Nicola Lagioia vince il premio Strega con La ferocia

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Il nostro Nicola Lagioia ha vinto il premio Strega 2015 con il romanzo La ferocia, edito da Einaudi. Lo festeggiamo ripubblicando l’incipit del romanzo.

di Nicola Lagioia

Una pallida luna di tre quarti illuminava la statale alle due del mattino. La strada collegava la provincia di Taran­to a Bari, e a quell’ora era di solito deserta. Correndo ver­so nord la carreggiata entrava e usciva da un asse immaginario, lasciandosi alle spalle uliveti e vitigni e brevi file di capannoni simili ad aviorimesse. Al chilometro trentotto compariva una stazione di servizio. Non ce n’erano altre per parecchio, e oltre al self-service erano da poco attivi i distributori automatici di caffè e cibi freddi. Per segna­lare la novità, il proprietario aveva fatto piazzare uno sky dancer sul tetto dell’autofficina. Uno di quei pupazzi alti cinque metri, alimentati da grossi motori a ventola.

Il piazzista gonfiabile ondeggiava nel vuoto e avrebbe continuato a farlo fino alle luci del mattino. Più che altro, dava l’idea di un fantasma senza pace.

Superata la strana apparizione il paesaggio continuava piatto e uniforme per chilometri. Sembrava quasi di avanzare nel deserto. Poi, in lontananza, un diadema sfrigolan­te segnalava la città. Oltre il guardrail c’erano invece campi incolti, alberi da frutto e poche ville ben nascoste dalle siepi. Tra quegli spazi si muovevano gli animali notturni.

Gli allocchi tracciavano nell’aria lunghe linee oblique. Planavano fino a sbattere le ali a pochi palmi dal suolo, in modo che gli insetti, spaventati dalla tempesta di arbusti e foglie morte, venissero allo scoperto decretando la propria stessa fine. Un grillo disallineava le antenne su una foglia di gelsomino. E impalpabile, tutt’intorno, simile a una grande marea sospesa nel vuoto, una flotta di falene si muoveva nella luce polarizzata della volta celeste.

Identiche a se stesse da milioni di anni, le piccole creature dalle ali pelose erano tutt’uno con la formula che garantiva la stabilità del loro volo. Attaccate al filo invisibile della luna, perlustravano il territorio a migliaia, ondeggian­do da un lato all’altro per evitare gli attacchi dei rapaci. Poi, come accadeva ogni notte da una ventina d’anni, al­cune centinaia di unità staccarono i contatti con il cielo. Credendo di avere ancora a che fare con la luna, puntarono i faretti di un piccolo gruppo di ville. Avvicinandosi alle luci artificiali, l’inclinazione aurea del loro volo si spezza­va. Il movimento diventava un’ossessiva danza circolare che solo la morte poteva interrompere.

Un mucchio nerastro di insetti giaceva nella veranda della prima di queste abitazioni.

Si trattava di una villa con piscina, una costruzione su due livelli dalle linee regolari. Ogni sera, prima di andare a letto, i proprietari lasciavano accese tutte le luci ester­ne. Erano convinti che un giardino illuminato scoraggiasse i ladri. Lampade a muro in veranda. Grandi ovali in ter­moplastica ai piedi delle rose. Una serie di tenui diffusori verticali segnava il percorso fino alla piscina.

Questo teneva il ciclo delle falene a uno stato di im­manenza: carcasse in veranda, agonizzanti sulla plastica bollente, in volo tra i cespugli di rosa. A pochi metri di distanza, come era successo la notte prima e quella prima ancora, un giovane gatto randagio si muoveva circospetto sul prato all’inglese. Confidava in un’altra busta d’immon­dizia dimenticata fuori. Sotto le fronde dei rododendri, un aspide tendeva le mascelle nel tentativo di ingoiare un topo ancora vivo.

La pesante barriera di foglie che separava la villa dalla gemella iniziò a scuotersi. Il gatto tese le orecchie, portò una zampa verso l’alto. Soltanto le falene continuavano indisturbate la loro danza nell’aria primaverile.

Fu sullo sfondo dell’impalpabile nuvolaglia grigio-verde che la ragazza fece il suo ingresso nel giardino. Era nuda, e pallida, e ricoperta di sangue. Aveva le unghie dei piedi laccate di rosso, belle caviglie dalle quali partiva un paio di gambe slanciate ma non secche. Fianchi morbidi. Un seno dritto e pieno. Avanzava un passo dietro l’altro – lenta, barcollante, tagliando il prato in due.

Non era molto oltre la trentina, ma non poteva ave­re meno di venticinque anni a causa dell’intangibile rilasciamento dei tessuti che trasforma la sveltezza di certe adolescenti in qualcosa di perfetto. La carnagione chiara metteva in evidenza le strisciate lungo le gambe, mentre le ecchimosi su fianchi e braccia e fondoschiena, simili a macchie di Rorschach, sembravano raccontare tutta una vita interiore attraverso la superficie. Il volto gonfio, le labbra solcate da un profondo taglio verticale.

Era normale che gli animali si fossero messi in allerta. Molto più strano che non l’avessero mantenuta. L’aspide ripiombò sulla sua preda. I grilli frinivano di nuovo. La ragazza aveva cessato di preoccuparli. Più che l’innocuità, sembravano avvertirne il conclusivo trascinarsi verso il punto che fa crollare le differenze di specie. La ragazza calpestò la superficie erbosa circondata da questa sorta di indifferenza atavica. Venne percorsa dal manto sfavillante col quale la piscina si rifletteva sui muri della villa. Superò la bici abbandonata nel vialetto. Poi, come era apparsa in quel piccolo angolo di mondo, ne venne fuori. Attraversò la siepe sul lato opposto. Iniziò a perdersi nella sterpaglia.

Ora avanzava per i campi sotto i raggi della luna. Lo sguardo assente e tuttavia legato al rocchetto che le face­va seguire un tragitto uguale e contrario rispetto a quello delle falene: un passo dietro l’altro, ferendosi quando i pie­di schiacciavano rami e sassi aguzzi. Così per dei minuti.

La sterpaglia diventò una distesa farinosa. Dopo nean­che cento metri la pista si restrinse. Uno strato nero, molto più compatto. Se fosse stata in piena comunicazione con i suoi centri nervosi, la ragazza avrebbe avvertito l’indurimento dei polpacci man mano che affrontava la salita, il vento libero e sferzante sulla pelle. Superò la complanare e non sentì neanche la fredda potenza metallica da 500 watt che rivelò di nuovo la svasatura dei suoi fianchi.

Cinque minuti dopo camminava sull’asfalto, nel cen­tro esatto della statale. I lampioni erano alle spalle. Se avesse sollevato lo sguardo avrebbe visto oltre le curve l’insegna della stazione di servizio, il patetico profilo dello sky dancer lanciato verso l’alto. Seguì la carreggia­ta che piegava a destra. La strada tornò dritta. Fu in que­sto modo – una pallida figura equidistante dalle linee del guardrail – che dovette riflettersi nelle pupille dell’animale.

Un gigantesco topo di fogna era arrivato fin lassù e adesso la guardava.

Aveva il pelo ispido, la testa squadrata. Gli incisivi gial­lastri lo costringevano a tenere la bocca semiaperta. Pesava più di quattro chili e non veniva dalle campagne circostan­ti. Risaliva dai putridi pozzetti di raccolta da cui si dipartivano le gallerie che giungevano alle prime zone urbane. Non era spaventato dalla ragazza che continuava ad avanzare. La guardava anzi con curiosità, tendendo i baffi sul muso spiraliforme. Si sarebbe quasi detto che la puntasse. Poi l’animale avvertì una vibrazione nell’asfalto e si paralizzò. Il silenzio fu riempito dal rombo di un motore sempre più vicino. Due fari bianchi illuminarono il profilo femminile, e finalmente gli occhi della ragazza si rispecchiarono nello sgomento di un altro essere umano.

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  1. […] La ferocia : minima&moralia. […]

  2. […] Nicola Lagioia ha vinto il Premio Strega 2015 con “La Ferocia” pubblicato per Einaudi. Minima et moralia ri-pubblica per l’occasione l’incipit del suo romanzo. […]