Rileggendo Shakespeare: intervista a Giovanni Nucci

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Non lasciatevi ingannare dal titolo, suggestivo ma fuorviante. La differenziazione dell’umido. E altre storie politiche di Giovanni Nucci (Italo Svevo Libri) non è un divertissement letterario, né una elucubrazione sterilmente distante della realtà: al contrario, è una delle più lucide letture sulla contemporaneità.

Nell’assordante e vano cianciare degli ultimi mesi, la riflessione che propone Nucci è tra le poche che aiutano veramente a comprendere il presente allucinante che stiamo vivendo. Si tratta di un libro di rara intelligenza, a tratti formidabile. Ripetiamo, il titolo è beffardamente fuorviante: Nucci, in realtà, si produce in una appassionata e urgente dissertazione sull’attualità del Giulio Cesare shakespeariano. La tragedia romana del Bardo si impone, nella ponderata interpretazione di Nucci,  come cruciale chiave di lettura della disperante contemporaneità politica.

Una tragedia scritta alla fine del Cinquecento e ambientata 44 anni prima di Cristo può spiegare le derive inquietanti dell’inizio del secondo millennio? Sì. E lo fa con una precisione degna delle più celebrate distopie novecentesche. L’intuizione di Nucci è centrata, eppure il suo vero pregio è quello di svolgere il ragionamento senza concessioni alla retorica, senza forzature furbesche.

Ma (e qui risiede l’intelligenza profonda) tutto ciò non è impartito come una lezione saccente, bensì è presentato all’interno di una raffinata cornice di finzione borgesiana. Abbiamo conversato sull’autore di questo libro, breve quanto significativo.

Com’è nata l’intuizione di leggere il presente tramite il “Giulio Cesare” di Shakespeare?

Ho cominciato scrivendo libri per ragazzi, erano libri su commissione, non avevo altre vie per accedere alla scrittura, così ho colto quell’opportunità. La commissione era di riscrivere dei miti greci. Io non avevo una grande preparazione filologica, non sono mai stato un bravo studente, quindi ho cominciato a leggere le Metamorfosi di Ovidio con l’unico strumento per me a portata di mano, quello letterario. Voglio dire che ci sono molti libri che “raccontano” il mito riportandoci alla grandezza del mondo che lo ha costruito, quindi che ci spiegano quella incredibile interpretazione della realtà. Ma io mi sono appellato al fatto che quelli scrittori, prima ancora che latini o greci, erano scrittori, e attingevano ad un piano letterario che li trascendeva, finendo per scrivere qualcosa di universale, appunto di trascendente, in senso junghiano, archetipico. Così ho cercato di andare a cogliere direttamente in quella trascendenza e di riportare il mito alla nostra attuale, quotidiana normalità. Ancora adesso continuo ad incontrare ragazzi che, dopo aver letto Ulisse il mare color del vino, si riconoscono in quel modo di raccontare il mito. Sono passati quindici anni, e quel libro senza troppo clamore ancora vende tremila copie l’anno. Ecco, un po’ immagino che sia un dono, cogliere questa profondità archetipica del mito, o più in generale nella letteratura, e saperla riportare senza perderne la complessità, la densità, senza essere didascalici o semplificatori. Con Shakespeare è la stessa cosa; detto ciò non dovrebbe stupirci che Shakespeare possa parlarci dell’attuale, lo fanno tutte le più grandi opere del nostro canone, dal mito in poi.

Perché hai scelto questo titolo, illuminante forse solo al termine della lettura?

Perché era bello, mi piaceva – l’ho sempre pensato come un titolo abbastanza manganelliano, o forse avrebbe potuto essere un racconto di Gadda su una borghesia ormai completamente sparita. Insomma, è venuto per primo il titolo. Il libro l’ho cominciato a scrivere dopo aver scelto il titolo, alla fine mi sono reso conto che descriveva solo un aspetto marginale di quella storia, ma non ho avuto il coraggio di cambiarlo. È un po’ un inganno, per il lettore che magari si aspetta un tratto di ecologia domestica, ma tutto il libro è un inganno. È la letteratura a dover essere, di per sé, un inganno. Quindi va bene così.

Ti sei ispirato a qualche precedente letterario per la “cornice” narrativa?

Anche la cornice narrativa è venuta in un secondo momento. Nella prima stesura c’era solo il discorso, era una specie di invettiva. Ma non funzionava – ho sentito che dovevo inventarmi qualcos’altro. Shakespeare, un po’ come Dante, per raccontare il suo mondo non usava delle storie inedite, non aveva bisogno di inventarsi niente. Io penso che il nostro è un momento in cui, per quella che gli inglesi chiamano la “finzione”, sia molto difficile raccontare la realtà, in modo diretto, soprattutto con delle storie inedite. Cioè inventarsi una storia che parli della nostra attualità. Quello che riusciamo a inventarci tende a diventare immediatamente ridicolo, oppure noiosissimo. Neanche un accadimento totalmente tragico, come potrebbe essere la morte di un figlio, riesce più a offrire a un protagonista un punto di vista sufficientemente distaccato da permettergli di leggere il reale. Allora – almeno per me – uno degli strumenti possibili è quello di usare la letteratura stessa come lente. Un trucco, se così possiamo dire, è di mettere in scena una serie di quinte, quella che tu chiami la cornice, che ti aiutino ad allontanarti dalla realtà, a prenderne le distanze. Allora invece di raccontare di un politico in ascesa con aspirazioni dittatoriali tanto ridicolo che renderebbe ridicolo anche il racconto stesso, parlo di un poeta che viene nominato senatore a vita e fa un discorso dove dispiega il Giulio Cesare di Shakespeare da cui si evince chiaramente, ma non troppo esplicitamente, che in confronto a Giulio Cesare, il nostro capitano per quanto pericoloso è soltanto un buffone. Ecco, è un modo con cui è un po’ più facile acchiappare la realtà. Almeno per me.

E per il vecchio poeta ti sei ispirato a qualche figura esistente?

Raffaele Manica mi ha fatto notare come solo alla fine del libro, nelle ultime dieci righe, si viene a sapere come si chiama questo vecchio poeta, cioè Goffredo. A lui quel nome faceva pensare a Goffredo Parise. Io mi sono molto lusingato all’idea che un grande critico come lui abbia potuto riconoscere in questo mio libro l’influenza di Parise. Di mio non ci avrei mai pensato: come buona parte della letteratura italiana del novecento, Parise mi ha molto segnato. Lui non era propriamente un poeta, ma aveva certamente quello sguardo, quello della poesia. Penso che davvero, oggi, i poeti siano forse gli unici che potrebbero salvarci dall’ingorgo dove siamo finiti.

Detto ciò mio nonno si chiamava Goffredo, immagino che per me sia stata anche una dedica a quest’uomo nato alla fine dell’Ottocento, che era un ingegnere, coltissimo, amava Gadda, studiava Auerbach per capire Dante e leggeva Omero in greco, era stato del Partito d’azione, prima e liberale, poi. Non so se avrebbe potuto sopportare questa nostra attualità, ma i miei nonni mi mancano terribilmente, perché mi sarebbero stati di grande aiuto per poterla capire.

Al termine della sua orazione il poeta sostiene che “l’unico valore che la letteratura può opporre al potere o alla realtà, quindi alla politica, è la finzione”. Eppure il tuo libro, nella finzione, affronta a volte sfacciatamente la contemporaneità. In quella frase possiamo ravvisare la tua poetica? Puoi illustrare il gioco di commistione dei due piani?

Questa è una domanda difficile. Quella cosa un po’l’ho scritta per avvertire il lettore che magari pensa di leggere una vera orazione di un vero poeta nominato senatore e, poi, una vera nota del curatore… La finzione è uno strumento, ed è lo strumento della letteratura: però è uno strumento che per fare presa sulla realtà deve diventare sempre più sottile. Non basta più inventarsi una storia, sono necessari molti livelli di finzione, stratificarli. È quello che dicevamo prima delle quinte, della cornice. A me sembra che la realtà sia sempre più complessa, sfaccettata, complicata, ma gli strumenti che ci vengono messi a disposizione per leggerla sono degli strumenti di semplificazione, quindi c’è qualcosa che non torna. Tutta questa letteratura così facile, costruita soltanto intorno all’idea di trama, come si trattasse di serie televisive, non riesce a parlarmi, la trovo molto noiosa. E non è soltanto una questione di complessità, ma anche di densità – e la densità la dà la scrittura, altrimenti non si capirebbe come fanno Dante o Shakespeare ad essere i più grandi scrittori di tutti i tempi raccontando delle storie che non si sono inventati loro. Quando si sostiene che questa nostra «verità veloce» (cioè facile, superficiale, approssimativa e semplificatoria) è il corrispettivo attuale della finzione che c’era dietro al mito greco, mi sembra che si stia volutamente ignorando la densità che c’era nella scrittura di Ovidio o di Omero (e che sia uno scrittore a farlo la dice abbastanza lunga). Quindi sì, è la mia poetica, ma in realtà la finzione, quella finzione è lo strumento che uso per riuscire ad ottenere dalla mia scrittura la densità necessaria: è il modo che adotto per poter scrivere qualcosa di sufficientemente denso. Se scrivessi direttamente un mio discorso al senato, a parte la presunzione, scriverei qualcosa che non mi appassiona, cadrei di nuovo nel ridicolo. Così sono io stesso a mettermi dietro a quelle quinte, metto su un gioco di specchi, una serie di inganni o di stratagemmi, per non annoiarmi.

Qual è la distanza più grande che trovi tra la nobiltà degli ideali “romani” mostrati da Shakespeare (dall’utopia dei congiurati alla generosità di Cesare al capolavoro diplomatico di Antonio) e la sconfortante deriva attuale?

Immagino che Shakespeare volesse in realtà parlare del suo tempo, non di quello di Cesare. Ma era talmente grande che ha finito per parlare del nostro. E credo che questa grandezza si veda dal fatto che tutti e tre i suoi principali personaggi finiscono per essere  esemplari: Cesare, Bruto e Marco Antonio sono illuminanti, ognuno per il proprio ruolo. E in questo loro mettere luce, finiscono per mostrare l’enorme distanza che ci separa non solo da quella altezza, che è un’altezza letteraria, ma anche dalla normalità. Cioè c’è il Cesare di Shakespeare, poi c’è un normale condottiero, poi c’è la ridicolaggine di Salvini. Dal mio punto di vista la distanza più sconcertante, che sento più allarmante, è quella che viene illuminata dalla figura di Bruto. Ma perché il mio punto di vista è molto vicino a quello di Bruto, cioè un punto di vista democratico e di sinistra, progressista. Immagino che se sei un conservatore di destra, rimpiangere Giulio Cesare sia altrettanto doloroso.

A quali nuovi progetti stai lavorando?

Sto pensando a qualcosa sul Qohelet, cioè sull’impossibilità di riscrivere Qohelet, Giona e Giobbe. Nel 2016 ho pubblicato con Salani una riscrittura della Bibbia per ragazzi, una specie di raccolta di racconti biblici: è stata una follia. Farlo per ragazzi è molto diverso che farlo per un libro come La differenziazione dell’umido, ma dietro c’era lo stesso modo che per Shakespeare o per i miti, cioè rivedere le storie della Bibbia proiettandole sull’attuale, cercando di capire cosa ci possono dire se grattiamo via l’ideologia religiosa che si è incrostata sopra in cinquemila anni di storia ebraica, cristiana e mussulmana. Ecco, di fronte ai libri di Qohelet, Giona e Giobbe non sono riuscito a trovare una chiave di lettura abbastanza illuminante: non riesco a capire cosa, oggi, possono raccontarci. Il fatto è che, proprio per questo loro essere così ostici all’interpretazione, credo siano dei racconti che possano illuminarci, spiegandoci perché la terra, per dirla con Shakespeare, si stia così tanto movendo come una cosa malferma. Ma non è affatto detto che io ci riesca, allora magari scrivo un giallo, così forse la smettono di dirmi che sono uno scrittore difficile o che per capire i miei libri bisogna leggerli fino alla fine.

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