L’esperienza all’origine della scrittura. Punto Omega di Flannery O’Connor

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Le prime pagine di Punto Omega di Flannery O’ Connor misurano l’incombere di un dramma ineluttabile. Dopo  La saggezza nel sangue, Il cielo è dei violenti, le lettere e i saggi, e Un brav’uomo è difficile da trovare, minimum fax pubblica la sua seconda e ultima raccolta di racconti (traduzione e prefazione di Gaja Cenciarelli) uscita postuma nel 1965, un anno dopo la sua morte a trentanove anni dopo una lunga malattia. Nel racconto che dà il titolo all’opera l’autrice si cala nella visione di un uomo consapevole dello smarrimento di una madre incapace di prendere consapevolezza del proprio decadimento, inamovibile nelle sue convinzioni classiste e razziste intrise di moralismo cattolico. Il figlio osserva la donna strenuamente aggrappata alle proprie certezze mentre se ne sta eretta “sotto quel cappello assurdo, portandolo come l’insegna della sua immaginaria nobiltà”, preda del ricordo distorto degli anni del benessere famigliare.

Il presagio dell’inesorabile scandisce ogni racconto della raccolta. Si percepisce nello spettacolo della commiserazione razzista in autobus; nella deriva dell’ossessione per un toro che mina le sicurezze di una proprietà; nel trasferimento su una bambina di aspettative e assilli; nella reclusione fisica in un giovane corpo marcio in attesa della liberazione del trapasso; nell’intolleranza di un uomo fomentata dall’influenza del padre deceduto; nel tradimento originario percepito come fallimento della compassione; nell’umiliazione consumata nella sala d’aspetto del medico che produce allucinazioni e apre a scenari inediti; nello strano disagio che attecchisce nell’insoddisfazione; nelle fantasie di morte generate da una caduta dalle scale.

Il preludio al dramma distingue pagine profondamente aderenti al reale nel descrivere un disagio oscuro e, al contempo, grottesche, capaci di attestare un’inquietudine sotterranea generata da un tempo anteriore al narrato che il lettore può intuire dalla forza tragica delle immagini descritte.

“La marea di oscurità pareva risospingerlo indietro, verso di lei, rimandando, di momento in momento, il suo ingresso nel mondo della colpa e del dolore”.

L’elezione della forma breve individua l’istante che precede una rovina inesorabile e trova nel frammento la dimensione di un delirio privato, esito di pressioni sociali, aspettative, vincoli famigliari che frantumano un presente illusorio. O’ Connor ispeziona una marginalità condivisa dai suoi personaggi illuminandone il dramma.  Un tratto evidente in particolare ne Gli agi della casa dove l’accoglienza di una donna disgraziata per volere dell’anziana madre irrita il figlio, acceso a tal punto dal disgusto e dalla ripugnanza nei confronti della giovane, da arrivare a cercare di farle commettere un crimine per estrometterla dalla loro vita borghese seguendo le voci immaginarie del padre morto. Qui come in ogni racconto della raccolta il male si ritorce contro chi lo ha profuso.

Ogni vicenda subisce ribaltamenti che paiono generati dall’ironia del destino e rivelano una matrice originaria nel peccato dell’essere umano che non trova sempre una redenzione. È un aspetto centrale nell’intera produzione, affrontato a più riprese dall’autrice anche nelle lettere scambiate nel corso degli anni con agenti, editori, scrittori, lettori comuni e pochi amici. Illuminante un passaggio della lettera del 13 settembre 1959 a John Hawkes, contenuta nel volume Da sola a presidiare la fortezza a cura di Ottavio Fatica (minimum fax, 2012): “Quella del Sud è una religione fai da te, cosa che io, cattolica, trovo dolorosa, commovente e tristemente comica. Piena com’è d’orgoglio inconsapevole, li spinge a cacciarsi nei più ridicoli frangenti religiosi. Non avendo nulla a emendare le loro eresie belle e buone, devono scoprirlo a proprie spese. Se lo trovassi semplicemente ridicolo mi servirebbe a poco, ma il fatto è che ne condivido dottrine fondamentali sul peccato, la redenzione e il giudizio”.

Quel Sud povero e incosciente diventa il teatro entro cui far sfilare storie minime e brutali, dominate dal tradimento di un ideale, di un dovere, di un ruolo. Aspetti che nel racconto La schiena di Parker sovrappongono un’ossessione a una personale idea di fede. Il protagonista è un uomo che inizia a prendere consapevolezza di sé attraverso i tatuaggi – “Prima di allora Parker non aveva mai provato il minimo moto di stupore nei confronti di sé stesso” –: preda dell’insoddisfazione e soggiogato dalla vanità, cerca di dimostrare il proprio amore a una donna perennemente riottosa, devota al Dio dell’Antico Testamento e mossa dalla missione di redenzione di suo marito dal peccato.

L’enigma dell’altro domina anche il racconto Greenleaf sviluppato a partire dal risentimento che consuma l’anziana signora May, ostile nei confronti di un mezzadro che vorrebbe licenziare per liberarsi anche della sua ingrata famiglia. In pochi tratti O’Connor definisce l’astio che erode inesorabilmente la donna, “con gli occhi pallidi e miopi e i capelli grigi dritti sulla testa come la cresta di un uccello infastidito” e immortala l’orgoglio frammisto a una fatale accettazione che identifica il signor Greenleaf, dagli “occhi color volpe, infossati, e nascosti sotto un cappello di feltro grigio che portava inclinato in avanti, e che seguiva la linea del naso. La sua statura era insignificante”. Devastata dall’ossessione per un toro abbandonato e lasciato libero di danneggiare la sua proprietà, la donna farà di quel guaio la principale missione di vita che per uno scherzo della sorte le si ritorcerà contro.

Una condizione che accomuna anche il racconto La veduta del bosco, nell’aspro confronto tra l’anziano signor Fortune e sua nipote. Vista come l’erede ideale di una visione moderna del progresso, la bambina è divisa tra l’affetto nei confronti del nonno e il rispetto verso il padre violento. La selva che padre e figlia vorrebbero proteggere dalle manie edificatrici del nonno è assurta a simbolo di purezza, rappresenta il contrasto primario alla violenza e all’abbruttimento. Gli abomini e le meschinità immortalati da O’Connor sono l’esito della viltà di uomini che compiono peccati che li rendono spregevoli di fronte a figure dotate di una grazia sottile. L’autrice usa la violenza per interrogarsi sul ruolo della coscienza, indaga la ferocia della sopravvivenza per immortalare contesti privi di salvezza attraverso storie in bilico tra integrità e dissolutezza, illusioni e perdizione, con un sapiente uso dell’elemento ironico che amplifica il sotteso.

La rassegnazione alla sofferenza che appartiene a molti dei racconti di Punto Omega è esplorata nel definire la condizione di profonda solitudine provata in particolare nella vecchiaia. Ne Il giorno del giudizio l’autrice sonda il terrore oscuro che attanaglia l’anziano protagonista, un uomo ingrato, intollerante e indifferente al prossimo, costretto a vivere da sua figlia a New York. La paura che lo rende inquieto risiede nella possibilità di essere sepolto lontano da Corinth, in Georgia. O’Connor scandaglia la cognizione comune di uno strazio profondo e irrisolvibile che trova nel rifiuto della senilità una delle sue numerose rappresentazioni. In senso più ampio usa lo stato di infermità nelle sue storie per indurre il lettore a confrontarsi col senso della malattia in rapporto all’inconsapevolezza e alla miseria dell’essere umano.

La malattia è il terreno d’indagine d’elezione di Flannery O’Connor, lo spazio dove osservare, a partire dall’esperienza del dolore, la trasfigurazione fisica del corpo e la ridefinizione della relazione con l’altro. Nella lettera ad «A.»  (Betty Hester) del 28 giugno 1956 rivela: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è un luogo, più istruttivo di un lungo viaggio in Europa, e il luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire”.

Una visione affine a quella di Susan Sontag che nel saggio Malattia come metafora (trad. Paolo Dilonardo, nottetempo 2020) descrive la malattia come il lato notturno della vita, “una cittadinanza più gravosa”. È interessata ad approfondire non tanto la condizione reale di chi vive nel “regno degli infermi” ma le “fantasie punitive o sentimentali elaborate a partire da quella situazione: non la geografia reale, ma gli stereotipi sul carattere di quella nazione”. E in tal senso, i racconti di O’Connor scardinano ogni prevedibile rappresentazione attraverso immagini del disordine mentale generato dal tormento del corpo, per misurare nel disequilibrio l’attesa irrequieta della fine.

Nel racconto Malattia mortale sono gli abbagli e la dolorosa lucidità di un venticinquenne allo stadio terminale a raffigurare narrativamente le fantasie punitive citate da Sontag. Il testo si regge sul preludio alla fine, atteso da un intellettuale oppresso dalle attenzioni famigliari e irritato dall’ignoranza che è costretto a osservare immobilizzato a letto. Nella lettera indirizzata alla madre (da leggere alla sua morte) denuncia il clima soffocante in cui è cresciuto e riconosce il proprio limite nell’incapacità di evasione, paragonandosi a un uccello addomesticato, “chiuso nella sua gabbietta, stizzito, che si rifiutava di uscire”. Un simbolo ricorrente che il protagonista riconoscerà nelle chiazze di umido sulle pareti grigie della sua stanza.

Era convinto che la fine si stesse avvicinando, che sarebbe arrivata quel giorno stesso, e ora il pensiero della sua inutile vita lo tormentava. Gli pareva di essere un guscio che doveva essere riempito di qualcosa che lui ignorava. Iniziò a osservare tutto quanto c’era nella stanza come se fosse l’ultima volta – i ridicoli mobili antichi, il disegno del tappeto, lo stupido quadro che sua madre aveva sostituito. Guardò persino l’uccello con il ghiacciolo nel becco e sentì che era lì per uno scopo che lui non riusciva a capire.

La contraffazione del reale impronta il racconto Gli storpi entreranno per primi, incentrato sulla colpa che grava su un vedovo che cerca di colmare i propri vuoti nel assistenzialismo. Il protagonista finisce per trascurare suo figlio di dieci anni nell’inutile tentativo di redimere un quattordicenne disagiato “dal piede equino appoggiato sul ginocchio come un’arma pronta all’uso” che analizza il suo presente attraverso il filtro dell’odio. Le insistenze descrittive assegnano una misura esatta alle vane prove di fiducia, rendono rivelatori dettagli minimi, individuano nel tradimento l’elemento che tardivamente rischiarerà una situazione drammatica e parodistica al contempo, quando ormai per il protagonista è troppo tardi: il terrore è già “colato dentro di lui come una nebbia densa”.

L’allestimento urbano definisce la trasfigurazione di luoghi desolati che accolgono rabbia e frustrazione. La dimensione naturale rispecchia le inquietudini che dominano i personaggi, perennemente in sospeso tra attese e disincanto con descrizioni fisiche che traducono drammi interiori: ne La veduta del bosco sono gli “alberi smunti addensati in misteriose file buie” ad attestare la tragedia appena consumata, marciando sull’acqua e scomparendo in lontananza. In Malattia mortale è la veduta dalla finestra la sola immagine concessa al giovane che attende la morte, rasserenato da “un sole accecante, rosso oro” che “usciva serenamente da una nuvola viola. Sotto, la linea degli alberi si stagliava nera contro il cielo color cremisi. Formava un muro fragile, simile alla tenue difesa che lui aveva eretto nella sua mente per proteggersi da quanto stava per succedergli”.

Nel contesto prescelto risaltano manie e nefandezze attraverso storie tese tra la ferocia e il compatimento che consegnano uno sferzante ritratto sociale americano nel peculiare modo di immortalare un vasto campionario umano dagli accenti farseschi. In Rivelazione il racconto si regge su un’apparente mancanza di azione, che rappresenta l’ennesimo preludio al tragico che incombe. La descrizione di quell’attesa è resa nell’analisi dettagliata di ogni particolare dei personaggi: il bambino biondo col pagliaccetto azzurro sporco; il vecchio lungo e allampanato con “le mani rugginose aperte sulle ginocchia, che teneva gli occhi chiusi come se fosse addormentato o morto”; la vecchia magra e ruvida col vestito di cotone stampato; la donna dal viso scarno e i capelli biondi sporchi legati con un nastro di carta rossa; la diciottenne che leggeva Evoluzione umana, dagli occhi colmi d’irritazione per gli stereotipi razziali che è costretta ad ascoltare nel tempo vuoto dei discorsi nella sala d’aspetto.

La costruzione dei dialoghi rivela i sottili giochi di apparenze fondati sull’odio, sui pregiudizi, sulla presunzione di superiorità per ceto e razza che sottendono a quei luoghi comuni. Sarà la violenza a generare un rovesciamento. Preda di una luce visionaria a seguito dell’onta subita nella sala del dottore, la signora Turpin troverà tra i maiali osservati nel recinto una proiezione dell’umanità come un’immensa orda di anime che si dirige rumorosamente verso il paradiso tra “interi gruppi di bianchi poveri, puliti per la prima volta nella loro vita, e bande di negri molto neri con vesti bianche, e battaglioni di mostri e pazzi” che gridano, applaudiscono e saltano come rospi.

Ad assegnare anche in questo caso unicità all’opera di O’Connor è quella che l’autrice stessa in una lettera a John Selby del 1949 definisce “l’esperienza all’origine della scrittura”. L’appassionata lettura in particolare di Edgar Allan Poe, Vladimir Nabokov, Joseph Conrad, Anton Čechov, influenza la sua capacità di far sedimentare il noto senza limitarsi alla mera aderenza al reale, nella convinzione che ogni cosa debba essere “subordinata a un tutto diverso da chi scrive”. Segue i suoi personaggi nello smarrimento che li pervade mentre osservano con disperazione le rovine della loro esistenza o si rivelano traumatizzati dall’umiliazione subita, finendo per acquisire una visione nuova e allucinata delle cose del mondo.

Con Punto Omega Flannery O’Connor compone ritratti fulminanti su atroci grettezze umane venate di grazia, tra contrappunti comici e deformazioni lirico-visionarie che celano la remota paura propria dei superstiti.

“Lasciati al loro destino, i racconti non mentono”.

 

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