Scrittori arabi contemporanei, quarta puntata

mahfuz naguib

La rubrica di Mario Valentini è dedicata alla letteratura araba contemporanea. Qui le puntate precedenti. (Nella foto: Nagib Mahfuz. Fonte immagine.)

Mahfuz e le città

I romanzi arabi non possono essere ricondotti a una dimensione puramente locale. L’interesse che ci può mettere sulle loro tracce non è di tipo etnico. Leggerli non significa avvicinare un mondo altro. È il tuo stesso mondo quello che hai davanti, e la tua stessa identica storia, solo vista dalla diversa prospettiva dovuta a un’altra latitudine.

Mi girano in testa questi pensieri mentre riprendo in mano Il nostro quartiere di Nagib Mahfuz, il libro di cui vorrei parlare stavolta. Lo avevo comprato e letto diversi anni fa perché mi interessava un certo modo di raccogliere le storie e di tenerle insieme, senza costruire una trama romanzesca, procedendo per variazioni sul tema, seguendo il filo dei ricordi, con una scrittura molto legata al modo orale di tramandare e porgere i racconti.

Poi però mi metto a leggere Vicolo del mortaio dello stesso Mahfuz (romanzo del 1947, pubblicato in Italia nel 1989) e inizio a confrontarlo con un altro romanzo egiziano, scritto quasi sessant’anni dopo, nel 2002, e tradotto in italiano nel 2006: Palazzo Yacoubian di Ala Al-Aswani.

Si tratta, nel caso Al-Aswani, di un vero successo internazionale: un romanzo tradotto in molte lingue, letto in tutto il mondo, in cui molti hanno visto espressi temi e clima sociale che preconizzavano le rivolte del 2011 contro Mubarak e il suo regime.

In entrambi i libri un luogo, anzi un vero e proprio nucleo abitativo definito e circoscritto, rappresenta l’unità spaziale entro cui si intrecciano e si sviluppano le diverse storie narrate nel corso del romanzo. Nel libro di Mahfuz questo luogo è il vicolo, inteso come piccolo mondo compiuto attraverso cui puoi leggere, in controluce, illusioni e cadute della società egiziana dell’immediato secondo dopoguerra, le istanze di emancipazione e i cascami che ne rallentavano l’evolversi. Nel romanzo di Al-Aswani è il palazzo, inteso anch’esso come microcosmo pienamente rappresentativo delle diverse tensioni sociali di una nazione.

La forma narrativa che rende possibile realizzare un romanzo in cui in un’unità di luogo si svolgano molteplici storie sovrapposte è quella del montaggio alternato, utilizzato efficacemente in ambedue i casi.

Ed è una storia non solo egiziana quella che si può riattraversare leggendo parallelamente questi due romanzi. Perché, passando dal vicolo di Mahfuz al palazzo di Al-Aswani, ritrovi la trasformazione di una capitale come Il Cairo da città dal profilo tradizionale in metropoli, che è poi lo stesso identico percorso che hanno seguito tutte le grandi città con una forte identità popolare, anche italiane. Vedi il passaggio dal vecchio centro urbano inteso come luogo di radicamento nella vita di quartiere, in cui la strada ha un ruolo fondamentale nel regolare l’esistenza degli individui e in cui tutto sembra scorrere e tramandarsi uguale per decenni, alla metropoli senza più centro e radicamento, in cui residenti intercambiabili fanno la vita dei dispersi.

Il Cairo di Mahfuz è una città in cui risulta ben presente l’occupazione militare inglese e in cui allontanarsi dal vicolo, anche solo per inoltrarsi nelle ampie piazze e vie dei quartieri commerciali, significa per i protagonisti entrare in una potenziale zona di pericolo, darsi in pasto all’estraneo e poter perdere il proprio orientamento. Il Cairo di Al-Aswani è ormai una metropoli globale, amministrata da politici corrotti che rendono impossibile qualsiasi speranza di vita democratica e attraversata dall’islamismo estremo con pulsioni e progetti di tipo terroristico.

Vicolo del mortaio ci è del tutto familiare, nella struttura e nei contenuti. È un romanzo di impianto realista, che riattualizza certe modalità del romanzo europeo ottocentesco. È ambientato nel 1944, verso la fine del secondo conflitto mondiale. Non presenta le immagini di distruzione delle città bombardate che mostrano i film del neorealismo italiano ma si può benissimo accostare, a mio avviso comodamente, anche alle grandi narrazioni italiane dell’immediato secondo dopoguerra. Al netto degli abiti tradizionali egiziani, di certe caratteristiche sociali precipue, dei cibi e dei loro nomi, di certe figure di saggi devoti, di certe abitudini religiose, la società ritratta e le istanze di cui i personaggi si fanno portatori non sono poi molto lontane da ciò che le nostre narrazioni di quel periodo proponevano.

Vi troviamo figure di tombaroli che finiscono in galera, in un contesto in cui la galera è un’esperienza familiare che non ti esclude affatto dal consorzio sociale; donne mature che cercano in un matrimonio tardivo la felicità; ragazze di umili origini che sognano ricchezze, emancipazione e una vita diversa da quella tradizionale che le programma per essere spose e madri, finendo per incontrare la prostituzione; giovani barbieri che abbandonano il vicolo per fare fortuna lontano da casa e per i quali il distacco è foriero di una tragica fine; ecc.

Ora, il fatto è questo, a mio avviso. Siccome in Italia, tra i libri dei diversi autori di lingua araba che da vent’anni a questa parte sono stati tradotti, circolano diffusamente solo i romanzi di Mahfuz e poco altro, uno si può fare l’idea che la letteratura araba, e nella fattispecie quella egiziana, sia solo quella. Invece Mahfuz va inteso per quello che è, e letto con un po’ di consapevolezza storica: un grande autore della letteratura internazionale che ha cominciato a scrivere negli anni ’30 del ‘900, proponendo romanzi ambientati nell’antico Egitto (genere molto diffuso all’epoca). Un autore che ha poi attraversato molte stagioni, tra cui quella del realismo sociale, e ha mutato più volte le proprie forme espressive nel corso degli anni, nei più di quaranta libri che ha pubblicato in vita sua. Un autore che gli scrittori egiziani si sono lasciati alle spalle da tempo, sebbene l’ammirazione per la sua narrativa non sia mai davvero tramontata, e rispetto a cui almeno tre generazioni di autori egiziani hanno scritto in discontinuità, quando non con una esplicita intenzione di rottura.

I primi a averlo fatto sono gli autori della cosiddetta Generazione degli anni Sessanta, che attraverso la rivista “Gallery ‘68” hanno anche dato vita a un’esperienza comune attraverso cui sperimentare forme del racconto molto alternative rispetto ai (molteplici, bisogna dire, e comunque vari, sempre in evoluzione) modelli proposti da Mahfuz. Alcuni nomi: Edwar al-Kharrat, Muhammad al-Busati, Ibrahim Aslàn, Sonallah Ibrahìm, Baha Tahèr. Tutti scrittori di notevole spessore, e caratterizzati da un impegno politico di sinistra che li ha condotti, chi prima chi anche dopo l’avvento di Nasser, a frequentare per diversi anni le galere egiziane. E a molti dei quali, poi, sotto Sadat, è andata anche peggio, essendo stati costretti al silenzio attraverso la censura, o all’isolamento e alla disperazione tramite il licenziamento sistematico dai posti lavoro. E, in ultima istanza, all’esilio.

Prendiamo al-Kharrat, per esempio. Prendiamo Alessandria. Città di zafferano, libro che risale al 1985 e che è stato pubblicato in Italia nel 1994 da una piccola casa editrice romana chiamata Jouvence. Un libro particolare. Un romanzo per lo più autobiografico, si direbbe. Ma potrebbe anche essere considerato una raccolta di racconti, tutti lasciati aperti, tutti senza una trama definita, giocati sul filo di una memoria che propone salti temporali repentini e che spesso tira brutti scherzi conducendo la narrazione verso situazioni oniriche, antirealistiche. Caratterizzato da un montaggio piuttosto libero, con una coerenza garantita da legami sottili, segreti, allusivi. Una prosa a dominante descrittiva con una letterarietà avvolgente, che intriga. Dei materiali narrativi radicati interamente nell’esperienza personale, privata, ma che la tensione descrittiva, tenace e insistita, sottrae sempre all’autoreferenzialità. E nei quali si aprono, solo per brevi cenni veloci subito lasciati cadere, riferimenti alla vocazione politica dell’autore, all’attività rivoluzionaria, all’esperienza del carcere.

Tra i vari blocchi di cui è costituito il libro, uno dei più estesi riferisce proprio di quel 1944 in cui la guerra volgeva al termine. Raccontato in prima persona, il libro di al-Kharrat legge da una prospettiva totalmente alternativa a Vicolo del mortaio lo stesso periodo storico in cui è ambientato il romanzo di Mahfuz: soprattutto il finire della guerra, le difficoltà economiche e la presenza sul territorio egiziano dell’esercito inglese, vissuto come realtà estranea a cui opporsi ma anche come occasione di sostentamento economico per moltissimi giovani. Se lì, in Mahfuz, modello di riferimento era il romanzo realista ottocentesco, qui si sente un po’ l’influenza di certi romanzi francesi degli anni ’50-’60: Robbe-Grillet, per dire, o il Perec de Le cose.

Sono passati quarant’anni tra la pubblicazione di Vicolo del mortaio e quella di Alessandria. Città di zafferano, e si sentono tutti. Il secondo ha un andamento nel quale ancora ci ritroviamo pienamente. Ma forse anche l’ambientazione ci mette del suo. Il Cairo del Vicolo è una città che sembra chiusa in un imbuto, in cui lo sguardo non prende mai il largo, forse proprio per la prospettiva ristretta scelta dall’autore. Qui, Alessandria, sembra una città battuta dai venti, in cui tutto si mescola continuamente, niente e nessuno è bloccato in una sua identità stabile e definita. E quando lo sguardo del narratore si posa sul mare e si sofferma a contemplarlo ci troviamo di fronte a una pensosità enigmatica che cerca le parole per raccontare il senso e il sentimento di una sorta di altrove muto.

È anche una città aperta alle diversità Alessandria, per come ce la racconta al-Kharrat (che è un cristiano copto), in cui gli scambi interreligiosi e interetnici sono elementi di vivacità sociale e occasione di continue scoperte personali: gli unici stranieri che rimangono estranei e con i quali ci si relaziona con sospetto sono i militari inglesi, i coloni. C’è un brano, ad esempio, che mi pare utile citare alla lettera. Ribadisce con la semplicità propria dello sguardo di un ragazzino qualcosa di cui non tutti in Italia, oggi, sembrano proprio convinti. Scrive al-Kharrat: “Il ragazzino correva verso la casa di Umm Tutu, la greca, in cima all’incrocio fra via dei Salici e via del Narciso, come se cercasse rifugio in un luogo incantato. Non aveva idea di che cosa significasse il fatto che era greca. A quel tempo, per lui, la differenza fra gli esseri umani rientrava nella natura delle cose. Comprava la crema di fave dal Turco coi lunghi baffi ingialliti in punta dalla nicotina. Quando entrava in casa dei suoi vicini musulmani provava sempre un po’ di timidezza. Il poliziotto maltese passava a tutta birra sulla motocicletta per via del Tramway (…). Quel buonuomo di Hasan, il lattaio tunisino, abitava in un vicoletto non distante da casa sua, e teneva in cortile tre bufale e un asino grigiastro (…). Maqàr, il marito di sua zia, invece era di un nero deciso (…). Tutti contribuivano alla varietà del mondo, facendolo ricco e differenziato, rendendolo magari strano, ma anche interessante”.

Mi rendo conto di procedere per scarti laterali, seguendo un filo del discorso dalle connessioni piuttosto labili e casuali. Forse è un andamento inevitabile per chi viaggia un po’ così, all’impronta, senza coordinate troppo certe a cui affidarsi. Mi rendo anche conto di fare come certuni che, ogni qual volta vanno in giro in una città straniera, mai vista prima, passano il tempo a fare paragoni, a ritrovare somiglianze con altri posti in cui sono stati in anni e situazioni precedenti. Come se tutto l’estraneo per essere attraversato andasse prima di tutto addomesticato e riportato a una forma o immagine conosciuta. Che un po’ è vero, un po’ anche no: non è un modo distorto di avere percezione delle cose, è la realtà dei fatti. Dedicandosi a queste letture è tutto in costante contatto, in pieno dialogo, tra qui e lì.

A questo proposito, può essere utile leggere una antologia di scrittori egiziani curata da Francesca Prevedello, dal titolo Figli del Nilo. Undici scrittori egiziani si raccontano. Che è ben fatta, perché unisce a ogni racconto proposto una lunga intervista al suo autore o autrice, restituendone un’immagine compiuta, a tutto tondo, che davvero può essere un buon veicolo di conoscenza. In una di queste interviste la scrittrice Salwa Bakr riferisce dei libri che sono stati fondamentali per la sua formazione. È una strana mescolanza di libri arabi e libri europei russi o angloamericani, con un posto particolare riservato ad alcuni libri della tradizione italiana: “Ci sono libri che hanno avuto un’importanza fondamentale per me, nella mia formazione. Sono raccolte di racconti e proprio il racconto è stato il primo genere al quale mi sono dedicata. Prima di tutto Le mille e una notte (…), e poi Kalìla wa Dimma di Ibn al-Muqaffa’.

Un posto particolare lo riservo a Boccaccio. Ricordo la meraviglia che provai nel leggere per la prima volta le sue novelle, era tutto un fantastico intreccio, sorprendente e affascinante. Se conoscessi l’italiano sarebbe la prima cosa che mi piacerebbe leggere. Lessi Boccaccio ai tempi della scuola, ma non era una traduzione di tutto il Decameron, era un adattamento in arabo che tuttavia mi affascinò. Naturalmente leggevo anche gli autori egiziani di quegli anni, gli anni in cui frequentavo la scuola superiore: Nagìb Mahfuz, Ihsan ‘Abd al-Quddùs, Yùsuf al-Sibàՙ. (…) Tawfìq al-Hakìm o Tàhà Husayn (…). Verso la fine delle superiori e all’inizio dell’università cominciai a leggere autori russi, come Checov, Tolstoj, Turgenev, Gorkij, e francesi, Zola e Balzac. Mi piacevano anche Steinbeck e Faulkner. Allora, durante i primi anni d’università, un grande numero di opere straniere venivano tradotte in arabo”.

Mi aggiro tra questi autori egiziani come un forestiero in una città straniera e, come spesso accade, dopo dei larghi giri finisco per tornare, senza nemmeno sapere come, sempre alla stessa piazza, sempre allo stesso incrocio.

Nagib Mahfuz, prima che ci pensassero altri a superarne forme e modelli, ci ha pensato lui stesso a superarsi da solo, provando a battere strade diverse rispetto a quelle che aveva percorso. Il ladro e i cani, libro piuttosto agile sottile e breve del 1961, è romanzo totalmente diverso da Vicolo del mortaio. È narrato sì in terza persona, ma tutto in soggettiva. Non è un grande affresco sociale, ma una piccola storia acuminata scagliata verso il bersaglio come una freccia veloce e precisa. Ha uno stile meno regolare e tradizionale di Vicolo del mortaio, con un uso molto particolare del discorso indiretto, che si trasforma continuamente in discorso indiretto libero quando rende conto delle riflessioni del protagonista, fino a diventare, senza che il lettore quasi se ne accorga, vero e proprio monologo interiore fatto in seconda persona. È la storia di un ladro che esce di prigione. Dal punto di vista del giudizio morale di lui non c’è da salvare proprio niente. È doppio, falso, bugiardo, ciecamente vendicativo, opportunista, incapace di reali sentimenti.

Ha rubato senza scrupolo e pochi scrupoli mostra di avere anche all’uscita di prigione. Solo che, all’uscita di prigione, gli va tutto storto. Trova uno dei suoi sottoposti che ha usurpato i suoi beni e convive con la moglie. La figlia non gli si vuole avvicinare e non lo riconosce. Non c’è più un furto che gli vada per il verso giusto e tutti i suoi tentativi di vendetta si risolvono nell’uccisione delle persone sbagliate, fallendo miseramente. Per una campagna giornalistica messa in piedi ad arte da una delle persone contro cui ha cercato di vendicarsi, diventa il nemico pubblico numero uno e l’intera polizia del Cairo setaccia le strade della città braccandolo. Nel realizzare i suoi progetti criminosi commette una serie infinita di ingenuità, forse perché effettivamente ingenuo è diventato, in una realtà in cui l’imbroglio sembra essersi specializzato, ripulendosi e diventando rispettabile. Ormai gli inganni, o i crimini, si compiono nella legalità. L’intero libro sembra attraversato dal tema del tradimento. Che è forse elemento di critica sociale, se non addirittura propriamente politica. Ma Il ladro e i cani, al di là della sottotraccia politica, è un libro che si legge da più prospettive. Innanzi tutto è di godibile lettura come un romanzo di genere: un quasi noir per nulla estraneo a certe modalità compositive di derivazione cinematografica. Ha un andamento un po’ picaresco che cattura. Ha anch’esso certe sue virate oniriche. È, insomma, anche libro di ombre, perfino di oracoli (in alcuni passaggi). Ma è anche una riflessione, in chiave del tutto laica, sui temi della vendetta e del tradimento, della capacità di accoglienza e del dono gratuito.

E poi basta. Ce ne sarebbe ancora un po’ da dire ma è meglio star zitti, anche perché devo ammettere che un po’ mi sono perso, non riesco proprio a tenere dritta la barra ovvero la direzione. Come spesso capita andando a zonzo per delle città straniere, esci desideroso di andare in un posto, con la tua mappa in mano che a malapena riesci a orientare. Vai da tutt’altra parte. Basta che devii per un attimo, per pura curiosità, dalla via principale e quel posto non lo ritroverai mai più, nemmeno a fine giornata. Lo stesso è capitato qui. Che ero partito intenzionato, ma proprio convinto, di parlare principalmente di un solo libro di Mahfuz, dal titolo Il nostro quartiere, e ne ho appena fatto cenno finendo per parlare, poi, di tutt’altro.

Commenti
Un commento a “Scrittori arabi contemporanei, quarta puntata”
  1. Giuseppe ha detto:

    Godibilissimo, mi sono ritrovato a leggerlo a bocca aperta dopo aver deciso di informarmi con qualche rapido click sullo smartphone in attesa che le pizze venissero fuori dal forno. Anch’io mi sono sorpreso perso per le vie di una letteratura straniera che non conosco per nulla.

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