Di generi, di genere e di altre magie (nere): un dialogo con Loredana Lipperini

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L’esorcismo di uno spettro (individuale e collettivo); la nostalgia dell’eteronimo doppelgänger perduto; un regolamento di conti senza (?) spargimento di sangue; e un fantastico omaggio al fantastico.

Tutto questo è Magia nera, che esce oggi per Bompiani in spregio a chi pensa ancora che per le antologie di racconti, come titolava Ammaniti, il momento sia delicato. Quanto segue è un lusso vero per chi scrive: è la trascrizione di uno scambio appassionato con l’autrice, saggista, giornalista, incanta-radio Loredana Lipperini, oggi più che mai dalla parte delle streghe.

D: «Queste non sono storie che appartengono dichiaratamente a un genere, forse perché i generi, in fondo, non esistono. Esistono modi di raccontarle che partono da punti di vista ogni volta diversi: quel che cambia è il punto d’ingresso, e la strada che si sceglie di percorrere», scrivi nella tua chiosa finale a Magia nera e su Lipperatura. È una vita che te lo senti domandare ed è da una vita che per me si conferma, questa, la domanda delle domande, quindi partirei da qui: hai sempre avuto lo stesso rapporto con il genere? Quand’è iniziato il tuo innamoramento, e da cosa è nato — posto che si possa incollare un movente sopra al richiamo d’amore, qualunque esso sia?

L: È nato con le fiabe dei Grimm, edizione non adattata per i bambini, che la mia madrina mi regalò quando avevo sette anni. Simona Vinci lo ha detto molto meglio di me in Mai più sola nel bosco, ma camminare con la mente sul bordo di laghi che in realtà sono bambini trasformati e sentire il fruscio di alberi dove abita lo spirito di un fanciullo decapitato apre a una parte oscura che nell’infanzia non viene vista, e invece corre sempre sottotraccia. Se vuoi, quell’innamoramento, misto a terrore, è cominciato persino prima di imparare a leggere. Immaginati un pomeriggio d’inverno, e una bambina con i piedi piccoli e la testa piena delle favole della nonna dove un cane di nome Rosmarino muore bollito in pentola perché il suo sciocco proprietario ha obbedito all’invito della mamma, mettere appunto rosmarino nell’arrosto. Quella bambina riceve un invito molto ambito, specie dalla nonna: entrare nella casa di una vicina, detta la Signora, che fa il presepe più bello di tutto il palazzo, anzi, dicono, di tutta Roma. La bambina va, col suo vestito bello. La Signora è vestita di nero, ha due giri di perle sulla scollatura e capelli nerissimi cotonati e rossetto color sangue: le precede senza sorridere fino a una stanza che in origine era uno sgabuzzino, con una sporgenza che corre sui tre lati. Lo sgabuzzino della bambina serviva per riporre le valigie e l’aspirapolvere. Qui i tre lati sono occupati dal Presepe e prima di arrivare al suo centro, la Capanna col bambino, ci sono scene bibliche. A sinistra la cavalcata dei re Magi, a destra la strage degli Innocenti. È la prima cosa che vede la bambina.

Pensa. Duccio di Boninsegna dipinge la strage degli innocenti probabilmente a fine 1200. La dipinge con soldati senza espressione che infilano spade nel costato o nella gola di neonati grassocci e già lividi, che si ammonticchiano ai piedi dei soldati stessi o vengono cullati dalle madri mentre un filo di sangue rosso cola dai loro corpi. Nel Codex Egberti vengono trafitti o decapitati. Nell’affresco del Ghirlandaio sono fatti a pezzi.

Teste e soprattutto colli, colli fioriti di rosso, braccia strappate e di rosso sempre orlate. Gambe. Pezzi di corpi. Il lato destro del Presepe della Signora è così: un ammasso di sangue, organi, nasi, occhi sbarrati. La bambina non ha mai visto niente del genere. I santi innocenti, bisbiglia la signora. Che la spinge verso l’orrore, finché la bambina non chiede di tornare a casa.

Se devo trovare un inizio, è certamente questo.

Non molto dopo sarebbero venuti i Grimm, e Andersen, poi la saga di Pamela Travers su Mary Poppins, e alle medie Edgar Allan Poe, e poi ancora la giusta successione di Lovecraft, Machen, Matheson, e infine Stephen King. Man mano, capivo che quella fascinazione mista a repulsione era qualcosa che faceva parte di me ed era la matrice di tutte le storie che si sono raccontate. Perché di cosa parlano, infine, le storie? Della nostra condizione di mortali. E quella mortalità è qualcosa che proprio nell’infanzia si intuisce in profondità. C’è un passaggio di It che lo spiega bene, ed è un risveglio di Bill adulto, dopo un sogno in cui era tornato indietro, nel se stesso che non era più:

“Si sveglia da questo sogno incapace di ricordare esattamente che cosa fosse, a parte la nitida sensazione di essersi visto di nuovo bambino. Accarezza la schiena liscia di sua moglie che dorme il suo sonno tiepido e sogna i suoi sogni; pensa che è bello essere bambini, ma è anche bello essere adulti ed essere capaci di riflettere sul mistero dell’infanzia… sulle sue credenze e i suoi desideri. Un giorno ne scriverò, pensa, ma sa che è un proposito della prim’ora, un postumo di sogno. Ma è bello crederlo per un po’ nel silenzio pulito del mattino, pensare che l’infanzia ha i propri dolci segreti e conferma la mortalità e che la mortalità definisce coraggio e amore. Pensare che chi ha guardato in avanti deve anche guardare indietro e che ciascuna vita crea la propria imitazione dell’immortalità: una ruota. O almeno così medita talvolta Bill Denbrough svegliandosi il mattino di buon ora dopo aver sognato, quando quasi ricorda la sua infanzia e gli amici con cui l’ha vissuta”.

D: Ecco: l’infanzia, tema che è particolarmente caro a entrambe e ci avvicina moltissimo — solo qualche giorno fa premiavi i vincitori dello Strega Ragazzi nella splendida cornice della Children Book Fair di Bologna. Io passo l’ottanta per cento del mio tempo lavorativo immersa nei laboratori di avvicinamento alla narrazione per under 18 e troverei auspicabile piantarla di dare indicazioni censorie o limitanti a chi sogna di cominciare a raccontare storie: è tuttora inusuale pubblicare antologie, dicono alcuni. Non solo: ancor più inusuale è pubblicare antologie di genere fantastico. Se questo è quel che dicono, sarebbe bello che smettessero, credo; specificamente nel contesto del passaggio di testimone ad aspiranti Giovani Penne — tant’è che la tua Magia nera sbarca proprio oggi felicemente tra noi. Cos’è che secondo te vale la pena dire ai ragazzi, invece, a proposito di temi e forme d’elezione nella scrittura?

L: Che non esistono generi, appunto. Mi colpisce, nella narrativa per ragazzi più recente, la progressiva somiglianza con le tematiche della narrativa adulta. Romanzi storici. Romanzi con al centro la famiglia, che raccontano crisi esistenziali, e così via. Romanzi molto spesso realisti. È ovvio che non ho nulla contro il realismo, e che la narrativa per under 18 è di ottimo livello comunque: però è strano che il canone dominante predomini anche in un territorio che da sempre ha lasciato spazio al fantastico, addirittura finendo per farlo coincidere con le storie per giovanissimi (grave errore). Ora, come diceva Ursula LeGuin, dominante non significa sempre e comunque qualitativamente superiore: anzi. Quindi, ai ragazzi direi di non farsi ingannare da schemi e caselle, di essere liberi come lettori, così come liberi dovrebbero essere gli scrittori, auspicabilmente.

D: Liberi di leggere o scrivere (anche) ciò che più terrorizza, ed è vicino. Ché nulla è più spaventoso che guardare alla quotidianità cogliendone l’intimo, potenziale orrore nascosto appena sotto la superficie. Tu, per esempio, in questa raccolta pratichi solo occasionalmente incursioni nell’esotico, tra spie e illusionisti un po’ veri un po’ verosimili: i personaggi che affollano (e praticano!) Magia nera in quantità si chiamano Cecilia, Michele, Alice, Sara e si muovono entro ambientazioni ordinarie in garbato scivolamento verso lo straordinario. Sono corrieri, casalinghe, badanti, medici, e lo sono letteralmente dietro casa nostra — per questo atterriscono. Da anni conduci seminari sul fantastico: perché secondo te gli aspiranti esordienti hanno difficoltà ad ambientare storie fantastiche nei luoghi di casa propria? Cosa suggeriresti a chi non riuscisse proprio a non rendere l’eroe della sua prima distopia un Jake del Wisconsin anziché, che so, un Marco di Venaria, un Simone di Torre Maura?

L: Questo per me è un punto chiave. Ho sempre pensato che il fantastico, o quanto meno il fantastico che mi piace, debba essere straordinariamente verosimile. Se ho amato e amo i mondi creati da Tolkien (e anche da Martin, ammettiamolo), quello che prediligo è il fantastico che ti cammina accanto, come il compagno invisibile di Eliot. Quello che smargina, come nei racconti di Dino Buzzati. Quello che ti sorprende perché ti somiglia, e addirittura finisce col farti credere che quello che stai leggendo è accaduto davvero, come accadde nel 1948 quando La lotteria di Shirley Jackson venne pubblicato sul New Yorker. Il fantastico (e soprattutto il gotico e l’horror, che sono le strade che costeggio in Magia nera) raccontano di te, di quello che conosci e che fai tutti i giorni. Le mie storie nascono così: i cristalli di Soltanto due euro sono sulla mia scrivania, e davvero li ho comprati in un mercatino, e il pizzaiolo fracassone è quello che mi distrugge realmente le notti. Ma al di là dei dettagli, che sono semplicemente punti d’ingresso nelle storie, le emozioni, i grovigli sentimentali, le paure sono quelle nostre, quelle che conosciamo. Proiettarle in un altro universo come avviene nel buon fantasy richiede, almeno per me, un talento sovrumano, ed è curioso che spesso sia il primo tentativo che gli scrittori di fantastico fanno, e molto spesso si concentrano sulla creazione di quei mondi tralasciando quello che nel fantastico, come in ogni narrazione, è fondamentale: le emozioni. È molto più immediato lavorare su di noi, su quello che siamo e su quello che temiamo. E cosa fa più paura agli esseri umani? Il caos. Quello che non prevediamo e incaselliamo, l’imprevisto. Abbiamo paura, dice ancora Stephen King, del cambiamento. E questo è quel che gli interessa, infatti: osservare cosa accade quando una vita ordinata (o ordinaria, o tutte e due) inciampa nel cambiamento.

King cita, in proposito, un episodio del racconto “The Mist”. Ed è quando una delle persone che rimangono intrappolate nel supermercato a causa della nebbia assassina venuta dal lago impazzisce di terrore. Ma non rotea gli occhi, non vede apparizioni divine, non spara sui compagni di sventura. Semplicemente, dice al direttore del supermercato di ridarle indietro la sua confezione di funghi. Ridammi i funghi, urla. Siamo terrorizzati, dice King, dall’idea che qualcuno o qualcosa ci tolga la nostra confezione di funghi mentre siamo in coda alla cassa come sempre e come è giusto che sia.

“The Mist” è stato uno dei primi racconti di King che ho letto, e che ho amato molto. Ed è vero che secondo me sintetizza non solo la sua poetica, ma il manifesto della narrativa fantastica e horror in particolare. Quella, almeno, che sento vicina: mostrare questo mondo, quello che ben conosciamo e che è fatto di confezioni di funghi e di stick di rossetto che si sciolgono nelle borse, e raccontare l’altrove che vi si cela.

È questo che direi, dunque: guardate nelle vostre tasche, nelle vostre borse, nelle vostre vite. Partite da qui.

D: Partite da qui. Mi viene in mente il periodo in cui hai vissuto (almeno) due qui diversi. «I racconti “Tu stessa, per inseguirlo”, “Soltanto due euro”, “Stride la vampa”, “Baby blues” sono stati ideati e pubblicati per la rivista Confidenze. “Lyophyllum gambosum” è stato inserito nella raccolta Facce di bronzo (Mondadori, 2008) e “Lady Lazar” in Nessuna più (Elliot, 2013)» recita una notula in apertura di Magia nera. Le storie di Lara, le tue: era già capitato che coabitassero pressate sotto la stessa copertina? E cos’hai provato stavolta, oggi, nel vederle assieme?

L: Ci sono, nella raccolta, sei racconti che sono apparsi su una rivista o in un’antologia, e sei inediti. Fra i dodici, diversi sono recenti o addirittura recentissimi (quello su Bess Houdini, per esempio) e alcuni sono apparsi con il nome del mio eteronimo, Lara Manni. Quando penso a Lara continuo a provare un po’ di malinconia: grazie a un’identità non mia ho trovato il coraggio di sperimentare la parte narrativa della scrittura, verso la quale mi sentivo sempre inadeguata, e probabilmente questo senso di inadeguatezza, questo “zitta tu che non sei una vera letterata”, continuerò a ripetermelo sempre. Invidio gli scrittori e le scrittrici che esibiscono in pubblico, nelle interviste e sui social, la certezza di essere grandissimi, e semmai incompresi proprio perché superiori. Io mi considero un’artigiana, e mi piace: Magia nera mi ha fatto sentire meravigliosamente libera di scrivere quello che volevo, e questo è già molto. Moltissimo, anzi.

D: A proposito di (splendido!) artigianato della parola. Zio Steve-O, che è impossibile non citare quando si ha il privilegio di confrontarsi con te, nell’introduzione alla raccolta Tutto è fatidico rivela: «Quello che ho fatto è prendere tutte le picche da un mazzo di carte più il jolly. Dall’asso al re valgono da 1 a 13, il jolly è il 14. Ho mischiato le carte e le ho distribuite. L’ordine con cui sono uscite dal mazzo è diventato l’ordine delle storie. Ne è uscito un bilanciamento perfetto tra storie letterali e orrore puro. Ho anche aggiunto una nota descrittiva prima o dopo ogni storia, a seconda di quello che credevo essere la miglior posizione. La prossima raccolta verrà ordinata con i tarocchi». In Magia nera invece il lettore trova Matrimoni, Madri, Ribellioni, Doni: quattro sezioni da tre racconti l’una, quattro macrotemi forti, la numerologia a favore. Cosa ti ha guidato nel progettare la struttura dell’antologia e l’ordine dei racconti?

L: L’ho fatto a posteriori. Scrivendo o editando i racconti vecchi e nuovi, mi sono resa conto che inconsapevolmente avevo affrontato esattamente questi temi. Che poi sono quelli che attraversano anche la mia parte saggistica, a pensarci bene. Immagino che non si possa non parlare di famiglia e di maternità nei romanzi, ma dipende da come affronti la strada: il baby blues di Lilli è quello comune a milioni di donne, e semmai quello che non è comune è quello che si inserisce nella sua depressione. I tradimenti subiti da Elena potrebbero dar vita a un romanzo borghese, e invece accade altro. La malattia di Chiara poteva essere raccontata come il diario della sua sofferenza, e diventa qualcosa che fa parte di un mondo impensabile. La nostra esistenza, in fondo, attraversa quasi sempre questi quattro punti: nulla di anormale. Tranne il momento in cui in quella normalità cola qualcos’altro, come acqua dal fondo di un sacchetto di carta.

D: Eccole, sì: Lilli, Elena, Chiara… Da consapevole penna pluri-consacrata, da intellettuale attiva e attivista nel racconto del genere — sì — ma anche dei generi, e delle loro eventuali differenze, cosa significa per te nel 2019 scegliere di pubblicare una collezione di dodici personaggi femminili (o più, se contiamo comprimari o contraltari come la… ritornante, eterea Giulia o la diabolica non-tanto-vecchia Viola)? Piccola provocazione: cosa risponderesti a chi ti chiedesse se, da narratore, non trovi castrante fotografare qui come protagonista solo una metà del cielo?

L: Ci ho pensato, veramente. C’è, in Rosa Virgo, un protagonista maschile, ma la sua vita trascorre nell’inseguimento di un fantasma femminile, quindi probabilmente non conta. È che non sono così frequenti le donne protagoniste: se si escludono, nel genere, le Shirley Jackson, le Margaret Atwood, le Angela Carter, la mai abbastanza rimpianta Chiara Palazzolo e soprattutto le strepitose nuove leve, quelle raccontate nell’antologia Le visionarie, curata per l’Italia da Claudia Durastanti e Veronica Raimo. Oggi i racconti delle donne e sulle donne conoscono una nuova fioritura: diciamo che è un piccolo contributo per riequilibrare un dislivello. Se ci pensi, però, nella parte fantastica dell’Arrivo di Saturno ho scritto dal punto di vista di un uomo, il “mio” Han Van Meegeren. Dipende dalle storie: nel romanzo a cui sto lavorando le protagoniste sono tutte donne, perché è la vicenda stessa che lo chiede.

D: Ecco: piegarsi a ciò che chiede la storia, e al suo costo. In un’intervista pubblicata a ridosso dell’uscita di L’arrivo di Saturno hai limpidamente riflettuto: «Anche in tempi di autofiction, tempi in cui il lettore chiede la verità allo scrittore (e lo scrittore è convinto di dirla, quella verità, perché mettendosi in gioco ogni finzione sembra più convincente), nessun romanzo può essere sincero. […] La letteratura mente, così come si mente nel mondo reale: ma può almeno tentare di trasformare quella bugia, condividendola». Ti domando ancora, ringraziandoti infinitamente, e chiudo: secondo te che ruolo può ritagliarsi oggi questa concezione della letteratura, in un mondo in cui le fake news, moltiplicatesi nell’arco degli ultimi due anni, rischiano di plasmare parte dell’informazione globale?   

L: Credo che la letteratura debba rivendicare il suo ruolo di ingannatrice. È attraverso l’illusione che è possibile raccontare il mondo reale, semmai. Ma se la letteratura si inclina verso la narrazione di sé per avvicinarsi ai social, e dunque rendere partecipe chi legge di quella gigantesca autobiografia pubblica che i social rendono possibile, corre lo stesso rischio dei giornali. Non si inseguono, almeno per me, mezzi che non si possono sconfiggere su questo terreno. Bisogna trovarne uno nuovo, e chiedere al lettore non il semplice rispecchiamento (ti racconto la mia vita, soffri con me, ridi con me), ma la ricerca delle leve delle proprie emozioni attraverso una storia che non gli somigli. In apparenza.

D: E cosa sarà adatto a somigliarci-ma-non-troppo più di uno specchio deformante da casa stregata? Entriamo nel luna-park a passo svelto, allora: pronti a godercela strillando forte.

Commenti
2 Commenti a “Di generi, di genere e di altre magie (nere): un dialogo con Loredana Lipperini”
  1. sergio falcone ha detto:

    Insopportabile.

  2. Engy ha detto:

    insopportabile davvero!
    E pure io, quando penso a Lara Manni, mi immalinconisco, ovviamente per motivi diversi ……

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