Il declino del sogno sudafricano. Intervista a Damon Galgut

Pubblichiamo un’intervista uscita sul Messaggero, che ringraziamo.

«Mandela resterà un gigante nella storia del Sudafrica. La sua promessa di un Paese nuovo è stata però tradita. Nulla può essere comparato all’apartheid, ma nessuno avverte più gli ideali di radicale trasformazione della società che erano concreti e di fronte a noi nel 1994».

Le parole dello scrittore sudafricano Damon Galgut sono forti, quanto è dirompente il suo romanzo La promessa (edizioni e/o, 278 pagine, 18 euro, traduzione di Tiziana Lo Porto) che nel 2021 ha vinto il prestigioso Man Booker Prize.

La saga della famiglia Swart, che si sviluppa nel corso di tre decenni ed è segnata dal simbolismo di quattro funerali, fotografa la realtà del Sudafrica ancora diviso lungo la linea razziale e di classe, analizzando la questione chiave della proprietà della terra, tuttora in mano ai bianchi, e l’incapacità di restituire qualcosa del privilegio. Galgut esplora il passaggio del tempo e l’intreccio che si genera tra i cambiamenti individuali, politici e sociali nella prospettiva di una famiglia bianca sudafricana. Il romanzo disegna il declino di un sogno, che è quanto avvenuto negli ultimi quarant’anni dalla fine del regime di apartheid.

Che cosa significava vivere a Pretoria nel 1986, quando comincia la storia?

«Gli Swart raffigurano l’amalgama culturale della città in cui sono cresciuto. Gli anni Ottanta sono stati intensi e difficili, perché avevamo chiara l’emergenza. Il Paese danzava sull’orlo del baratro, colpito dall’enorme violenza senza dimenticare la condizione d’isolamento prodotta dal boicottaggio internazionale».

Qual è la dinamica interna della famiglia Swart?

«Il figlio maggiore è completamente concentrato su sé stesso. Crede di possedere il mondo. La sorella ha un’altra etica e a differenza del fratello comprende che storicamente quanto possiede non le appartiene. Pensa sia arrivata l’ora di restituire qualcosa del proprio potere e del privilegio. Essi corrispondono agli estremi opposti della personalità del Sudafrica bianco».

Perché la collaboratrice domestica Salome, alla quale hanno promesso di ereditare la piccola casa di servizio, non ha voce?

«L’intenzione è di far vivere al lettore l’esperienza di questi eventi attraverso la lente dei sudafricani bianchi. La vita di una donna nera nelle condizioni di Salome è come se non esistesse. Non è presa in considerazione. L’apartheid è stato superato, ma nulla si è trasformato nella sua quotidianità. Il silenzio nel romanzo raffigura il vuoto della sua posizione e il tradimento di una promessa».

Quale?

«Consisteva nell’idea di un Paese integralmente diverso, nel quale ognuno avrebbe avuto l’opportunità di cambiare lo status sociale ed economico. È stata come una forte reazione alla realtà precedente in cui tutto era bloccato dallo stesso gruppo di potere e non esistevano influenze culturali esterne. In questa apertura abbiamo sentito la percezione che tutto fosse possibile».

E oggi?

«È innegabile la maggiore libertà d’espressione, tuttavia il dialogo si ferma sulla soglia dello scontro. Il problema centrale riguarda l’immutata coincidenza tra le divisioni razziali, economiche e quelle di classe sulle quali la politica lucra».

Nel febbraio del 1990 Mandela fu liberato dopo ventisette anni di carcere. Era chiaro il sentore della svolta?

«Nessuno della mia generazione credeva che sarebbe finita la sua prigionia. Nessuno immaginava che tutto sarebbe avvenuto in un arco temporale molto breve fino alle elezioni democratiche del 1994 con la fine del bando dell’African National Congress. È stato un grande salto».

Che cosa ricorda della liberazione?

«Ero a Londra, quando rilasciarono Mandela: è stato un momento incredibile che ho seguito con le trasmissioni televisive. La sua immagine era stata bandita, non sapevamo quale sembianza avesse ormai. Quella giornata rappresenta la più importante memoria politica non solo della mia vita».

Lei come si misura con la storia e la politica?

«Gli scrittori sudafricani hanno un problema: il passato recente del Paese è irrisolto. Di conseguenza si avverte un senso di confinamento nel quale ogni storia deve confrontarsi con esso. Ho speso parte della mia vita di scrittore a fuggire da questo recinto».

La promessa non ha la dimensione prettamente politica dei romanzi di Nadine Gordimer, ma è profondamente sudafricano.

«Sì, non ho represso la mia natura. L’ho abbracciata ed è nato il mio libro più sudafricano capace di raggiungere un’audience ben oltre le frontiere della terra da cui provengo».

È rimasto sorpreso dalla vittoria del Booker Prize?

«In Sudafrica esiste ancora un radicato pregiudizio culturale. Il Regno Unito resta il centro del mondo. La vita di un libro sudafricano è spesso legata alla qualità della ricezione della critica britannica. La promessa, se non fosse entrato nella lista del Booker Prize e avesse vinto questo premio importante, non sarebbe stato preso in considerazione nel mio Paese. Mi ha colpito che gli afrikaner siano stati i lettori più forti del romanzo. Credevo reagissero negativamente all’asprezza della storia che li coinvolge, mentre è divenuta spesso un’occasione per guardarsi dentro».

 

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