Sull’età delle tribù digitali. Conversazione con Daniele Rielli sul nuovo romanzo «Odio»

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di Nicola Pedrazzi

Conosco Daniele Rielli dal 2013, gli scrissi la prima mail all’indomani della non-vittoria di Pierluigi Bersani alle elezioni politiche. Al tempo scriveva sotto pseudonimo e stava guadagnando una buona visibilità con il suo blog, un contenitore di soggettive molto ben costruite, che credo abbia unito nella lettura tanti quasi trentenni italiani. Da quella mail si è sviluppata un’amicizia per lo più epistolare, con due o tre momenti fisici di livello, come quando l’ho ospitato a casa mia a Tirana durante il reportage sull’Albania, la cui versione estesa è confluita in Storie dal Mondo Nuovo (Adelphi, 2016). Pochi mesi prima di raggiungermi sull’altra sponda dell’Adriatico, Daniele aveva pubblicato il suo primo romanzo, Lascia stare la Gallina, di cui Odio, appena uscito per Mondadori, eredita il protagonista. Insomma un po’ per caso e un po’ per volontà, mi è capitato di seguire da vicino il lavoro e la crescita di uno scrittore italiano contemporaneo: dal successo online alla riflessione sulle tribù digitali.

Quella che segue è la risistemazione di una chiacchierata attorno a Odio, un romanzo che è un viaggio nell’innominato tecnologico del nostro tempo, un’analisi filosofica delle meccaniche profonde dell’essere umano e non da ultimo una spumeggiante commedia italiana: goduriosa da leggere, e «basta». Non avrà il distacco professionale che da lettore pretendo dalle interviste, ma, con il consenso di Daniele, ho pensato avesse senso condividerla con qualcuno diverso da Google, veicolo e proprietario dei nostri carteggi pluriennali. Anche questo fatto, come vedremo, ha a che fare con il romanzo.

Il protagonista di Odio è Marco De Sanctis, che in gioventù (in Lascia stare la Gallina) è stato ingiustamente accusato di omicidio e non ha mai dimenticato il linciaggio mediatico cui è stato sottoposto. Marco costruisce Before, un’azienda di profilazione i cui algoritmi sono in grado di generare previsioni utili a qualsiasi attività commerciale. In sintesi, un ragazzo che ha provato sulla sua pelle la meccanica dell’odio in rete scala la tecnologia fino alla stanza dei bottoni, impara cioè a «trattare» le emozioni condivise e a estrarne profitto. Il matrimonio tra Marco e la tecnologia in qualche modo gemma dal suo disprezzo, che nei momenti buoni è semplice consapevolezza, nei confronti di cosa sta diventando il mondo, dalla sua sete di rivalsa se non di vera e propria vendetta. Al netto degli epiloghi, in Marco c’è un po’ di Edmond Dantes, il suo appartenere al futuro non gli impedisce di essere «classico»…

Prima di arrivare alla tecnologia Desa passa rapidamente per il mondo della politica – seppur in una posizione periferica – e rispetto a questo c’è un atteggiamento ambivalente del personaggio:  da un lato l’occasione che gli capita è troppo grossa per ignorarla e con questo intendo non solo il potenziale di ricchezza economica e materiale ma anche, e nel suo caso forse soprattutto, la possibilità di accesso a situazioni, contesti, realtà che gli sarebbero altrimenti precluse e che gli sono sempre interessate molto. Vedere da vicino il mondo del potere e quello dei media non è una cosa che capita tutti i giorni a un giovane uomo di provincia. Accettare di confrontarsi con il mondo significa però intraprendere anche un percorso conoscitivo che mette in discussione le proprie certezze, significa anche superare confini intellettuali piuttosto angusti dove è sempre molto chiaro chi ha ragione e chi torto, dov’è il giusto e dove lo sbagliato, senza eccezioni di sorta. Per inciso un ambiente del genere è anche l’ideale per la crescita del risentimento. L’ambivalenza è anche data dal fatto che questo percorso è parallelo al rompere quella specie di quarta parete spersonalizzante che è lo schermo del computer e all’entrare davvero nel mondo degli uomini, che è un mondo fatto di sfumature e mal sopporta quegli assoluti che invece sono perfetti per ottenere risultati dentro l’architettura delle piattaforme digitali.

Significa prendere su di se l’onere del vivere in un mondo dove non è sempre così chiaro e immutabile chi sia la vittima e chi il carnefice. Che poi esista in De Sanctis del risentimento è vero, ed è centrale nella sua identità, ma il momento in cui fa veramente il salto di qualità è quando incomincia a indagare la natura del suo personale  risentimento e non solo quello degli altri. Continua a raccogliere informazioni su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, insomma, tematizza l’odio, ne capisce il potere, capisce che non riguarda solo i suoi «nemici» – che nella nostra epoca polarizzata sono per definizione «gli odiatori» –  bensì tutti, lui compreso. Da un certo punto in poi per lui non si tratta più di rivincita, ma al contrario di fare qualcosa di buono per gli altri, anche se in una maniera che appare controintuitiva e per molti versi anche terribile. Il meccanismo in questo caso è puramente letterario, è una sorta di distorsione della realtà per evidenziare nel processo aspetti concretissimi della nostra natura profonda.

Apriamo una finestra sull’odio, che tutti proviamo ma in pochi sapremmo definire. Nel tuo romanzo vanno in scena odi interpersonali, ma si guadagna il titolo la dimensione collettiva di questo sentimento: l’odio come persecuzione sociale, che nel pensiero di René Girard viene sedato temporaneamente dal meccanismo del caprio espiatorio.

Senza l’incontro con questo filosofo è difficile immaginare il tuo romanzo, che io vedo costruito su due nuclei di riflessione filosofica: la relazione tra Uomo e tecnologia, da tempo centrale nella tua indagine, e il pensiero di René Girard. Come hai incontrato Girard? Perché proprio lui?

L’odio è un sentimento interessante non solo perché è la polarità negativa dell’amore, ovvero quanto c’è di più bello e prezioso nella vita, ma anche perché è sempre più facile vederlo negli altri che in se stessi, e questa esternalizzazione è una spia interessante del suo funzionamento profondo. Girard è un pensatore di un’attualità senza molti paragoni forse proprio perché non ha mai creduto all’idea dell’uomo come lavagna bianca su cui fosse possibile scrivere qualsiasi cosa, al contrario ha sempre ammonito che alcuni tratti della specie sono se non eterni, comunque ben lungi dall’essere scomparsi e fra questi c’è anche la forza fondativa dell’odio. Oggi grandi cambiamenti sia tecnologici sia culturali rendono evidente quanto avesse ragione, da qui la sua ritrovata importanza. Per Girard i capisaldi di ogni civiltà umana erano sostanzialmente due: l’imitazione mimetica, ovvero la nostra tendenza a desiderare quello che desiderano gli altri e poi, quando da questa convergenza di desideri nasce una sorta di guerra di tutti contro tutti, risolvere il problema, e pacificare così la società, attraverso il sacrificio di un capro espiatorio. Una vittima innocente che poi un giorno – una volta rimossa dalla memoria il ricordo di quella barbara violenza collettiva – verrà divinizzata. Quella a cui assistiamo oggi è una moltiplicazione quasi esponenziale dei sacrifici di capri espiatori, è perfettamente normale celebrare continuamente dei simbolici roghi rituali online sulla pelle di persone nei confronti delle quali non è iniziato nemmeno un processo e forse non inizierà mai.

Quando siamo online tutto è molto chiaro, lineare, è molto facile odiare, è molto facile condannare, le spiegazioni sono univoche, i “cattivi” del tutto auto-evidenti, in realtà definiamo le nostre bolle social prima di qualsiasi altra cosa attraverso l’individuazione di quali sono le persone e i gruppi che siamo chiamati ad odiare in automatico. È l’odio che definisce i confini della tribù, e dico «odio» proprio perché il più delle volte è un’ostilità meccanica, non ragionata. Prendiamo brandelli d’informazione, spesso arbitrari ed episodici, e li usiamo per giudicare intere vite, con una leggerezza e un automatismo che se osservati da vicino fanno venire i brividi. Condannare delle persone alla gogna, alla perdita del lavoro e della dignità civile non è mai stato così semplice e rapido, né fatto con tanta diffusa noncuranza. Tutto questo mi sembrava un fenomeno degno d’indagine. La spiegazione che Girard dava del fenomeno del capro espiatorio mi era sempre sembrata molto profonda ma quando ho scoperto che il primo investitore di rilievo in Facebook era stato Peter Thiel – allievo e seguace di René Girard – mi è sembrato di essere su una strada promettente.

Torniamo a Marco, una cosa che colpisce di lui è che si tratta di un umanista che non rifiuta il suo tempo, che non si chiude alla società perché non gli permette di fare il lavoro che sognava da adolescente o non valuta a sufficienza il suo percorso di studi. È un ferito che muove oltre invece che consumarsi in un risentimento immobile.

Prima ancora del senso di rivalsa in De Sanctis è centrale la volontà di trovare un posto nel mondo, cercare cioè una forma di felicità all’interno della società della sua epoca, un’eudemonia aristotelica, una teoria della felicità che prevede per un uomo propriamente detto la ricerca di un equilibro della virtù in mezzo agli altri uomini, non in cima a montagna. In questo senso è significativo quanto conti per la sua formazione un personaggio apparentemente minore come Falzone, il funzionario di Invitalia,  in particolar modo quando gli propone questa citazione di Edgardo Bartoli: «Rifiutare la propria epoca è altrettanto impossibile quanto rifiutare la propria nascita e la propria morte». Non è quindi un romanzo all’insegna della fuga della società, l’abbondono della città, il rifiuto in blocco di un consesso sociale percepito come ormai invivibile o irrimediabilmente ingiusto. In parte capisco un sentimento di questo tipo, il nostro è contemporaneamente un tempo storico comodissimo e assediato ma come autore sono più attratto dall’analisi del presente, dalle sue connessioni con il passato eterno dell’essere umano, mi sembra che nella nostra epoca ci sia davvero moltissimo su cui lavorare. De Sanctis quando accetta di uscire dalla sua bolla di speculazione autoreferenziale, dal moto in cerchi concentrici a cui si stanno riducendo le discipline umanistiche e accetta di provare ad applicare la sua intelligenza al mondo, va dalla teoria alla pratica e gli si aprono molte possibilità: è tutto parecchio faticoso ma per certi versi anche inaspettato e stimolante. De Sanctis quindi accetta la sfida del suo tempo – per quanto possa sembrargli impegnativa – e gli esiti, o meglio il suo personale esito, sono il contenuto del romanzo.

La scelta di ripartire da uno dei protagonisti del primo romanzo è funzionale alla credibilità della scalata da vittima a governante della mutazione tecnologica, ma ti ha anche obbligato a un lavoro complesso, di ripresa, collegamento ed evoluzione di un personaggio che avevamo lasciato in Salento a farsi i cannoni in tenda, e che diviene un manager milionario credibile, pur conservando in sé tutti i segni e le passioni della sua giovinezza. Insomma, come escamotage narrativo non è stata una scelta economica. Il che mi fa pensare che tieni molto a Marco De Sanctis, o alla parentela tra i tuoi due romanzi, seppur diversi. È così? Hai mai pensato di poter raccontare la stessa storia senza di lui?

Sì, ci avevo pensato, non a caso ancora adesso il romanzo si può comunque leggere senza aver letto Lascia stare la gallina e non si perde nulla. È del tutto autonomo. All’inizio avevo anche scritto un’ottantina di pagine della stessa storia ma sulla pelle di un altro personaggio, non un borghese in divenire ma un borghese pienamente compiuto, esponente di una solida realtà intergenerazionale. Avevo fatto ricerche in quella direzione e altre avevo in programma di farne. Avevo usato anche una lingua diversa, più semplice, standardizzata e basica, zero mimetismo, un solo livello di lettura oltre ad un’edulcorazione pressoché totale della sessualità, poi ho buttato tutto. Era profondamente inautentico.

Stavo spendendo un’idea forte in una maniera mediata pensando non alla potenza del romanzo ma a un certo standard di settore. Sono ripartito alla ricerca del personaggio e mi sono reso conto che ce lo avevo già in casa, ci sono alcune caratteristiche che doveva avere, per motivi che non posso svelare troppo ma, insomma, Marco De Sanctis era perfetto, a partire dalla sua storia passata di errore giudiziario.

A un certo punto Marco descrive la professione dello scrittore con la frase «osservo, il lavoro dello scrittore è soprattutto osservativo». Si condensa qui una delle tue tensioni preferite, quella tra mentalità scientifica (che il Marco manager di Before ha acquisito con abnegazione) e mentalità narrante (che Marco possiede in quanto scrittore anch’egli, tanto che tutto il romanzo è steso da lui ex post). Cito da una tua intervista di quattro anni fa, proprio qui su M&M: «Molta della cupezza che percepiamo nei nostri tempi deriva proprio da questa inadeguatezza della mente narrante a cogliere la complessità aperta e irriducibile del mondo globale, […] la realtà globale è sempre più complessa e variegata e le narrazioni politiche e mediatiche si dimostrano sempre più incapaci di rapportarsi in maniera efficiente a questa complessità». Diciamo che il De Sanctis di Odio arriva a possedere entrambe le menti, del racconta storie e del freddo analista.

Quella frase sul lavoro osservativo è detta in una scena con una venatura comica – lui e un suo amico si sono scambiati identità per conquistare delle ragazze, quindi c’è anche una certa ironia amicale nella definizione. Detto questo per me era importante nell’impianto del romanzo riconoscere la centralità culturale delle scoperte scientifiche e di conseguenza della tecnologia nel nostro mondo, perché contribuiscono ormai da lungo tempo a definire il modo in cui viviamo, pensiamo, ci aggreghiamo, amiamo, odiamo. Mi sembra impossibile raccontare il presente senza integrare questi aspetti nella storia. Riguardo quella mia vecchia dichiarazione: sono ancora convinto che esista questo iato incolmabile fra storie e realtà però al tempo stesso ora mi è più chiaro come le storie debbano necessariamente avere anche una funzione sintetica, sono mappe, non sono il territorio.

Il problema quindi non è tanto, o non soltanto, nei limiti strutturali delle storie, ma più che altro nella funzione delle storie nell’ecosistema informativo contemporaneo ovvero in come l’architettura di quest’ultimo definisca in maniera quasi invisibile le modalità di sintesi, in sostanza come il medium sia il messaggio. Sentenza di McLuhan che è sempre vera, ma oggi, con l’ubiquità di internet e un accesso pressoché universale al medium ancora più vera di prima. Queste modalità di sintesi sono all’origine dei nostri sentimenti morali, perché Bene e Male poggiano su degli apriori biologici ma si strutturano davvero in noi solo attraverso le storie.  In un certo senso quindi la mia ricerca su questo tema è andata un po’ più a fondo, ho scavato ancora.

Credo che la fascinazione di Marco per la tecnologia derivi anche dalla capacità della scienza di fornire risposte più solide di quelle delle discipline umanistiche in cui si è formato. Su questo punto si sviluppa una delle «riflessioni maggiori» del romanzo, penso in particolare ai pensieri che Marco mette a punto nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna.

Assolutamente. Nella riflessione sull’arte moderna che De Sanctis fa al cospetto del Compianto del Cristo morto di Niccolò dell’Arca c’è proprio la denuncia delle discipline che sembrano conformarsi totalmente all’idea che non esistano più dei canoni né una possibile ermeneutica dell’opera d’arte, ma soltanto un gioco di potere attorno alla sua accettazione o al suo rifiuto. Si tratta di una visione frutto di quel post modernismo che si sta diffondendo come un virus mortale all’interno della cultura Occidentale. L’idea di base di questa corrente culturale è che ogni forma di gerarchia sia per definizione oppressione, e che ogni individuo non sia un essere umano con la sua profondità, la sua variabilità, le sue paure, le sue speranze, la sua dose di problemi, il suo destino tragico, bensì l’impersonale predeterminato membro di un gruppo che lo definisce in toto.

Quindi non Marco ma «maschio bianco» e come tale costitutivamente, moralmente e qualitativamente diverso da, dico per dire, una «donna nera». In altri termini una visione del mondo al tempo stesso razzista e sessista, il contrario di quell’ethos democratico che prevede l’uguaglianza formale di fronte alla legge senza discriminazioni di sorta. Approcci di questo tipo prendono una parte per il tutto. Le gerarchie, oltre ad essere un elemento ineliminabile di ogni organizzazione umana, si reggono sì sul potere ma anche su altri valori, come ad esempio la competenza, l’affidabilità, la responsabilità eccetera e sono la base di ogni ordine sociale, è come si costruiscono e come si declinano che fa la differenza fra una società e un’altra, ma una società umana senza gerarchie è sempre e comunque un ossimoro. Più importante ancora: le ingiustizie non si combattono con altre ingiustizie, né le discriminazioni con discriminazioni “compensative”, bensì ribadendo e implementando con maggiore efficacia l’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, di fronte alla legge, il che si ottiene anche cercando di dare a tutti possibilità di partenza simili, non certo gli stessi risultati finali. È questo il principio da rinforzare, non una nuova forma di discriminazione o di sessismo «alla rovescia», che finisce per alimentare il tribalismo riportandoci a una situazione pre-patto sociale di guerra di tutti contro tutti e che è in realtà l’esatto contrario del progressismo, anche se si appropria impunemente del nome. L’errore di base è nel considerare la vittima come dotata di capacità ultraterrene – pensare cioè che sia sempre e comunque migliore degli altri esseri umani –, un atteggiamento che poi è precisamente il residuo di quella divinizzazione del capro espiatorio di cui parlava Girard.

In realtà quello che serve è una nuova fondazione, non una vendetta, altrimenti il circolo vizioso non si spezzerà mai. Essendo un italiano cresciuto in Alto Adige ho avuto la sfortuna di vedere sin da bambino come qualsiasi discriminazione «positiva» o «compensativa» nel tempo diventi discriminazione e basta, un’esperienza in cui ho parlato nell’ultimo brano del mio libro Storie dal mondo nuovo.

Ricordo il capitolo, fece discutere. Spiegami meglio cosa intendi per «discriminazione positiva».

Se vuoi ti racconto un aneddoto fresco fresco, che ho saputo proprio oggi da un mio amico di infanzia di Bolzano: le poste in Alto Adige sono sottoposte alla proporzionale etnica dei posti di lavoro, solo che pochissime persone di lingua tedesca vogliono fare i postini – di solito evitano gli impieghi pubblici dato che hanno alternative meglio remunerate, in genere nel turismo e nell’agricoltura sovvenzionata – quindi pur di far arrivare le lettere i posti vengono dati agli italiani che però essendo appunto italiani presi a copertura di posti tedeschi non possono essere assunti a tempo indeterminato – come si farebbe se fossero tedeschi – ma solo con contratti di un anno non rinnovabili. Quindi il mio amico che da quasi un anno porta in giro lettere al posto di un tedesco che fa altro ora perderà il lavoro e sarà sostituito da un altro italiano che fra un anno perderà il lavoro a sua volta. Questo è il genere di discriminazione assurda che si crea quando incominci a ragionare per tribù e a mettere le appartenenze ai vari gruppi sopra le persone, l’Alto Adige è una miniera infinita di follie del genere – tutte nella stessa direzione –, ma quando cresci in un luogo con questo grado di razzismo organizzato, scientifico e accettato e poi vedi che tutto quello che la sinistra nazionale riesce a fare, invece che difendere i diritti delle persone indipendentemente dalla lingua che parlano, è usare “Suditirolo” al posto di Alto Adige e sentirsi così alla moda e illuminata mentre sostiene le stesse persone che applicano politiche razziste come queste, incominci a farti delle domande su questo tipo di meccanismi mistificatori, cioè su come si riesca a girare l’assurdo in accettabile e su come alla fine ad ogni tribù interessino solo i misfatti che rientrano nel suo cono ideologico, per cui se è fuori dal paradigma che un italiano subisca del razzismo in Italia quella cosa smette di esistere, di essere percepita, rimane nelle tenebre perché è un segnale non coerente con il resto della narrazione.

Questo significa ad esempio che riguardo all’Alto Adige il fascismo anche se è iniziato 100 anni fa ed è finito da 80 è sempre di grandissima attualità perché è coerente con la narrazione della minoranza vittima, mentre le discriminazioni anti italiani del presente passano sotto silenzio perché non sono coerenti con la narrazione, sono reali ma per essere capite obbligano ad un pensiero complesso e non bianco/nero. E non è solo una questione dell’Alto Adige ovviamente, il nostro ecosistema informativo rafforza sempre di più questo genere di bias di conferma su tutti i temi:, i segnali coerenti vengono amplificati, quelli non coerenti cancellati. Il risultato è una massiccia polarizzazione e un conformismo opprimenti, a destra come a sinistra. Ogni tribù pensa solo a sé stessa e a confermare le sue tesi, manca sempre di più un consenso su principi universali da applicare trasversalmente, i principi razionali tipicamente occidentali su cui fondare una convivenza basata sulla pluralità di opinioni si dissolvono dentro questa follia arcaica che è l’identity politics e il suo ricatto morale: o stai con noi, ciecamente e sempre, o non sei propriamente umano, sei un incivile. Il merito della questione non conta nulla. Questa ossessione per il controllo ideologico del linguaggio appaiato a una sostanziale indifferenza per i destini concreti delle persone è altrettanto al centro del nostro tempo: la facciata ideologica al posto della realtà, in ultima analisi fa sempre parte di quella lotta di potere amorale a cui, secondo il post modernismo, non esiste alternativa.

Per questo il linguaggio diventa un territorio di una guerra molto dura: quando la lingua si ideologizza la sua scarsa capacità di descrivere il mondo è sempre sul punto di essere scoperta, per evitarlo si mobilita la militanza digitale e si chiedono censure a ogni occasione utile.

Molto interessante. Ne approfitto per insistere sul postmodernismo: Marco ne è figlio, e anche per questo reagisce abbracciando le ragioni della scienza. Secondo te in che relazioni sono post-modernismo e tecnologia?

Stiamo parlando di una corrente culturale per la quale l’illuminismo non è un approccio conoscitivo alla realtà che ha dato frutti senza precedenti e può essere preso e replicato, con enormi benefici, da qualsiasi cultura, etnia, o nazionalità umana, ma, piuttosto, una forma di conoscenza oppressiva tipica della cultura bianca patriarcale. Insomma è qualcosa di apertamente oscurantista, non a caso uno dei suoi nemici di elezione è la scienza, perché, tanto per fare un esempio, la luce va sempre alla stessa velocità, che il calcolo lo faccia un bianco, un nero, una donna o un transessuale – per inciso questa sua universalità è una delle sue caratteristiche più belle – e questo per i postmodernisti è inaccettabile perché per loro ogni cosa è il frutto di una violenta sopraffazione sociale, anche la misurazione dei fenomeni naturali.

Poi naturalmente passano le loro giornate a fare tweet o post sui social con i telefoni o i computer, tutte cose che non potrebbero mai esistere senza la cosiddetta «scienza bianca patriarcale».

Però De Sanctis, e in generale tutto il romanzo, mi pare attraversato da una tensione dolorosa al trovare un senso. La critica al post-modernismo, certo, ma il problema appare di portata molto più ampia.

Questo è un punto fondamentale, il post modernismo è la ricetta perfetta per il caos, ma rimane comunque il fatto che fondare qualcosa di solido in campo umanistico è un compito estremamente, estremamente, difficile. Inoltre la nostra è una società che garantisce un’abbondanza di materiale senza precedenti ma fatica a dare senso alla vita delle persone. Dal punto di vista epistemologico non ci sono insomma grossi dubbi su chi fra scienza e umanesimo sia in possesso di una maggiore approssimazione alla verità – la realtà è lì a dimostrarlo –, tuttavia l’uomo è un animale tribale, rituale, attratto dal simbolismo e dal pensiero magico. Tutte cose con cui la scienza non è in grado di dialogare perché dal suo punto di vista non hanno senso, e possiamo anche accettare che la scienza abbia ragione, ma rimane il fatto che ci siamo evoluti in questa direzione e in qualche modo  dobbiamo farci i conti. In più la tecnologia punta soltanto al suo aumento indefinito e lascia inesplorato il regno degli scopi, così come quello della morale, dell’estetica e di molte di quelle cose per cui vale in fondo la pena di vivere.

Qui per me emerge la centralità fondativa delle storie, in particolare la letteratura rimane un metodo di conoscenza della realtà molto efficace proprio perché aiuta a penetrare negli spazi lasciati vuoti  dalla scienza. Attraverso le biografie, l’aneddotica, gli archetipi o la forza della lingua, la letteratura stimola l’intuizione, l’analogia, e finisce per evidenziare delle assonanze potenzialmente illuminanti fra vita reale e vita immaginaria. La letteratura è una pluralità aperta di discorsi tenuta insieme da un’arte capace di parlare anche alla nostra parte non razionale. È questo che la rende preziosissima.

Anche al di fuori della letteratura trovo parecchio rilevante la tensione tra realtà e racconto. La sensazione, terribile, del nostro presente soprattutto italiano è di discutere, dividerci e pensare lontano dalle faglie della realtà e quindi dalle nostre esigenze, financo dai nostri interessi. Trump siede alla Casa Bianca e noi coloriamo statue, piattaforme-super-editore mietono introiti indifferenti ai contenuti di Salvini o Greta Thunberg e noi facciamo l’esegesi politica delle piazze delle Sardine, Zuckerbeg interviene al Parlamento europeo (difficile ipotizzare che si sarebbe mai sentito in dovere di riferire alla nostra Camera o a qualsiasi demos nazionale su Cambridge Analytica) ma nessun media, nessuna maratona Mentana si dedica all’argomento, in quel periodo facevamo i collegamenti con Di Battista dalle fattorie del Sud America (e il Parlamento europeo a cosa serve? Lo sai quanto ci costa? Ha pure due sedi, aboliamole!).

Il fatto di impiegare risorse narrative così sideralmente lontane dai nostri interessi in campo secondo me ha a che vedere con la decadenza morale e funzionale della politica, con la diffusione del complottismo, con la fragilità delle nostre istituzioni democratiche. In questo senso Odio è anche un romanzo-monito, la dimensione politica di questi problemi è al centro della tua attività intellettuale, di ricerca e scrittura. Mi sbaglio?

Se ho capito bene la domanda la tensione a cui ti riferisci è fra l’abbandonarsi alle forme del dibattito incentivate dalle piattaforme tecnologiche o rischiare l’assoluta irrilevanza.

L’hai capita bene, grazie della sintesi!

Il problema è che le forme che le piattaforme incentivano – perché massimizzano il tempo passato online e quindi gli introiti pubblicitari – sono tutt’altro che neutre e ci stanno polarizzando sempre di più fra estremismo e moralismo, allontanandoci dall’empatia e dall’istinto al metterci per un momento nei panni degli altri. Non credo che prima dei social network una sciocchezza intellettuale come quella di giudicare dei personaggi storici secondo i canoni morali del presente sarebbe uscita da qualche circoletto di estremisti. Certo, la storia l’hanno sempre scritta i vincitori ma il meccanismo per cui delle minoranze rumorose riescono ad imporsi con la violenza digitale sulle maggioranze è un fenomeno peculiare del nostro tempo. È preoccupante perché distorce dei sentimenti morali preziosi, come ad esempio l’antirazzismo, piegandoli ad agende di sopraffazione, trascinando il discorso verso il vortice oscuro della gara a chi è più puro, che è sempre l’inizio di tragedie immani.

Il sogno intellettuale nascosto in questi piccoli prevaricatori è quello di raggiungere il potere assoluto e arbitrario del sacerdote pagano (o del funzionario del partito totalitario) e quindi i lumi sono il nemico numero uno. Se infatti non c’è niente di condiviso né nulla di sensato nel presente, allora non c’è limite all’arbitrarietà del futuro potere rivoluzionario. Ma chi vede soltanto potere in ogni cosa non può che essere il primo a essere ossessionato da esso, è una meccanica psicologica che nel romanzo trovi declinata sul tema del Capro espiatorio: Marco passa da piccolo costruttore di capri espiatori fino a capire il funzionamento del processo del meccanismo sacrificale su una scala molto più ampia.  Quando un tema ci attrae tanto è perché ne abbiamo dentro almeno una parte, niente come la letteratura insegna questa lezione.

Tutto questo ci porta anche al giornalismo, professione che hai praticato e pratichi, che è indissolubilmente legata all’esigenza del narrare e verso la quale sei estremamente critico. Marco è una vittima della mancanza di deontologia giornalistica, così come Ottaviano, integerrimo giornalista di Lascia stare la gallina, è vittima del suo zelo professionale, paga con la vita il fatto di non essere un cialtrone totale. Il mondo politico-editoriale essenzialmente romano in cui i protagonisti di Odio si muovono sull’orlo dalla distopia che avanza è imperdonabile… O è un’attribuzione di responsabilità mia personale?

Dunque, prima di tutto questo è un romanzo, non è un saggio, questo non andrebbe dimenticato. Marco, come tu stesso hai detto, è uno che ha visto la sua faccia pubblicata senza alcun tipo di riguardo su tutti i giornali assieme ad un’accusa di omicidio, come per altro accade abitualmente in Italia, è normale che ora  non veda la categoria di buon occhio. Di più: la sua possibilità di compiere una scalata sociale non dipende solo dalle sue abilità ma anche dal risarcimento che ottiene per la pubblicazione indebita di alcune sue immagini, quindi il tema per lui è fondante, rientra nel ciclo torto-risentimento-vendetta, il suo odio per la stampa non è un vezzo dell’autore, è un pilastro centrale della sua vicenda umana. Allo stesso modo Ottaviano, in Lascia stare la gallina, è un’idealista in maniera quasi comica, non lo confonderei con un mancato premio Pulitzer, è un ragazzo nella più tipica delle fasi iniziali della professione, in cui si pensa inevitabilmente che ogni storia che capiti fra le proprie mani sia la più importante e quella in grado di cambiare il mondo.

È simpatico e si finisce per volergli bene, sul fatto che non sia un po’ un cialtrone a sua volta non ci metterei però la mano sul fuoco. Detto questo la mia idea personale sul giornalismo in Italia è che sia fatto in larga maggioranza da organizzazioni che hanno raggiunto un elevato grado di senescenza interna e che per una serie di motivi, burocratici, legislativi e di opportunità politica, non riescano a rinnovarsi. Ripensare il prodotto per sopravvivere in un’epoca che comunque è oggettivamente molto, molto difficile si è dimostrato un obiettivo al di là delle loro capacità organizzative. Spesso si dice che in Italia il problema sia l’inesistenza di editori puri e può darsi che sia così, può darsi pure che contino, in negativo, quei tratti retorici della nostra cultura nazionale, perché quando hai una diffusa antipatia nei confronti dei fatti e uno spiccato senso di appartenenza ad una fazione è difficile fare buon giornalismo, il problema principale però credo rimanga proprio quello della senescenza delle organizzazioni. Le aziende sono un po’ come le persone, prima o poi perdono spinta interna, si adagiano, indugiano per abitudine e pigrizia in processi ormai superati dal tempo finché non muoiono.

Questo è quello che credo stia succedendo: i giornali si assottigliano, perdono valore e diventano oggetto di shopping a basso prezzo per chi vuole avere un presidio politico; quanto possa durare una situazione del genere non saprei dirtelo. Rispetto al libro questo è un tema rilevante soprattutto per contrasto, nel senso che il mio interesse è rivolto ormai molto più verso le organizzazioni in fase ascendente, ancora in grado di liberare la creatività, di premiare il merito, di ripensare i processi, un interesse che sta alla base della costruzione del personaggio di Marco De Sanctis.

Proseguo un attimo sul filo della responsabilità, perché la seconda riflessione filosofica del romanzo è sul libero arbitrio. Il tema innerva tutta la vicenda, ma è affrontato esplicitamente durante il dialogo che Marco ha con l’amico Emanuele (lo studioso che gli farà conoscere il pensiero girardiano) mentre lo accompagna in macchina a riconquistare Sara, la seconda delle sue donne. Marco stima la ragazza, la compatisce per l’essersi innamorata di Emanuele, e tira in ballo la sua libertà di scelta: non vuole stare più con te, lasciala in pace.

Funzionale alla giustificazione di un misfatto privato, ma la risposta di Emanuele, che è filosofo, è programmatica: il libro arbitrio è una «sciocchezza da americani», un «modello astratto non più compatibile con lo stato attuale delle nostre conoscenze». Insomma per Emanuele nulla è morale, non esistono nemmeno i presupposti per l’immoralità: «La coscienza di una decisione è una finzione narrativa che interviene dopo averla presa». Infastidito da questo determinismo (che gli algoritmi che lo stanno rendendo ricco parimenti gli suggeriscono), Marco testa il suo libero arbitrio fingendo di sterzare con l’auto verso il guardrail. Il siparietto si chiude con Emanuele che lo prega di «non prendere la filosofia troppo sul serio». Cazzeggiando, ma siamo al centro del romanzo…

Siamo sicuramente in uno dei punti in cui emerge lo scontro fra l’ambizione dell’umanista – ma anche dell’uomo tout court – di essere centro e metro ultimo del mondo e l’avanzare della scienza e della tecnologie con le loro sentenze, talvolta sgradevoli per il nostro ego. È vero che – contrariamente alla credenza popolare – la scienza non è latrice di verità immutabili ma di certo è in grado di fornirci delle approssimazioni migliori rispetto a quelle che potremmo ottenere solo grazie alla contemplazione o al dibattito. L’onere della prova fa tutta la differenza del mondo, e la fa a favore della scienza.

Ora, quello che la scienza ci sta dicendo con sempre maggiore insistenza è che molte delle categorie del dibattito umanistico potrebbero in fondo non essere per nulla a fuoco, lo stesso concetto di libero arbitrio potrebbe essere poco più che una finizione narrativa. Capisci bene che si tratta di un’affermazione pesantissima. C’è molto del libro in questo corto circuito, nell’importanza cioè che le storie ricoprono nella nostra vita e nella costruzione delle nostre società, e nel fatto che un giorno l’hard problem della coscienza potrebbe risolversi con la rivelazione definitiva che non esiste nulla come una “scelta”, se non altro non nei termini in cui l’abbiamo sempre pensata. Certo non credo che a quel punto ci rimarrebbero altre reali possibilità se non comportarci come se non avessimo mai ricevuto una notizia del genere e continuare a raccontarci storie dove siamo al centro del mondo e prendiamo tutte le decisioni più importanti da un generatore di senso nascosto da qualche parte dentro di noi.

Ho un po’ di angoscia, io e la mia coscienza ci allontaniamo volentieri da questa discussione… E ti portiamo invece sulla relazione tra esperienza e letteratura. Roma – Bologna – Berlino è l’asse spaziale di Odio. Si tratta di tre città che conosci molto bene, ci hai vissuto e si vede. L’aver toccato con mano spesso conferisce alle tue descrizioni una vitalità «animale», penso a certe descrizioni culinarie, che mi hanno fatto venire davvero fame, o alla straordinaria sequenza al Carrefour, su cui torniamo.

Non ti chiedo quanto conti la realtà vissuta nell’elaborazione della fiction (cose del tipo: esiste davvero quel supermercato?), perché do per scontato che pesi, ti chiedo piuttosto quali misure prendi per tenere a bada l’esperienza personale e far vincere la letteratura. Le diversità sono innumerevoli, ma se dovessi dire un punto su cui Odio è tecnicamente «superiore», diciamo più maturo della Gallina, indicherei la lingua; i personaggi narranti della Gallina, per quanto plurimi, erano tutti più vicini alla lingua dell’autore, che in Odio ha fatto un passo indietro, la tentazione di cercarti in Marco passa molto presto anche a chi ti conosce. Insomma, tra i due romanzi hai costruito continuità ma io vedo anche rottura. Come si lavora sulla propria scrittura?

Il supermercato esiste, nei primi tempi che ho passato a Roma, ormai quasi quattro anni fa, vivevo in una casa che mi aveva prestato un amico lì vicino, alla volte scoprivo alle undici di sera di avere il frigo vuoto e andavo in scooter a comprare qualcosa, ricordo quel posto con grandissimo affetto, è stato il primo luogo di Roma a cui mi sono affezionato, aveva veramente qualcosa di mistico, una pace assoluta, tutta quell’abbondanza silenziosa, la sensazione di essere eccezionalmente vicini al centro simbolico del nostro mondo. Pensa al grado di cooperazione fra esseri umani che è necessario per portare una tagliata di manzo argentina in un supermercato di Roma ad un prezzo tutto sommato contenuto, è una cosa quasi inspiegabile, la dice veramente lunga su chi siamo come specie.

Per me questi sono fenomeni molto più interessanti del sentire qualcuno urlare al megafono come andrebbe governato il mondo secondo lui. Per quanto riguarda la lingua considera una cosa: questo è un romanzo di ambientazione borghese, mentre Lascia stare la gallina è un romanzo di ambientazione popolare, la differenza – considerato il tentativo di mimetismo della mia lingua – è dirimente. Poi sono d’accordo che non sia solo questo, anche a me pare più matura questa lingua, ma mi sembra per certi versi inevitabile, nel tempo scrivendo e leggendo si acquisisce una sensibilità diversa, quando ti trovi di fronte alla pagina diventa diverso quello che cerchi prima di tutto a livello istintivo e poi anche a livello, più mediato, di revisione. Il discorso sulla lingua si articola su moltissimi piani, quello del ritmo – per me importantissimo – quello del mimetismo, particolarmente sfidante in questo caso perché i contesti nel romanzo sono fra di loro molto diversi, così come molti sono i temi che emergono dietro la vite dei protagonisti. Infine non metterei Berlino sullo stesso piano di Roma e Bologna nel romanzo, queste ultime due sono molto più importanti, i due episodi a Berlino sono poco più di una cartina tornasole sul cambiamento di DeSa, un cambiamento che si svolge però tutto in Italia.

La mia scena preferita è proprio quella al Carrefour di via delle Fornaci, ora che so che esiste diverrà meta di pellegrinaggio. Marco ci invita Federica e la incanta con la competenza delle migliori guide turistiche: al posto degli affreschi di Giotto abbiamo gli scaffali di roba, ma poco conta, quello del capitalismo è comunque un tempio. Il fatto che un amore vero nasca lì dentro è simbolico della nostra condizione, vorrei un commento da te su questo. In generale, credo che si possa dire di te quello che ti ho sentito affermare di Michel Houellebecq in una recente intervista: sei, forse insospettabilmente, uno scrittore romantico. Non solo perché costruisci molto bene le scene di sesso, ma perché nei tuoi amori, anche nei più disastrosi, si coglie un che di salvifico, una pepita di senso ancestrale che suona e dice la sua, nonostante la sconfortante ostilità dei contesti e la miseria delle condizioni.

L’amore è il principio unificante per eccellenza, è il motore dell’evoluzione, è in ultima analisi il perché siamo ancora qui, nonostante tutta questa incessante fatica che è la vita. Diventa importante specialmente in un periodo come questo di tensione simbolica di tutti contro tutti, dove le grandi narrazioni sono finite e ognuno sembra lottare soltanto per il proprio gruppo di appartenenza e appare davvero difficile trovare un territorio ideale comune, anche minimo, su cui poi lasciare che si sviluppino delle differenze rispettose dell’altro. In fondo l’amore è un principio che non ha bisogno di essere socialmente fondato, accade, e non si capisce mai bene perché, è un gioco che milioni di anni di evoluzione giocano alla nostra coscienza, la sua imprevedibilità è anche la sua bellezza. D’altro canto come sarebbe stato possibile scrivere un romanzo che s’intitola Odio se dentro non ci fosse stata anche la polarità dell’amore? Non sarebbe stata una storia degna di questo nome.

Il romanzo non ha un’unica trama, per il lettore le fonti di piacere sono molteplici: certo c’è la distopia, il dopodomani cui tutto tende, ma c’è anche tanta vitalità, tanto oggi in cui ci si specchia con momentanea leggerezza. Il trio Marco-Emanuele-Mauro incarna molto bene la dinamica dei compagni di giochi che entrano nel mondo adulto, e che, piano piano, si sentono in dovere di «giustificare» la propria vita agli occhi degli amici. Coinquilini al tempo dell’Alma Mater, Marco è l’imprenditore fattosi da sé, Emanuele lo studioso forte di patrimoni secolari, Mauro lo scrittore di meritato successo, una parabola resa possibile anche dagli agi della sua ricca compagna di nobile lignaggio romano, dedita al sociale e carica di moralismi. «Fossero stati tutti condizionabili senza sapere di esserlo come Cristina, il valore di Before sarebbe stato ruffly 2,5 miliardi», sentenzia, fuori campo, Marco.

Ecco, queste e altre dinamiche relazionali – anche secondarie, si veda il papà di Sara, a mio giudizio il personaggio numero uno seppur sostanzialmente irrilevante nell’economica del racconto – sono costruite con una precisione d’intarsio e un’attenzione all’umano tale che quando lo sfondo politico inghiotte tutto, l’effetto è quello dei bassorilievi dei galeoni in fondo al nero del mare: aveva senso descrivermeli così bene, se tanto sono finiti lì? La mia impressione è che tu non sacrifichi mai i dettagli per due motivi: perché sono belli e meritano in sé, ma anche perché, soprattutto in Odio, è in quei dettagli che fai risuonare il senso complessivo dell’affresco. Con il senno del poi, tutto in Odio è in un certo senso premonitore…

Mi fa piacere che tu l’abbia notato perché in effetti è esattamente così, ci sono voluti quattro anni per scriverlo proprio per questo motivo, non c’è niente nel libro che non risponda al progetto complessivo. E questo è anche il motivo per cui il libro non è un saggio, ma un romanzo e per me era importantissimo che lo fosse nel senso più profondo e letterario del termine. Prendi il breve documento filosofico che il protagonista scrive verso la fine del libro, ogni volta che lo leggo da solo mi sembra buono, ma in fondo insufficiente. Se invece lo leggo assieme al resto del romanzo assume tutta un’altra valenza, ha un respiro diverso, più trasversale, più profondo, lo sento più condivisibile perché so che è l’espressione di una biografia ricostruita con dovizia di particolari. Lo sento nel suo essere il frutto di un essere umano intero, non solo della sua parte razionale: è in questo che il romanzo diventa imbattibile e ci aiuta a navigare anche nell’era della scienza. È una biografia, è una mappa individuale, non ha pretese di assolutezza, non è il manifesto di un partito, è la testimonianza di un uomo come me e te che attraversa il nostro stesso tempo.

Chiudendo il libro – che fatica non spoilerare –, mi è venuta in mente una celebre frase di De André, pronunciata sul palco l’ultimo tour, poco prima di morire: «Non ho mai avuto paura dell’uomo solo, ma dell’uomo organizzato». Anche qui, un’antica dicotomia che tu frequenti da tempo. Il libro si chiude con la netta distinzione tra chi è fuori, consapevole e dunque solo, e chi è dentro, aderente a una nuova organizzazione umana. Non saprei quale delle due condizioni è più spaventosa. Da osservatore della realtà e degli uomini, sei portato a diffidare di più della natura umana o delle organizzazioni sociali? Che idea ti sei fatto della relazione tra le due?

Senti non sono così convinto che DeSa abbia poi capito davvero molto più degli altri. Attraverso le sue scelte di vita anche coraggiose ha visto più cose della maggior parte delle persone e ha scoperto il potere disvelante della tecnologia rispetto alla natura umana, è vero, ma non ho alcun dubbio che nonostante la peculiarità della sua vita, DeSa sia ben lungi dall’aver capito tutto, il costrutto è romanzesco, il pretesto è biografico, Odio non è una teoria del tutto, è qualcosa in cui specchiarsi e vedere se non esce fuori qualcosa d’inaspettato rispetto alla conoscenza dell’animale che tutti siamo. Quanto alla differenza fra natura umana e organizzazioni sociali, esisterebbero le seconde se non fossero nella potenzialità della natura umana? Non credo possano esistere organizzazioni “innaturali”, penso però che ne possano esistere alcune preferibili ad altre.

Un’ultima cosa un po’ personale. Quand’è che chi scrive si rende conto di avere dentro la benzina per un romanzo? Quando lo si capisce, di esserlo, uno scrittore? Anche a livello di senso di appartenenza non me la vedo facile. Ogni giorno si iscrivono alla categoria geni incompresi che, con storie come la tua in mente, si ossessionano con il loro blog autoreferenziale; oppure personaggi diversamente mediatici, che approdano quasi d’obbligo al feticcio libro. Mi viene in mente Zalone ospite da Fazio, che presenta a favore di camera la copertina del volume che non ha ancora scritto, ma che già sa che gli chiederanno e che venderà migliaia di copie. Il titolo provvisorio è, per l’appunto, «Libro». C’è chi giustifica il raccontare e lo scrivere come urgenza «per sé stessi», come terapia, chi la sistema come un gesto di altruismo verso gli altri, chi accetta che non abbia un senso preciso ma che è così e basta. Qualunque sia il tuo movente (e da quello che hai capito, qual è?), come si tiene la barra dritta nel narcisismo che investe chiunque a un certo punto ipotizzi di avere qualcosa da dire e, di conseguenza, un pubblico? Anche quando legittimati dai riconoscimenti, non è abbastanza insopportabile sapersi scrittori? Cosa ti ha spinto, negli anni, a crederlo e a volerlo essere? Che vita è?

Qui ci vorrebbe una di quelle risposte roboanti da festival culturale però ora che hai citato quel genio assoluto di Zalone diventa un po’ difficile farlo senza mettersi a ridere. In realtà non ho una risposta precisa, da quando mi ricordo sono sempre stato interessato a cercare di capire il funzionamento del mondo che mi circonda, ho sempre letto molto, ho quasi sempre cercato di mettermi in situazioni complicate o strane con l’idea che male che andava ne avrei comunque ricavato qualcosa in termini di conoscenza. La tentazione conseguente di costruire una mappa scritta è venuta quasi subito. La mappa è imperfetta, è in divenire, per certi versi del tutto aneddotica e in ultima analisi personale, ma è anche la cosa che so fare meglio e anche una delle pochissime in grado di darmi una parvenza di senso. Quanto al narcisismo, stai parlando di uno che ha scritto il primo libro sotto pseudonimo, però devo dire che nel tempo sono arrivato a considerare un certo grado di narcisismo come qualcosa di sano, anche questa lotta censoria e assoluta contro ogni forma, anche perfettamente sotto controllo, di ego è abbastanza patologica, nasconde altri tipi di egocentrismi ben più contorti e disfunzionali, e si inserisce nei meccanismi dell’odio raccontati nel libro. Poi certo, l’ambiente editoriale è particolarmente ricco di casi di narcisismo patologico, da questo punto di vista è talmente un cliché che può capitare di avere a che fare con delle persone con cui è difficile rapportarsi per il semplice fatto che partono dall’assunzione di base che ogni autore sia di fatto uno psicopatico. Un’assunzione che gli  deve derivare dall’avere alle spalle parecchi precedenti, per carità,  ma resta il fatto che in casi come questi è virtualmente impossibile convincerli del contrario, ad esempio se gli dici «Ti ringrazio ma non c’è bisogno» queste persone pensano «Questo fa finta di fare la persona modesta, che megalomane», è un loop di presunzione di colpevolezza da cui con tutta la buona volontà non è possibile uscire, assomiglia un po’ al dialogo di Bill Hicks con i pubblicitari. Dopo un po’ capisci che in casi come questi l’unica cosa da fare è lasciar perdere e assecondarli. Poi però torni dai tuoi amici e per sbaglio gli rispondi come risponderesti a quel tipo di persona e i tuoi amici ti rispondono «non tirartela eh». Insomma alla fine capisci come si sono creati, tutti quegli psicopatici.

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