La mania della realtà

Domani al Teatro India ci sarà un incontro tra Walter Siti e Christian Raimo intitolato “La mania della realtà”, a partire dalle riflessioni di Siti sul realismo e gli spettacoli di Deflorian e Tagliarini in questi giorni all’India, che fanno parte della Trilogia dell’invisibile. A proposito, ripubblichiamo un’intervista a cura di Alessia Cervini e Daniele Dottorini. L’intervista apre il numero 21, “Reale”, di “Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni”.

Segnaliamo un’intervista a Il dibattito recentissimo sulla questione del “nuovo realismo” può essere un buono spunto, a partire dal quale dare inizio alla nostra conversazione, nel tentativo di comprendere cosa sia oggi la realtà e in che modo essa possa essere restituita da forme differenti di rappresentazione.

A me sembra che un dato su tutti sia incontrovertibile, ovvero che la realtà è essenzialmente un prodotto culturale. Ogni periodo decide cioè cos’è la realtà, a seconda dell’angolatura culturale scelta di volta in volta. In questo periodo, per esempio, mi pare che la realtà si presenti soprattutto come qualcosa contro cui si urta quando si esce o dalle ideologie o da un delirio di onnipotenza. Negli anni Novanta, la teoria del “suicidio del reale” aveva coinciso con quell’idea di “fine della storia”, secondo cui il mondo stava vivendo un’epoca priva di conflitti, garantita da una sorta di irrealtà telematica e tecnologica che avvolgeva tutto. Oggi, al contrario, direi che, rispetto a quelle convinzioni, ci sia stato un brusco risveglio a opera del riemergere di conflitti politico/sociali, causati per la maggior parte da una crisi economica sempre più impietosa. La storia si è rimessa in moto velocemente e dunque qualsiasi teoria di “fine della storia” sembra ormai del tutto sepolta; così pure l’idea dell’immateriale e dell’irrealtà, tipicamente postmoderna, per cui tutto va in qualche modo ri-cantato, ri-citato, perché semplicemente è già stato detto, sembra ormai oltrepassata. Se questo è vero, mi pare allora che oggi si imponga un’idea di realtà come qualcosa che persiste e che non si lascia del tutto addomesticare dalle ideologie e dai sogni di onnipotenza, che erano il correlato della convinzione tutta occidentale, secondo cui il progresso era potenzialmente infinito e quindi concedeva la possibilità di fare qualunque cosa e di aspirare a tutto. Ecco, la realtà è ciò che oppone resistenza a tutto questo. Mi pare di ricordare che Umberto Eco abbia detto, a questo proposito, che il reale consiste in una serie di no che ci vengono in risposta della nostra pretesa di infinità. Mi sembra una posizione abbastanza ragionevole. Tutto ciò implica una serie di ricadute sul modo in cui si può intendere il realismo, nel momento in cui passiamo a esprimere la realtà, invece che semplicemente avvertirla.

È interessante soffermarsi, per un attimo, proprio sul tipo di ricaduta che le cose che stiamo dicendo hanno per l’appunto sulle forme diverse del realismo in ambito estetico, negli studi sulle arti in genere, e sul cinema nello specifico.

Una cosa che qualche tempo fa mi dava un po’ fastidio era che quando, per la letteratura italiana, si è cominciato a parlare di neo-neorealismo (Barilli è stato uno dei primi a parlare del realismo con i due “neo”), ci si riferiva per esempio ai noir, ai thriller, o a certe fiction televisive, che parlavano di mafia e camorra; in relazione cioè, a qualcosa che a me sembrava, al contrario, la negazione del realismo, perché per me la realtà, e di conseguenza il realismo, hanno a che fare con qualcosa verso cui la rappresentazione va a scontrarsi e che costituisce sempre qualcosa di imprevisto, una specie di sorpresa si potrebbe dire: qualcosa che rompe i codici precedenti, gli stereotipi. Al contrario, quelle forme di narrazione (le fiction televisive, ma non solo, anche certi romanzi, appartenenti al genere investigativo) lavorano con gli stereotipi e grazie a essi funzionano.
Ci sono due cose che mi vengono in mente ogni volta che mi trovo a riflettere sulla questione del realismo. La prima è un’immagine del ciclo di affreschi delle Storie di San Francescodella basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto, e nello specifico quella in cui è rappresentata la fondazione del presepe di Greccio. La scena è ambientata nella sagrestia, separata dal resto della chiesa da un muro basso, sul quale è montato un crocifisso che l’affresco mostra da dietro, con le assi inchiodate nel legno e le corde che lo sostengono. L’idea che alla fine del Duecento qualcuno abbia dipinto un crocifisso visto da dietro, mi pare una cosa assolutamente rivoluzionaria, un rovesciamento di codice assoluto che a nessun bizantino sarebbe potuto venire in mente. Quello, secondo me, è un emblema del realismo: vedere le cose da un altro punto di vista, cogliere la realtà alle spalle, cosa che non è legata necessariamente all’importanza delle cose che racconti. Per essere realisti non c’è bisogno necessariamente di parlare di camorra o di Afganistan; si può parlare anche semplicemente di una cucina, ma farlo in un modo che ti coglie in contropiede.
L’altra immagine a cui penso è tratta dallo scritto di Chesterton, Charles Dickens, una biografia del grande romanziere inglese. Parlando della giovinezza di Dickens, Chesterton racconta che quando Dickens era giovane, magro e con pochi soldi, si fermava in un caffè e faceva una colazione che costava pochissimo. Quando era dentro il bar, leggeva sulla porta una scritta apparentemente insensata che diceva: “moor eeffoc”, che indicava ovviamente a chi veniva da fuori che quella era una “coffee room”, mentre lui da dentro leggeva al contrario la scritta. Quando poi, divenuto ricco e famoso, Dickens andava a fare colazione in posti ben più altolocati, se gli capitava di leggere la scritta “moor eeffoc”, tornava indietro a quei caffè bevuti da giovane. Una specie di Proust cinquant’anni prima: in un momento la realtà ti arriva addosso prima che le tue convinzioni culturali l’abbiano sistemata, per cui non leggi “coffee room”, ma questa cosa un po’ insensata; un’esperienza che Chesterton definisce addirittura come qualcosa di magico (“elfish” è l’aggettivo che usa). Quando cioè i dettagli ti arrivano addosso, in modo che tu non riesci immediatamente a sistemarli, possono per un attimo creare nella mente associazioni che non ti aspetti. Questo per me è un altro esempio di realismo, inteso non più nella direzione del realismo ottocentesco, ma in quella dell’epifania di Joyce o di Proust. È la ragione per cui, secondo me, il romanzone storico, anche quando include carrettate di realtà, in qualche modo torna indietro, perché ricostruisce qualcosa di già pensato e organizzato, secondo un preciso piano di lavoro, in un modo che rende difficile il farsi sorprendere da qualcosa, perché si ha, sin dall’inizio, l’idea di ciò che si vuol dire alla fine.

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Tutto questo richiede come presupposto imprescindibile la disponibilità a lasciarsi colpire, per questo forse una posizione non totalmente esterna a ciò che si racconta è anche garanzia che qualcosa come un impatto abbia luogo.

Sì, credo che questa sia la chiave della letteratura in generale. Era la cosa per cui Montale, che era un poeta e comunque non un narratore realista, si segnava le cose su una bustina di fiammiferi, perché quando gli venivano due o tre parole in mente, poi era su quello che costruiva la poesia. L’idea che scrivere significhi soprattutto stare in ascolto di qualcosa che ti viene da fuori e che tu non comandi, penso che sia la base di qualunque letteratura. Senza l’ascolto non c’è niente. Dante, per esempio, diceva «a quel modo che mi detta dentro vo significando». Giudici, rispondendo a un signore che diceva di amare tanto la poesia, disse: «Sa, questo non è il problema, il problema è sapere se la poesia ama lei», nel senso che se le parole vengono, allora l’incontro succede, altrimenti c’è poco da fare. L’idea che qualcuno costruisca un romanzo o un film tirando fuori le cose solo da sé mi pare implausibile. Se uno sa sin dall’inizio come sarà alla fine il libro che sta scrivendo o il film che sta girando, secondo me non è un buon segno. Il film o il libro devono essere qualcosa di diverso, e si spera di più, rispetto a quello che avevi in mente, ci deve essere qualcosa che non sapevi e che a un certo punto viene fuori. Questa cosa, poi, può essere anche totalmente fantastica e muoversi in ambienti totalmente estranei al realismo. Amelia Rosselli faceva esattamente quello che sto dicendo, per parlare non della realtà, ma dei suoi fantasmi privati. Mi ricordo però che diceva: «Ieri notte ho scritto tre poesie e alla fine ho tenuto quella che non capivo», perché dava fiducia a quello che le arrivava da fuori. Dopodiché entrano in gioco le poetiche e le situazioni diverse. C’è chi preferisce che quel granello arrivi dalla politica, dal mondo contemporaneo, da un un dialogo con la realtà e non invece con la fantasia: quello non è più un problema di buono o cattivo atteggiamento, è piuttosto qualcosa che ha a che fare con una scelta ideologica. Io, non so perché, non riuscirei a scrivere un libro che non avesse niente a che fare con la realtà che vedo intorno a me. Non so se è una forma di impegno il mio, però mi sembrerebbe di essere un po’ un disertore se mi mettessi a fare una cosa come quella che faceva Rimbaud, andando molto a di là di ciò che è contemporaneo. Mi ha colpito molto quel passaggio delle Lezioni di letteratura in cui Nabokov sostiene che la letteratura non è nata nel giorno in cui un ragazzo è uscito da una grotta, gridando “Al lupo! Al lupo!”, con un grande lupo grigio che lo inseguiva, ma il giorno in cui un ragazzo è uscito da una grotta, gridando “Al lupo! Al lupo!” e non c’era nessun lupo dietro di lui. È chiaro che la letteratura nasce come menzogna e quindi potenzialmente non realistica, per raccontare qualcosa che non esiste, però è anche vero che se il ragazzo avesse gridato “Al drago! Al drago!”, probabilmente nessuno ci sarebbe cascato. Tu devi comunque dare l’illusione che la realtà ci sia, perché altrimenti il gioco non viene bene.

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Commenti
Un commento a “La mania della realtà”
  1. Sangregorio ha detto:

    In effetti oggi c’è una gran fame di realtà nelle opere letterarie. Il limite, però, è la difficoltà nel saperla rappresentare bene. Insomma, manca un gran narratore.

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