Memorie dal Concertone

È il Dodicesimo Primo Maggio, primavera 2002. Verso le 21.00 il palco ruota su se stesso rivelando alla folla gli Oasis, Ospiti Internazionali del Concertone insieme a Robert Plant. Liam Gallagher esordisce con un inequivocabile pugno chiuso alzato al cielo, prima di iniziare a cantare «The Hindu Times» con la sua solita posa – inclinato, mani incrociate dietro la schiena, abbassandosi sul microfono. Suo fratello Noel, il chiacchierone della band, accennerà un “Ciao” prima di attaccare «Don’t Look Back in Anger», in una versione slow che consente di apprezzare meglio l’omaggio a «Imagine». Il tema del concerto di quell’anno è CONTRO LE MODIFICHE DELL’ARTICOLO 18 E LOTTA CONTRO IL TERRORISMO.

La musica preferita da Roberto Bolaño

di Giulia Cavaliere

Lettori di più generazioni immobilizzati dalla commozione nell’abbraccio violentissimo della letteratura di Roberto Bolaño, tutti seduti contemporaneamente, come nella magia di una lunga notte Infrarealista, nell’Impala pronta a partire con I Detective Selvaggi: Ulises Lima e Arturo Belano davanti, e noi, tanti piccoli Juan Garcìa Madero, sul sedile posteriore.

Tra un manifesto e lo specchio e un’altra sigaretta. Una (lunga) intervista a Francesco De Gregori

Alla quindicesima sigaretta del pomeriggio, Gitanes senza filtro, Francesco De Gregori dice: “E’ vero, vent’anni fa, ma anche dieci anni fa, non l’avrei mai fatto”. Andare a “X Factor”, ricantare Alice con Ligabue, scherzare con Checco Zalone, scrivere una canzone per un film di Paolo Genovese, fare un audiolibro su “America” di Kafka (e prima “Cuore di tenebra” di Conrad), entrare in un video di Fedez, non leggere cinque giornali ogni giorno, non guardare otto tg e sentirsi bene lo stesso, telefonare e dire: devi ascoltare assolutamente Caparezza, è meraviglioso. E passare le ore prima del concerto (il primo del tour di “Vivavoce”, a Roma) nei cunicoli del Palalottomatica non soltanto con i fonici, la band, il giovane cantante emozionato che aprirà il concerto, le Gitanes, il caffè e Ambrogio Sparagna che suona l’organetto in due canzoni riarrangiate assieme, ma anche sopportando lì seduto, o in piedi con la chitarra a riprovare Titanic, la cronista che accende il registratore e pretende di sapere che cosa c’è di diverso, adesso, in Francesco De Gregori. “Sarà per un fatto di maturità, e perché è cambiato il mondo intorno a me in meglio, ma è vero che è un po’ cambiato anche il modo in cui io lo guardo. Sono sempre stato aperto alle distanze. Se una cosa è distante da me non solo non mi fa paura, anzi mi eccita, ed è un processo assolutamente spontaneo, ma sostenuto da un ragionamento: so che non voglio chiudermi al mondo nell’area museale che potrebbe rappresentarmi perché ho scritto cinque, sei, dieci canzoni di quelle che rimangono. Non posso restare, nella mia testa, quello di Rimmel, io sono altro, sono anche Calypsos, Finestre rotte, non voglio fare il Bufalo Bill della canzone, che rievoca i tempi gloriosi del West su un palco a Sarzana o a Torino, e forse già inconsciamente lo sapevo nel 1976 quando ho scritto Bufalo Bill”. “Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi, la locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere”. De Gregori parla e dentro le persone che vanno e vengono e lo salutano e un po’ ascoltano quest’intervista, parte una musica, non muovono le labbra ma si capisce che stanno cantando.

Dreamwave, synthwave, new retro wave: appunti sulla nostalgia sintetica

Questo pezzo è uscito su “Artribune”: www.artribune.com. (Immagine: Miami Nights ’84 Turbulence, 2014)

Quasi per caso, qualche mese fa ho scoperto una strana sottocultura musicale. Strana, perché a differenza del passato non sembra fondarsi sulla prossimità fisica e in un luogo materiale (una città: Manchester, New York, Londra, Seattle, Chicago…), ma piuttosto sulla pura immaterialità. E su un tipo molto specifico di nostalgia sintetica.

La dreamwave (o new retro wave o synthwave che dir si voglia) è riuscita a ricreare una versione ideale degli anni Ottanta. Struggente – perché più vera del vero. Musicisti come i Timecop1983, i Miami Nights ‘84, Com Truise, Perturbator – singoli autori che suonano come gruppi, costruendo la loro musica integralmente al computer – si sono infatti impegnati a creare qualcosa che non esisteva (: se non, appunto, nel mondo dei sogni) a partire da elementi già dati. Un immaginario molto resistente, efficiente e potente. Nostalgia di un’era che contiene il vero inizio della crisi attuale, le sue premesse. Quando tutto era o sembrava più semplice. Un mondo fatto di molteplici riferimenti, che si integrano e si completano a vicenda: Ocean Drive della mente; Rocky sulla spiaggia con Apollo, o che medita triste sulla morte mentre guida la sua Lamborghini; la breakdance; Ritorno al futuro; i colori fluo; i pattini a rotelle e lo skateboard; la BMX; Mannie in Scarface; Miami Vice; le spalline.

Intervista a Franco Battiato per i suoi 70 anni

Questa intervista di Malcom Pagani è uscita su Il Fatto Quotidiano il 23 marzo in occasione dei 70 anni di Franco Battiato. Ringraziamo l’autore e la testata. (Fonte immagine)

di Malcom Pagani

La voglia di vivere a un’altra velocità, la stessa di sempre: “Ora cammino con le stampelle, ma tra un po’ le butto. Mi dicono ‘Franco, calmati, ci vuole ancora un mese’. Si sbagliano. Penso che nel giro di una settimana la mia frattura non sarà che un ricordo”. Ragionando nell’imminenza della celebrazione su quelli di un’esistenza intera: “Io lavoro sulla spiritualità, cosa vuole che me ne freghi del mio compleanno?” Franco Battiato non si emoziona per il dato anagrafico. Oggi (ieri per chi legge, ndr) compie settant’anni, lo fa guardando in faccia Milo, Catania e il suo passato. Anche se il tempo cambia molte cose, e opinioni e amicizie non sono necessariamente più quelle di ieri, di tanto in tanto un grido copre ancora le distanze: “In effetti rompendomi il femore al Petruzzelli un po’ devo aver urlato”. Era metà Marzo e Battiato – tornato da un lungo viaggio europeo tra Londra, Parigi, Oviedo e Barcellona e l’Irlanda: “Una cosa pazzesca, a Dublino, introducendo il concerto in inglese mi interrompevano dalla platea ‘ parla italianoooo’”- chiudeva la tournée in Puglia cantando di ritmi ossessivi e danzatori bulgari: “A bordo palco c’era un certo fanatismo. Un entusiasmo impossibile. Cerco di ringraziare e durante la canzone vado a toccare le mani delle ragazze in prima fila. Quelle mi prendono per il braccio. Perdo l’equilibrio, inciampo e cado all’indietro. Ciao Battiato. Una cosa allucinante”.

Andrew Wood, il primo martire del grunge

Esattamente venticinque anni fa, il 19 marzo del 1990 moriva Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone e figura centrale della scena rock di Seattle prima dell’esplosione di “Nevermind”.

Durante il weekend del 16 marzo 1990 a Seattle ci furono quattro overdose da eroina. Tre ragazzi sopravvissero, il quarto invece, dopo tre giorni di agonia, non ce la fece. Quest’ultimo era uscito da poco da un centro di riabilitazione ed era pulito da ben 116 giorni. Era il ventiquattrenne cantante di un supergruppo cittadino a cui tutti pronosticavano un grande successo, i Mother Love Bone. Giusto il tempo che la PolyGram lanciasse “Apple”, l’album che la band aveva registrato nei mesi precedenti.

E qualcosa è rimasto. 40 anni di Rimmel

di Malcom Pagani

Fermandosi ad annusare la vita in certe trattorie della vecchia Tiburtina, tra il vino dei Castelli “che si può bere solo a quell’età” e gli amici dell’epoca, Francesco De Gregori ripensava alle storie di ieri che sarebbero diventate quelle di domani. Nell’inverno del ’75, uscendo a notte fonda dalla Rca dopo aver registrato clandestinamente Rimmel, incontrava l’alba al tavolo con gli altri randagi della truppa e abbaiava alla luna, da capobranco della sua muta. Cani di strada. Occupanti abusivi dello Studio A, uno spazio che nella casa discografica che accolse, tra i tanti, Baglioni, Conte, Dalla, Fossati e Venditti, era riservato alla musica classica e alle colonne sonore cinematografiche.

Italia 2015 – Pianeta Opera

di Michelangelo Pecoraro 

Il Volo ha vinto il Festival di Sanremo; Stéphane Lissner, Sovrintendente e Direttore Artistico della Scala dal 2005 al 2014, messo alla prova da una giornalista francese nel corso di un’intervista, non riconosce brani famosissimi tratti da La Wally, La forza del Destino, Tosca e Madama Butterfly, riuscendo a salvarsi in zona Cesarini solo con Carmen (sommo gaudio per i francesi, visto che è appena stato chiamato a dirigere l’Opéra National de Paris); nel corso del 2014 sono morti alcuni dei cantanti italiani che hanno fatto la storia dell’opera, nel silenzio quasi assoluto di giornali e televisioni; un approfondimento condotto dal mensile Classic Voice ha rivelato che nel lustro 2008-2013 i teatri lirici italiani hanno perso complessivamente circa 100.000 spettatori; vista la carenza di denari, alcuni famosi direttori d’orchestra hanno fatto i bagagli e se ne sono andati; alcuni sovrintendenti hanno pensato bene di risolvere parte dei problemi licenziando in tronco intere orchestre, o buona parte dell’organico amministrativo e tecnico; il governo, nei panni del ministro Franceschini, fa il gioco delle tre carte: da un lato continua a tagliare il Fondo Unico per lo Spettacolo, dall’altro ripropone parte dei soldi tagliati a patto che i teatri continuino a privatizzare e licenziare; alcuni teatri fanno lavorare artisti e tecnici senza sapere se e quando potranno pagarli, a volte tardando molti mesi prima di effettuare i versamenti; molti teatri, per attirare un po’ di pubblico, annunciano cast e spettacoli in abbonamento che poi cambieranno o verranno semplicemente eliminati. Si potrebbe andare avanti ancora un po’…

Stiamo andando al concerto dei Doors

Oggi,  12 febbraio, Ray Manzarek avrebbe compiuto 76 anni.  Il 10 luglio 2012, a Roma, Giordano Meacci è andato al concerto dei Doors. Ovvero: Manzarek e Krieger. E su quella serata ha scritto un reportage, finora inedito, che oggi pubblichiamo. (Fonte immagine)

È più o meno a due incroci dall’Ippodromo delle Capannelle che mi ricordo, all’improvviso, degli ultimi giorni, tristissimi e irrecuperabili, di Ludwig Wittgenstein a Storeys End. Il pensiero cade da qualche punto del tempo proprio mentre finisco di canticchiare “the end of nights we tried to die”, accompagnato dal controcanto di Sara, che mi fuma a fianco, gli occhi fissi su un punto imprecisato dell’Appia Antica, oltre la campagna. Sara ha disdetto almeno due impegni improrogabili, per essere qui, con me, adesso. Ma credo non potesse fare altrimenti: visto che lei, all’inizio degli anni Ottanta, la cameretta tappezzata di copertine di Strange Days e Waiting for the Sun, è stata davvero la fidanzata di Jim Morrison.

Sanremo Reloaded

di Raffaella R. Ferré

Venne il giorno in cui le note finirono.

Perché le note sono così: sette, dodici contando le alterazioni, pensi di averne abbastanza per ogni dito della mano ma ti sfuggono le limitate possibilità di combinazione. Ma che la canzone si sia mossa in questo secolo sullo stesso sistema impiegato da Mozart e Beethoven è cosa nota, e si sperava, allora, nelle parole: ventisei lettere tra alfabeto italiano e inglese, miliardi di lemmi, eventualità combinatorie pressoché infinite, tutte sotto la lingua, a disposizione. Nei corridoi, compositori, musicisti e parolieri, ciascuno di loro fornito di cartelletta color carta da zucchero contenente la segretissima “Guida alle parole mai utilizzate in una canzone italiana” si davano pacche sulle spalle immaginando i loro artisti melodiare frasi come “La borragine tiene unita la compagine”. Ma fornire tante rassicurazioni ad un uomo non è mai cosa giusta e il dubbio, uno solo, s’era insinuato già a dicembre: che fossero finiti i pensieri?