Desterrado

Racconto apparso su Reset.

E poi Raoul chiese un altro bicchiere di cachaça. Con gentilezza, con tutta la gentilezza che possedeva la sua voce, una bella voce bassa, che scandiva bene ogni parola e a cui le parole non mancavano mai, gli fiorivano sulla bocca come una pianta di rose rampicanti. Era sempre gentile, Raoul, se a servirlo veniva una donna, non poteva farne a meno, quel giorno al suo tavolo si era avvicinata una ragazza creola, con il taccuino delle ordinazioni, e gli occhi più neri di certe pietre che si trovano ai piedi dei vulcani. Raoul le aveva osservato la pelle lucida delle braccia, e spiato l’orlo della gonna, senza neppure troppa reticenza, ma anche di questo osservare il corpo delle donne, dell’ossessione che il corpo delle donne gli provocava, non sentiva più nessun vanto, nessun orgoglio, gli era divenuta anzi un’abitudine involontaria che lo infastidiva come può infastidire un’eredità del sangue che non si è saputo interpretare e che si riproduce in eterno. In realtà non sapeva con esattezza cosa lo irritasse, quale sfumatura racchiusa nel suo sguardo: non il desiderio che esprimeva, la parola desiderio per lui aveva sempre avuto un suono musicale, così bello da rallegrargli le labbra quando la pronunciava, tanto che lui l’aveva imparata in tutte le lingue del mondo. Deseo, desear, deshira, desitjar, dilek… con queste parole aveva chiamato le donne della sua vita, mio desiderio, e tutte le volte che si era rivolto a loro in questo modo era stato come l’inizio di una lettera o di una preghiera, perché anche l’amore e la nudità per Raoul assumevano sempre un’espressione letteraria. No, il desiderio non lo aveva mai fatto vergognare, nessun desiderio, era il resto a urtarlo, qualcosa di liquido e di fangoso che gli riempiva gli occhi e aveva a che fare più con gli uomini che con le donne. Quella mattina Raoul era solo al suo tavolo, durante una pausa tra una lezione e l’altra, eppure anche lì, a diecimila chilometri di distanza dal suo paese, seduto nella caffetteria dell’Università Federale del Rio Grande do Sul, dov’era venuto a insegnare la lingua di Dante, e di Leopardi, era come se non fosse solo, anche lì ogni sguardo che indirizzava a una donna pretendeva la complicità di un altro uomo, come se fosse rivolto più a questo invisibile spettatore che alla donna che lo riceveva. Forse per questo nel prendere posto aveva registrato a mente tutti gli uomini presenti nella sala: il cameriere pernambucano dietro al banco, e il lettore di spagnolo, e due ricercatori di storia contemporanea. Sapeva che loro lo stavano studiando quando la ragazza gli si era avvicinata, lo sapeva per istinto, perché erano seduti di lato e i suoi occhi fissavano invece la bella creola, ma era per loro che recitava la parte del vecchio seduttore, con i suoi baffi grigi, e le guance scavate, ma i capelli ancora lunghi, legati da un elastico sulla nuca. Un tempo aveva avuto un pubblico migliore, e più numeroso, e molte più occasioni, pure la politica, in fondo, non era stata altro che la migliore tra le sue occasioni perdute, ma anche della luce che quelle remote esperienze non smettevano di proiettare manteneva soltanto un repertorio di gesti truccati, la cerimonia di persuadere e di essere persuasi, i soprassalti di un giocatore d’azzardo sotto l’insegna di un casinò.


Raoul seguì ancora per un poco il corso dei suoi pensieri, finendo di sorseggiare la sua cachaça amarela invecchiata nelle botti di rovere di Salinas, nel Minas Gerais. Un suo studente, Diego, nato al confine con l’Uruguay, da una famiglia di origine veneta, la settimana prima gli aveva chiesto a voce alta e di fronte al resto della classe a cosa si dà il nome di italiani, e poi subito se ne era scusato, come di uno che sbaglia la domanda, o si pente, o non si è saputo spiegare bene, ma Raoul aveva detto che non c’era nulla per cui chiedere scusa, e che ci avrebbe riflettuto sopra, in cerca di una risposta soddisfacente, aveva solo bisogno di un po’ di tempo. Era sempre prudente quando si trattava di dare una risposta a uno studente; lo faceva per mestiere, sapeva che le risposte sbagliate non ci si stanca di ricordarle. Ma da giorni ogni circostanza, ogni piccolo incidente quotidiano, lo riconducevano meccanicamente a quella domanda, come se tutto ciò che lui stesso faceva o diceva fosse già una risposta eloquente, in attesa soltanto di essere tradotta. Gli sembrava significativo, poi, che quella domanda gli fosse stata rivolta in una città che si chiama Porto Alegre, ma che di allegro non ha nulla, a dispetto del suo nome. A cosa si dà il nome di italiani… agli abitanti di un Porto Triste come il tuo, avrebbe voluto rispondere a Diego d’impulso e senza paura d’errore, perché era da quel porto che lui era partito, dalla sua atmosfera opprimente che lo aveva avvolto ogni mattina, per anni. Raoul professore desterrado, reietto, sradicato, come scriveva a un suo amico in Italia, nelle sue email notturne. Ne avrebbe avute di cose da dire, Raoul, marinaio d’acqua dolce, sangue misto, gringo prêto, indio branco… Gli venne in mente che la sera prima aveva pulito dei carciofi arrivati dal consolato, gli aveva tolto una foglia dopo l’altra, quelle esterne sono le più dure e bisogna dare uno strappo deciso, c’è sempre un pezzettino che resta attaccato al gambo. Noi italiani siamo fatti così, aveva pensato Raoul, siamo pieni di foglie e alcune si sono calcificate a tal punto che non si possono più togliere, e ogni foglia è un pregiudizio, un modo di essere, un muro, fa parte di noi ma non è parte di noi, è cresciuta sopra, e ci vuole una volontà spietata per liberarsene: per sapere a cosa si dà il nome di italiani bisogna togliersi la pelle di italiani e andare al cuore morbido e chiaro delle cose, al cuore commestibile di questa domanda. Ma il guaio, pensò ancora Raoul con qualche inquietudine, è che forse per gli italiani questo cuore o è talmente brutto da doverlo velare persino alla propria vista, una superficie deforme e rugosa, l’aspetto butterato di un paese senza carità, contro tutti i suoi stereotipi, oppure non esiste, è un buco vuoto, una carie che si è dovuta per forza riempire, sommando alla rinfusa tutti gli elementi riproducibili del mondo vegetale, come una pianta che vive solo per imitazione. Finché si resta nel proprio orto, nessuno se ne accorge: ogni fioritura o disseccamento non sono che un estremo virtuosismo di cui si è dimenticata l’origine. Ma viste da fuori, sembrano appena il riflesso di una serra immaginaria, patetico e incomprensibile, una danza nella nebbia.
Forse Raoul allineava senza metodo o nesso riflessioni lontane tra loro, e di certo il suo stato d’animo, l’umore nero di quella mattina, lo spillone della solitudine che gli pungeva il sangue, quel sentimento di vulnerabilità offesa e di onnipotenza, così tipicamente italiano, lo influenzavano fino a dettargli le conseguenze delle idee e delle parole. Ma anche di questo aveva nausea, del modo in cui procedeva il suo pensiero, sempre così esposto all’emozione e a un doloroso ma rassicurante compatimento per sé stesso che pervadeva tutto. Nessuno sa compatirsi come un italiano, ecco cosa avrebbe potuto dire al suo studente, che doveva già saperlo, per suo conto, essendo un pronipote della stessa lezione, ma di certo gli altri, in classe, non avrebbero capito, non avrebbero potuto capire come da una debolezza in fondo così umana potessero discendere tante efferatezze. E allora Raoul, Raoul con le adidas nuove e i garretti da negro, si ricordò di quando, giovanissimo, aveva dichiarato guerra al vittimismo, a ogni forma di vittimismo, con la sicurezza istintiva degli adolescenti che fosse lì, in quella temperatura malsana, che proliferavano la perfidia e la cattiveria degli uomini. Si diventa feroci se si ha la consapevolezza di avere subito un torto. E gli italiani sono un popolo feroce. Lo sono sempre stati. Di questo, più volte, ne aveva avuto il dubbio, studiando la loro storia. Una ferocia mascherata da molte foglie, da un rigoglio verdeggiante e lussurioso, ma pur sempre ferocia. Negli ultimi anni, la faccenda gli era sembrata evidente: quasi tutti i suoi amici se ne erano andati. O meglio, erano stati costretti ad andarsene. Le loro città li avevano espulsi, li aveva espulsi la terra, come con una semina riuscita male. Espulsi con l’implacabile forza economica di un lavoro che non si trova, di una casa che non si possiede, di un qualche talento che non si può esprimere, e inaridisce. Diventa aceto. Come il futuro, o la speranza. Uno in Ecuador, uno in Irlanda, uno in Norvegia… lui in Brasile, a insegnare letteratura, dopo la morte di suo padre, che in un altro secolo era tornato da un campo di concentramento e di lavoro in Germania ed era stato socialista e rivoluzionario. I pochi amici rimasti, e a cui si sentiva più legato, gli ultimi in Sicilia, vivevano con difficoltà e sempre più isolati. Altri erano stati vinti da una malattia, o dalla depressione. Ora, a quanto gli raccontavano, a Roma cacciavano via anche i vecchi dalle loro tane, come era successo al padre dell’amico a cui scriveva. Gli raddoppiano il canone, li invitano allo studio della società proprietaria del loro stabile e con la giacca da ingegnere e lo stesso accento meridionale di chi stanno per sfrattare gli dicono chiaro e tondo che con le loro pensioni non si possono più permettere di abitare in quel quartiere. Che lo abbiano fatto per cinquant’anni non importa. Non importa neppure che per cinquant’anni abbiano pagato con regolarità la pigione. O che quel quartiere un tempo fosse stato un quartiere popolare. Questo era lo stato delle cose, senza bisogno di ricamarci sopra.
Un paese senza carità, si ripeteva nella testa, in quella caffetteria soleggiata di una regione dove tanti italiani erano emigrati. E neppure era rabbia, la sua. La rabbia che si ha contro sé stessi per non avere capito abbastanza, per non avere capito per tempo. Tutto gli era stato annunciato sin dall’inizio, a sedici, diciassette anni: ora manteneva soltanto le sue promesse, un esito inevitabile, coerente. Anche la rabbia era un dono, una licenza di guerra di corsa. Ma la sua era scaduta come i visti dell’ambasciata che sono necessari per tornare, o per restare. Raoul filho sem pae e pae sem filho, Raoul a testa in giù come quando faceva la verticale… Qualcuno avrebbe potuto credere che ci fosse della nostalgia nelle capriole dei suoi pensieri, se avesse potuto ascoltarli. Invece era solo questa nausea opposta di ogni cosa. Perché ogni cosa, quella mattina, gli produceva nelle orecchie un suono di moneta falsa. Guardare una donna, cercare una logica, trattenere una speranza. Persino l’atto vitale di un respiro, l’energia allegra e inesauribile che aveva sempre avuto, la sua fatale propensione alle utopie. Ogni entusiasmo, pensò ancora Raoul, in Italia ha sempre finito per alimentare qualche fanatismo. Perché anche l’entusiasmo, da noi, parte dall’assenza di una forma ed è indirizzato, con precisione geometrica, alla morte e non alla vita, si disse tra sé, come nel fascismo, o nel cattolicesimo. Vitalismo, per gli italiani, è una parola impropria. Non è alla vita che gli italiani aspirano, ma solo al potere. Il nostro incurabile provincialismo nasce da un rapporto mancato e distorto col potere, di questo ne era sempre stato convinto. È sempre al potere che gli italiani mirano: non importa di quale potere si tratti. Il fuoco che li muove, in qualsiasi campo, è la propria affermazione individuale. Il provincialismo degli italiani è pari al loro infantilismo. Feroci come i bambini, gli veniva da dire. Come loro, capricciosi e scaltri. Un paese di bambini malati di gigantismo e vaccinati per sempre dalla religione, che ci ha reso familiare il sospetto di un imbroglio millenario, agli inganni della pietà. La nostra vera natura è la guerra civile, concluse.
Ma quello che gli faceva più male era che per questa follia a ogni italiano era negato il lenimento che può dare la bellezza. La ragazza creola ora serviva un altro tavolo, ma lui non avrebbe mai potuto avvicinarsi veramente a lei, osservarla con occhi trasparenti, averne rimedio, e pace. Per gli italiani anche la bellezza è una questione bellica, perché non è la bellezza che cercano, ma il suo possesso, e, dopo, solo la sua ostentazione; non era stata la bellezza che gli italiani avevano inseguito per secoli, anche nelle loro epoche migliori, e da questo equivoco chiamato civiltà erano nati molti altri malintesi. Un paese senza carità equivale a un paese senza poesia, non a un paese senza poeti.
Avrebbe detto questo a Diego, e chissà se lui ne sarebbe stato soddisfatto. O forse non gli avrebbe detto niente, perché non c’era niente da dire e tutto era mutevole e cangiante, come la pelle dei camaleonti.
Allora per un poco Raoul immaginò un’Italia senza cattedrali, senza nessuna espressione di potenza, ma con il cielo sgombro, e solo con la sua luce.
Si alzò dal tavolo insieme al suo scontento. Pensò ancora che forse proprio l’interdizione al godimento della bellezza aveva suscitato nella sensibilità di un intero popolo uno struggimento permanente e inconsapevole, come quello che avvertiva adesso, nella fiacchezza delle sue gambe, fissando la centralità di un discorso eterno sulla bellezza negata. Sempre si finisce per parlare solo di ciò che manca. Pensò che forse la vera letteratura di questo paese, tutta la sua arte, quella che non era nata per il potere, o per guadagnare meriti, o per ottenere riconoscimenti, non erano altro che parti di questo discorso, di questa protesta, un lutto mai elaborato. Ma da lì, de otro lado dell’oceano, molte cose apparivano diverse. Si poteva guardare senza stare, ed era un privilegio, e una dannazione. Essere solo un movimento, un’onda veloce, un varco per le correnti che soffiavano dal sud. Non appartenere a nessun paesaggio. Non avere vincoli con nessun potere. Rinunciare per disgusto anche alla forza di seduzione che possono avere le proprie parole.
Per pagare andò direttamente alla cassa. Raoul con la o e con il mal di gola. Gettò un’ultima occhiata dietro di sé, alla ragazza, al lettore di spagnolo, agli altri tavoli proprio al confine con il mato, con gli alberi che entravano quasi dentro l’università. Credeva di avere smesso di essere italiano già da molto tempo, senza riuscirci mai. Tirò fuori i reais dalle tasche e si avviò all’uscita.

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