo operaio e dalla sua unità produttiva. Nel venir meno delle aspettative inflazionistiche del periodo fordista, il merito diventa dunque il dispositivo su cui si regge la generale  deregolamentazione del mercato del lavoro: l’uscita dal rapporto salariale, l’introduzione di forme di lavoro atipico e precario, il tentativo di celare la crescita della disoccupazione nella precarietà e la riduzione delle tutele. Non a caso, Trentin(3) definiva il merito come uno strumento in ultima analisi antisindacale, “utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori”, che molto presto “giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), e Michael Young(4) lo teorizzava in modo distopico, definendo la meritocrazia come un concetto discriminatorio, che giustifica una drammatica diseguaglianza sino a divenire “l’esatta antitesi della democrazia”, come scriveva Mannucci nella prefazione italiana al libro di Young.

È importante delineare il contesto di questa trasformazione, in quanto inizia allora, nel passaggio dall’epoca fordista all’epoca postfordista, dal sistema liberale al sistema neoliberale, il processo di riforma volto a estendere alla sfera pubblica le finalità di efficacia, efficienza, trasparenza tipiche della corporate accountability,(5) sino a ora caratteristiche della sfera privata, e il ripensamento complessivo di tutti quei servizi pubblici, dalla giustizia alla sanità all’istruzione, che caratterizzavano la società del secondo dopoguerra. Il passaggio dal ruolo regolativo dello stato a una governance decentrata, o, per dirla con Giraudi e Righettini,(6) “da sistemi istituzionali di governo, prevalentemente fondati sulle istituzioni della rappresentanza (partiti e parlamenti) e orientati alla centralità delle funzioni di input, a sistemi di governo orientati alla rivalutazione di modalità d’azione più orientate all’efficienza e all’efficacia degli output”, affida ai principi di accountability e rendicontabilità il tentativo di sostenere l’incremento della produttività a partire da un’allocazione selettiva delle risorse.

Tale scelta, figlia di un impianto neoclassico basato sull’individualismo metodologico e la matematizzazione dell’economia, si concretizza nel campo dell’istruzione nell’utilizzo diffuso della valutazione quale dispositivo di allocazione delle risorse su base selettiva alle sole aree di ricerca, soggetti, oggetti e strutture efficienti. Ecco che, scrive Marginson, nell’università neoliberale tali riforme si esprimono con l’applicazione di un pacchetto standard che “include la crescita della contribuzione studentesca (spesso accompagnata dalla riduzione del contributo statale al diritto allo studio e dall’offerta di prestiti d’onore legati al merito), una crescita del ruolo delle istituzioni private nelle politiche di formazione e ricerca, la creazione di competizione per l’accesso ai finanziamenti statali”,(7) e un ampio numero di esercizi di valutazione volti a far sì che le università dimostrino “di aver correttamente speso il danaro del taxpayer e così pure di averlo meritato e di meritarlo in futuro”.(8)

In linea con la teoria neoclassica, si afferma dunque nella crisi dell’epoca fordista un concetto di efficienza che sposta la responsabilità della crescita della produzione e della produttività all’individuo, puntando in questo modo a ottenere ricadute immediatamente osservabili sul mercato. Siamo di fronte a un cambio di paradigma complesso, che trova i suoi fondamenti nella rivoluzione del valore, quando l’analisi economica moderna descrive la produzione materiale non più come spontanea innovazione dei processi sociali, bensì come funzione di un obiettivo il cui argomento è l’utilità. Come scrive Lunghini, la rivoluzione del valore “nega che il valore delle merci dipenda da loro proprietà intrinseche: esso dipenderebbe invece dall’apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell’attitudine dei beni economici di soddisfare i bisogni”.(9)

Al contrario, essa definisce il valore di ogni cosa in base alla sua capacità di ottenere realizzazione nel mercato. Vediamo qui pienamente consolidata la formalizzazione scientifica del comportamento economico dell’individuo razionale nella relazione di scambio,(1)0 nonché l’accoppiamento tra un regime di verità e una nuova ragione di governo, nel legame con l’economia politica.(11) Il mercato sembra obbedire, dunque, non più ai bisogni o alle relazioni, bensì a meccanismi “naturali”; non a caso Foucault suggeriva che “è un naturalismo, quello che vediamo apparire alla metà del XVIII secolo, molto più che un liberalismo”.(12) Fatto sta che a partire dagli anni cinquanta, la produzione materiale diviene funzione di un obiettivo il cui argomento è l’utilità, e la teoria del capitale umano sigilla la presenza della vita “nel campo dei calcoli espliciti”, servendosi della matematizzazione del discorso economico e dell’individualismo metodologico per codificare l’essere umano come un vero e proprio fattore di produzione. Possiamo rintracciare il punto di partenza in un passaggio di Ricchezza delle Nazioni, dove Adam Smith sostiene che l’individuo è di fatto equiparabile a una costosa macchina produttrice, la cui formazione è funzionale alla produzione di ricchezza:

Un uomo educato a spesa di molto lavoro e molto tempo a qualunque di quelli impieghi, che richieggono straordinaria destrezza e abilità, può essere paragonato ad una di quelle dispendiose macchine. Si debbe attendere che l’opera che egli impara a fare, oltre agli usuali salarii del comune lavoro gli rimpiazzasse l’intiera spesa della sua educazione, insieme agli ordinarii profitti d’un capitale di eguale valore. E debbe fare ciò anco in un tempo ragionevole avuto riguardo alla troppo incerta durata della natura umana, nello stesso modo che si ha riguardo alla durata meno incerta della macchina.(13)

A partire dagli anni sessanta del Novecento, il concetto di capitale umano diviene, dunque, oggetto di articolate riflessioni miranti a ricodificare l’utilità umana a partire dall’economia politica. È in questo contesto che la Economics of Education ripensa il ruolo della conoscenza e dell’istruzione. A partire dagli anni sessanta, essa trasforma le modalità con cui si guardava alla formazione. Condorcet descriveva l’istruzione terziaria in Sull’istruzione pubblica come un diritto che deve essere gratuito in tutti i suoi gradi:

Questo è un mezzo non solo per assicurare alla Patria un numero maggiore di cittadini in grado di servirla e alle scienze un maggior numero di uomini capaci di contribuire al loro progresso, ma anche di diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, di mescolare tra di loro le classi che tale differenza tende a separare. L’ordine della natura non stabilisce nella società altra ineguaglianza che quella dell’istruzione e della ricchezza; estendendo l’istruzione attenuerete contemporaneamente gli effetti di queste due cause di distinzione.(14)

La Economics of Education non ha come riferimento il diritto, né la società, e tantomeno l’eguaglianza. Inserita in un contesto teorico fondato sul postulato della capacità dei mercati di autoregolarsi,(15) la Economics of Education descrive l’istruzione come un investimento finalizzato a fornire all’individuo razionale le competenze di cui il mercato abbisogna, in modo tale da concentrare gli investimenti su quei soli soggetti, strutture e studenti che più saranno in grado di portare ricadute economiche immediate sul mercato. Dato l’impatto della formazione sulla produttività individuale, l’istruzione è un investimento fondato su valutazioni di opportunità volte a rispondere ai calcoli di domanda e offerta, riducendo le possibili storture del mercato, come un’istruzione eccessiva o non corrispondente alle competenze richieste (overeducation e mismatch).

Appare qui una concezione radicalmente diversa dell’istruzione. Questa, infatti, non contempla il concetto di società. Essa propone un’immagine del mondo divenuto mercato in cui la sola razionalità, come sostiene Hayek,(16) in grado di raccordare l’insieme atomizzato dei comportamenti umani, è la catallassi, dal greco katallattein, razionalità fondata su uno stesso principio utilitaristico. Se vogliamo, il ritornello che più semplicemente descrive questa trasformazione è la famosa citazione di Margaret Thatcher per cui non esiste la società, ma esistono solo gli individui. In questo contesto, l’economia neoclassica, in linea con il progetto neoliberale, non si preoccupa delle finalità sociali dell’istruzione. “Trovo in effetti difficile immaginare in che cosa consisterebbero queste ‘esternalità’”, scrive Kenneth Arrow.(17)

I benefici dell’istruzione sono anzitutto privati, assimilabili al reddito e all’incremento della produttività. Investimento che produce benefici sostanzialmente privati riconducibili al reddito, l’istruzione non giustifica un sussidio rilevante da parte dello stato. Non avendo alcuna ricaduta collettiva diretta immediatamente quantificabile, il ruolo della conoscenza sarà incentivare la crescita come condizione primaria di benessere individuale. In questo contesto, la teoria del capitale umano utilizza la formazione per aumentare la produttività del fattore lavoro, sostenendo che i suoi rendimenti di scala saranno costanti o crescenti. A partire dal lavoro di Jacob Mincer, Theodore Schultz, Gary Becker, e ancor più in seguito a Solow e Abramovitz,(18) dunque, il sapere assume un ruolo centrale nella crescita economica, e la crescita economica  si fa costante, trasformando il capitale umano e la tecnologia in un fattore di produzione: una voce di bilancio da massimizzare in funzione dell’utilità marginale.

Negli anni sessanta, la Economics of Education ripensa, dunque, l’istruzione quale investimento in capitale umano, e suggerisce che essa non vada considerata come forma di consumo bensì come investimento da ottimizzare a partire da valutazioni di opportunità. I costi diretti vanno ripensati in termini di rendimento futuro, consentendo a ogni individuo di fare una scelta razionale sulla base di una logica di costi e benefici. Sul finire dell’epoca fordista, pertanto, il sistema d’istruzione inizia un processo di riforma radicale. In quanto enti autonomi, responsabili e accountable, gli istituti di ricerca e istruzione terziaria cessano di essere “enclaves dedite alla formazione di ristrette élite destinate alla guida del paese”, per divenire “parte integrante del sistema economico e produttivo finanziate largamente con danaro pubblico”.(19) Il loro ruolo non sarà più diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, o mescolare tra di loro le classi, come scriveva Condorcet, bensì garantire la produzione di un “capitale umano” spendibile sul mercato del lavoro, nonché “consegnare la sua ricerca-prodotto con una velocità e un’affidabilità che assomigli a quella del mondo dell’impresa privata, in un modo che possibilmente rafforzi “le prestazioni che il secondo ha nel mercato globale”.(20) I problemi cui rispondono queste riforme sono molteplici. Nelle parole di Nico Hirtt:

Il problema posto a coloro che governano il settore educativo è il seguente: il periodo compreso tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta ci ha lasciato in eredità sistemi scolastici di massa, attraverso i quali gli allievi frequentano, a seconda del paese, dagli otto ai dieci anni di formazione comune. Storicamente, ciò corrispondeva alla fiducia di un capitalismo prospero in una forte e durevole crescita economica che avrebbe richiesto un aumento continuo dei livelli formativi. Ma oggi siamo immersi nell’epoca delle crisi e della polarizzazione delle qualifiche. In tali condizioni, quale può essere la base formativa comune per i futuri ingegneri da una parte, e dei futuri lavoratori dequalificati, dall’altra?(21)

È qui che viene elaborata per la prima volta l’idea di introdurre nell’istruzione terziaria un sistema di prestiti d’onore, che lo stesso Milton Friedman definiva, nel celebre Il ruolo dello stato nell’istruzione (1955), come “equivalente dell’acquisto di una percentuale nella capacità individuale di reddito futura e pertanto come una schiavitù parziale”.(22) È qui che si inizia a parlare di “talenti”(23), termine oggi utilizzato nelle Human Resources e nel Talent Management per indicare la capacità del capitale umano di rispondere alle esigenze delle imprese su scala transnazionale, in una sorta di mercato intercontinentale delle competenze. È qui, inoltre, che si comincia a parlare di innovazione e sviluppo quale parte integrante delle finalità di ricerca. È qui che si inizia a parlare di valutazione. Lovaglio ha delineato le diverse modalità di stima del valore umano. Egli ricorda per esempio il caso di Sir William Petty (1690), il primo a tentare di quantificare il valore del capitale umano basandosi sull’ipotesi che tale valore deriva dalla rendita perpetua del reddito da lavoro nell’arco di tutta la vita a un certo tasso di interesse. William Farr (1853) ha poi sistematizzato il metodo scientifico lavorando sulla capitalizzazione dei redditi:(24)

Secondo tale approccio il valore economico netto (capitale umano netto) di una persona di età a (Va) è uguale al valore dei flussi attesi derivanti dai redditi da lavoro al netto dei costi di mantenimento, ponderato per la probabilità di sopravvivere fino a una certa età (tale valore viene definito “valore presente” o “valore attuale”, poiché secondo un linguaggio attuariale, ciascuna entità economica futura deve poter essere valutata all’istante temporale (età) che si sta considerando, cioè attualizzata).(25)

Senza entrare troppo nel tema, ancora una volta questi tentativi descrivono la ricerca di un’idea “naturale” di valore che sia “vera” e “giusta”. E ancora una volta la definizione di “vera” e “giusta” passa attraverso un discorso naturale e scientifico che enumera, classifica, raggruppa e riconfigura gli individui in base alla loro capacità di produrre reddito sulla base dell’incremento di conoscenze e l’attitudine al lavoro.(26) Ai fini di un migliore incontro tra domanda e offerta, il compito dei saperi è dunque produrre i profili di cui il mercato ha più bisogno, in modo tale da concentrare gli investimenti solo su soggetti, strutture, progetti che più saranno capaci di ricadute economiche sul mercato. Ma qui appare un problema. La produzione ordinata, naturale e scientifica di individui produttivi, infatti, è in contraddizione con l’evoluzione della teoria neoclassica, che, nel corso degli anni, sposta l’attenzione da un sistema produttivo progressivo a un sistema produttivo fondato sul debito, dal gioco a somma positiva al debito – una contraddizione che estende a tutti gli ambiti della vita sociale la legge del plusvalore, e si estrinseca nelle crescenti diseguaglianze della vita materiale. Si potrebbe dire che l’estensione della legge del plusvalore a tutti i campi, la convinzione che si possa trasferire alla produzione di conoscenza e capitale umano la massimizzazione del profitto, assume a un certo punto una valenza negativa, e finisce per esacerbare le contraddizioni dell’economia neoclassica, mentre le naturalizza come unica realtà possibile.

Il punto di partenza è ancora una volta la rivoluzione del concetto di valore di Jevons.(27) Il tentativo di elaborare un’idea “naturale”, “vera e giusta”, di valore viene a coincidere con la sua formalizzazione scientifica in un processo che separa la produzione dai bisogni, sovradeterminandone così le finalità. Nel secondo dopoguerra, l’assiomatizzazione del modello produttivo, ovvero la sua riproduzione circolare, si fa così fucina di contraddizioni. Penso, oltre che all’eccedenza produttiva – residuato di una potenzialità produttiva di gran lunga eccedente i bisogni – all’eccedenza postfordista che Alessandro De Giorgi identifica, tra le altre cose, con un complesso di soggettività che eccedono la logica governamentale ed “esasperano la contraddizione tra una cittadinanza sociale fondata sul lavoro e una sfera produttiva che di lavoro vivo ha sempre meno bisogno”.(28)

L’assiomatizzazione delle finalità neoclassiche, in questo senso, richiama quel processo linguistico per cui l’economia politica si fa verità nel momento stesso in cui si estrinseca come controproduttiva, in un processo contraddittorio per cui si fa minacciosa nel momento stesso in cui si presenta come il depositario stesso “del mito della società, l’istituzionalizzazione delle contraddizioni del mito, e sede del rituale che riproduce e maschera le discordanze tra mito e realtà”.(29) In questo contesto, terminata la fase espansiva dell’epoca fordista, la formalizzazione scientifica delle leggi che regolano il comportamento economico  finisce dunque per produrre due mondi: un’élite eccellente che vive in un mondo utile ed efficiente, in cui tutto “funziona”, come diceva Bataille, nonostante l’assenza di relazione fra l’essere umano e il mondo;(30) e una moltitudine eccedente, che vive nelle sue contraddizioni.

Il concetto di merito nasce qui. Dispositivo di deregolamentazione della geometria economica, sin dall’inizio il merito viene utilizzato come correttivo della qualificazione dei lavoratori, nel tentativo di conservare l’ordine sociale nonostante il venir meno delle condizioni che lo producevano. Nell’istruzione, il merito diventa così un dispositivo di accesso, il filtro che si prefigge di allocare talenti e capitale umano sul mercato sulla base del loro valore intrinseco, smarcando l’individuo meritevole dalle moltitudini eccedenti, come l’eccellenza si smarca dalla massa. Ecco che in questo mondo fortemente diviso, in cui reddito e sapere sono distribuiti in maniera diseguale, la valutazione è la linea di demarcazione delle nuove classi. I meritevoli accedono alle “fabbriche delle élite”,(31) come oggi l’Eton College in Inghilterra o più in generale le League Tables, università al top dei ranking mondiali nelle quali si formano le classi dirigenti, mentre tutti gli altri si formano nelle rimanenti sedicimila università mondiali, quelle che nei ranking non rientrano, sempre ammesso che vi possono accedere.

Quando l’epoca fordista giunge al declino, producendo una società diseguale in cui crescono debito ed esclusione, il ruolo dell’istruzione non sarà più diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, bensì legittimarla. Come scriveva Michael Young, la società meritocratica è diseguale, con la differenza che i meritevoli sono “insopportabilmente arroganti”. In questa circostanza, infatti, la “classe” di riferimento non deriverà più dalla ricchezza, dal prestigio o dal potere, come scriveva Weber, bensì dal merito, imputando così l’esclusione a chi la subisce. Ancora una volta, il concetto di merito cancella le variabili di contesto, liberandosi della “spazzatura che ingombra le fondamenta della scienza economica”,(32) e trasforma la crescita della produzione e della produttività nell’unica condotta legittima. In questo senso, l’estensione alle condotte personali della concezione puramente quantitativa della crescita della produzione e della produttività(33) trasforma la competizione nell’unica condotta possibile, in un processo che produce esclusione laddove promette eccellenza, e povertà laddove promette ricchezza: un effetto San Matteo per cui “a chiunque ha sarà dato abbondantemente, ma a chi non ha sarà tolto anche quel che ha”.

L’importanza della valutazione, in questo senso, non consiste tanto nella scelta degli standard, i criteri regolativi o autoregolativi di derivazione manageriale volti a quantificare il merito. La maggior parte dei dibattiti sui criteri utilizzati per l’elaborazione dei parametri di valutazione potrebbe essere assimilata a poco più che un tentativo di difendere antiche posizioni di privilegio nel passaggio dall’epoca liberale all’epoca neoliberale. Il problema è che l’estensione della razionalità economica neoclassica ai comportamenti sociali nasconde il segreto ultimo dell’evoluzione capitalistica. Il fatto, cioè, che la razionalità economica, come scrive Marx nei Grundrisse, è in contraddizione con se stessa.(34) In questo senso, la fine della fase progressiva dell’evoluzione capitalistica e l’esacerbarsi delle sue contraddizioni, così esplicitamente rivelata dalla fine dell’epoca fordista, si accompagnano con l’introiezione della razionalità capitalistica nelle condotte; in tal modo, la valutazione, come espressione stessa della legge del valore/plusvalore, produrrà l’individuo come homo oeconomicus, mentre mimetizza nella sua condotta la rivoluzione del valore.

Il concetto di capitale umano, in questo senso, rivela un processo di codifica e riterritorializzazione, direbbe Deleuze, che produce lavoratori efficienti, mentre dilaga la disoccupazione – proprio come il timoniere di una barca piena di falle intima ai passeggeri di remare più forte, giungendo infine ad accelerarne il naufragio. Quando parliamo di assiomatizzazione delle finalità della teoria neoclassica, in questo senso, pensiamo sì all’estensione delle sue finalità a ogni campo, alle modalità con cui il taylorismo diventa filosofia politica,(35) e il mercato diventa natura umana, ma pensiamo ancor più al sopravvivere del mercato nelle condotte personali e alla trasformazione dell’umanità in capitale umano. La sopravvivenza dell’economia neoclassica al proprio stesso declino, infatti, è per molti versi sorprendente. Come scriveva Colin Crouch in Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo(36) (che in inglese aveva un titolo più suggestivo: The Strange Non-death of Neoliberalism), la non-morte già parla di un fatto controintuitivo: come il mercato sopravviva alle proprie contraddizioni, normalizzandole nella produzione di una nuova verità.

Di fatto, è questo il nodo centrale dell’epoca contemporanea: il modo in cui l’essere umano diventa soggetto riflette una verità in sé contraddittoria, cosicché l’elaborazione di sé, da parte del soggetto, sarà costretta a fare leva sullo stesso concetto di valore che è responsabile della sua alienazione. Mentre diviene manifesto il passaggio del capitalismo dalla fase progressiva alla fase regressiva, dalla crescita all’austerità, dalla produzione all’estrazione di valore, tale contraddizione ricorda il concetto di soggettività nella letteratura subalterna, quando la rappresentazione coloniale della verità si fa a tutti gli effetti funzionale alla produzione di sottosviluppo.

Non a caso, scrive Frantz Fanon in Razzismo e cultura: “In colonia, l’infrastruttura economica è pure una sovrastruttura. La causa è conseguenza: si è ricchi perché si è bianchi, si è bianchi perché si è ricchi. Perciò le analisi marxiste devono essere sempre leggermente ampliate [distendues] ogni volta che si affronta il problema coloniale”.(37)

Sebbene questa citazione ci porti indietro nel tempo, nulla può riflettere meglio la trasformazione della razionalità economica in assioma, linguaggio e verità della valutazione, che sposta la coazione a produrre dalla struttura economica alla sovrastruttura, dalla sfera dei bisogni all’ontologia. Come in colonia si diceva “si è ricchi perché si è bianchi e si è bianchi perché si è ricchi”, così oggi si dice “è giusto perché lo dice il mercato e lo dice il mercato perché è giusto”: ancora una volta la conseguenza diventa la causa in un meccanismo che “dileggia, calpesta, vuota” i valori esistenti, per riprendere quanto scrive Fanon, e “infrange le coordinate mentali dell’indigeno”,(38) mentre ne determina l’elaborazione di sé. In questo contesto la cultura si serve di “monumenti intellettuali immutabili”, l’istruzione, la letteratura, le università, per produrre la conoscenza di sé, e al tempo stesso si sviluppa e convive con la produzione di sfruttamento: al punto che il colono ieri, come l’escluso di oggi, “finisce per riconoscere, seppure a denti stretti, che Dio non sta dalla sua parte”.(39)

Verità ubiqua, pervasiva e totale, in cui si rivela l’accoppiamento tra un regime di verità e una nuova ragione di governo, nel nome dell’economia politica, la valutazione, in questo senso, corrisponde al tentativo di naturalizzare un concetto di “vero” e “giusto” che tuttavia nasconde, come scrive Marx nei Grundrisse, un’economia in contraddizione con se stessa. Questa verità ultima, che ironicamente Marx descriveva come “‘il Dio straniero’ che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo unico dell’umanità”,(40) sarà sede di esclusione e diseguaglianze, e unica verità in grado di distinguere i sommersi e i salvati, i virtuosi e i peccatori, i meritevoli e i dannati, in un processo che sopravvive solamente grazie a una sorta di infantilizzazione di massa. D’un tratto l’individuo crederà nell’esistenza dei buoni e dei cattivi come i bambini credono a Babbo Natale, scrive Milner.(41) E questo raffinatissimo e modesto dispositivo farà le veci del Dio straniero autorizzato a decidere chi può vivere e morire, a chi spetta il paradiso e a chi l’inferno, chi avrà diritto alla salvezza e chi invece non potrà evitare “quelle masse, compatte, brulicanti, tumultuose, che si trovavano nei luoghi di detenzione, quelle che Goya dipingeva o Howard descriveva” come lo zoo umano delle moltitudini.(42)

E allora, per tornare all’oggi, fanno un po’ sorridere i dibattiti sugli standard, sui codici regolativi o autoregolativi “veri e giusti”, così come fa sorridere l’idea che sia possibile ancora una volta elaborare un’idea “naturale” e “vera” di valore capace di superare la formalizzazione scientifica di Petty o Farr. Va da sé che il problema non sono i criteri utilizzati, bensì, paradossalmente, proprio la cultura della valutazione. E cioè l’idea per cui “the market is in human nature”, il mercato è nella natura del soggetto, come scrive Fredric Jameson,(43) al punto che per lederne la sovranità bisognerebbe “strappare il soggetto da sé”.(44)

 

1. B. Trentin, A proposito di merito, “l’Unità”, 13 luglio 2006.

2. F. Coin, Il produttore consumato. Saggio sul malessere dei lavoratori contemporanei, Il poligrafo, Padova 2006.

3. B. Trentin, A proposito di merito, cit.

4. M. Young, L’avvento della meritocrazia (1958), Edizioni di Comunità, Milano 1962.

5. A. Arienzo, Dalla corporate governance alla categoria politica di governance, in G. Borrelli (a cura di), Governance, Dante e Descartes, Napoli 2004, pp. 125-162.

6. G. Giraudi, M.S. Righettini, Le autorità amministrative indipendenti. Dalla democrazia della rappresentanza alla democrazia dell’efficienza, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 202.

7. S. Marginson, The Limits of Market Reform in Higher Education, “Higher Education Forum”, 7, 2002, p. 4.

8. A. Banfi, Salvare la valutazione dall’agenzia di valutazione?, “Federalismi”, 22, 2012, p. 1.

9. G. Lunghini, Forma matematica e contenuto economico, 2002, disponibile su <cfs.unipv.it/scritti.htm>, p. 1.

10. M. Friedman, “The role of government in a free society”, in Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, Chicago 1962; P. Peretz, The Politics of American Economic Policy Making, Sharpe, Armonk (N.Y.) 1996, pp. 22-32.

11. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, p. 204.

12. Ivi, p. 63.

13. A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni (1776), Pomba, Torino 1851, p. 70.

14. J.A.C. de Condorcet, Sull’istruzione pubblica (1792), Libreria Editrice Nova, Treviso 1966, p. 69.

15. Essa si basa cioè sull’idea che il capitale affluisce laddove la sua utilità risulta massima, a partire da un concetto di valore fondato sull’apprezzamento che le singole merci riscontrano nel mercato.

16. F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà (1973), il Saggiatore, Milano 1986; A. Garapon, Lo stato minimo. Il neoliberalismo e la giustizia (2010), Raffaello Cortina, Milano 2012.

17. K. Arrow, Excellence and Equality in Higher Education, “Education Economics”, 1, 1993.

18. J. Mincer, Investment in Human Capital and Personal Income Distribution, “Journal of Political Economy”, 66, 1958; T.W. Schultz, Investment in Human Capital, “American Economic Review”, 51, 1961, pp. 1-17; G.S. Becker, Human Capital, Columbia University Press, New York 19642; M. Solow, A Contribution to the Theory of Economic Growth, “Quarterly Journal of Economics”, 70, 1956, pp. 65-94; M. Solow, K.J. Arrow, B.S. Chenery, B.S. Minhas, Capital Labor Substitution and Economic Efficiency, “The Review of Economics and Statistics”, 43, 1961, pp. 56-98; M. Abramovitz, Resource and Output Trends in the United States since 1870, “American Economic Review”, 46, 1956.

19. A. Banfi, Salvare la valutazione dall’agenzia di valutazione?, cit., p. 1.

20. M. Ricciardi, Come soffocare l’università, Roars.it, 5 gennaio 2011, <www.roars.it/online/come-soffocare-luniversita/>.

21. N. Hirtt, In Europa, le competenze contro i saperi, “Le Monde diplomatique”, ottobre 2010; D.H. Autor, L.F. Katz, M.S. Kearney, The Polarization of the U.S. Labor Market, “American Economic Review”, 96, 2006.

22. M. Friedman, Capitalism and Freedom, cit.

23. Mi riferisco in particolare al testo di E. Michaels, H. Handfield-Jones, B. Axelrod, The War for Talent, McKinsey & Co., Harvard Business Press, Harvard (Mass.) 2001.

24. P. Lovaglio, G. Vittadini, Il concetto di capitale umano e la sua stima, in M. Pelagatti (a cura di), Studi in ricordo di Marco Martini, Giuffrè, Milano 2004; W. Petty, Political Arithmetick, C.H. Hull, London 1690; W. Farr, Equitable Taxation, “Journal of Royal Statistical Society”, 16, 1853, pp. 1-45.

25. W. Farr, Equitable Taxation, cit.

26. Cfr. J. Mincer, Investment in Human Capital and Personal Income Distribution, cit.; G.S. Becker, Human Capital, cit.; T.W. Schultz, Investment in Human Capital, cit.

27. W. Jevons, Teoria dell’economia politica (1871), UTET, Torino 1947.

28. A. De Giorgi, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, ombre corte, Verona 2002.

29. Riprendo una citazione di Ivan Illich che si riferisce alla scuola, ma può essere riletta in questo contesto. Cfr. I. Illich, Descolarizzare la società (1972), Mimesis, Milano-Udine 2010.

30. G. Bataille, Il limite dell’utile (1976), Adelphi, Milano 2000.

31. F. Rampini, Le fabbriche delle élite, “la Repubblica”, 14 maggio 2013.

32. Sto riprendendo una citazione di F.Y. Edgeworth, Mathematical method in political economy, in Palgrave’s Dictionary of Political Economy, Macmillan, London 1894-1899, riportata da G. Lunghini, Forma matematica e contenuto economico, cit., p. 2.

33. Riprendo la definizione di C. Vercellone, La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo, 27 agosto 2012, <www.uninomade.org/vercellonelegge-valore/>.

34. Scrive Marx: “Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo: da una parte, si sforza di ridurre il tempo di lavoro [necessario alla produzione delle merci] a un minimo, e dall’altra pone il tempo di lavoro come la sola fonte e la sola misura della ricchezza”, K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1858), La Nuova Italia 1968-70, vol. II, pp. 389-411.

35. S. Waring, Taylorism Transformed: Scientific Management Theory since 1945, University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 1991.

36. C. Crouch, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo (2011), Laterza, Roma-Bari 2012.

37. Cfr. F. Fanon, I dannati della terra (1961), Einaudi, Torino 2007, p. 7. Ottimo a riguardo l’articolo di S. Visentin, Trasformazioni della Verwandlung. Rileggere l’accumulazione originaria attraverso Fanon, testo presentato all’interno del seminario “GlobalMarx”, <www.connessioniprecarie.org/files/2013/03/Visentin-Fanon-postcoloniale.pdf>.

38. F. Fanon, Razzismo e cultura (1956), in Scritti politici. Per la rivoluzione africana, a cura di M. Mellino, DeriveApprodi, Roma 2006, vol. I, p. 47.

39. F. Fanon, Razzismo e cultura, cit., p. 51.

40. K. Marx, Il capitale (1867), Editori Riuniti, Roma 1989, Libro I, p. 813.

41. J.C. Milner, La politique des choses, Navarin, Paris 2005.

42. M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1993, p. 216.

43. Scrive Jameson: “‘The market is in human nature’ is the proposition that cannot be allowed to stand unchallenged; in my opinion, it is the most crucial terrain of ideological struggle in our time”, F. Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham (N.C.) 1991, p. 263.

44. D. Trombadori, Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell’ultimo maîtreà-penser, Castelvecchi, Roma 2005, p. 32.

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