Ai margini del fiume. “Anatomia di un matrimonio” di Virginia Reeves

Pubblichiamo un pezzo uscito su Tuttolibri, che ringraziamo.

Montana, anni Settanta. Fred Malinowski, trentenne, brillante psichiatra comportamentale, ha accettato un incarico complicato e si è trasferito dal Michigan con la moglie Laura per dirigere un istituto che cade a pezzi. I fondi sono scarsi, e i pazienti vengono spesso abbandonati in stanze fatiscenti, senza scampo, tanto che diversi di loro si sono suicidati nel vicino fiume Boulder. Il personale sanitario va e viene. Le autorità della zona sono tendenzialmente un gruppo di zotici convinti che la salute mentale debba rimanere l’ultimo dei problemi di cui occuparsi; che le priorità del budget dello Stato, in altre parole, siano ben altre.

Malinowski ha pensieri diversi al riguardo, e anche la preparazione medica, la solidità caratteriale, il carisma per immaginare una rotta diversa. Lentamente, ma con tenacia, Fred conduce il suo lavoro, fondato sulla teoria comportamentale di Skinner. Vuole curare i suoi pazienti e portarli fuori dall’istituto: nella sua visione, «L’obiettivo della deistituzionalizzazione è semplice, togliere i cittadini dagli istituti se quello non è il loro posto».

Tra paesaggi maestosi ma desolati, in una rete di relazioni ridotta a poche amicizie, però, la relazione con Laura – aspirante arista visiva di talento – diventa presto un territorio minato, sotto la superficie del matrimonio che scorre fino a una ricercatissima gravidanza. Da questa premessa, Virginia Reeves ha costruito un’indagine sull’amore bellissima e dolorosa, con una capacità di penetrazione psicologica che salta fluida dalle parole ai gesti, dal non detto ai suoni e alle atmosfere. Fluida è anche la narrazione: la parte di Fred è raccontata in terza persona, quella di Laura in prima, una tecnica che Reeves maneggia con grande abilità e che le permette di gettare una luce diversa sul medesimo oggetto d’osservazione, che sia uno stato d’animo, una paura, un bisogno, un desiderio, un’aspirazione. Una mancanza, una fine, un sogno.

Del resto, il titolo originale di Anatomia di un matrimonio, il secondo romanzo di Virginia Reeves – pubblicato in Italia da Clichy con la traduzione di Giada Diano – è The Behavior of Love, chiara eco della teoria di Skinner ma soprattutto chiarissima dichiarazione sulla materia del racconto. L’idea di amore di Fred è chiara, sebbene inevitabilmente contraddittoria, fondata sullo schema di un maschio consapevole del proprio fascino, dei suoi desideri e della propria infallibilità (e qui risiede l’errore; il bias, la fallacia cognitiva da cui nessuno è immune, neanche un bravissimo comportamentista).

È innamorato di Laura, e desidera una famiglia con lei; quando sbaglia, pensa di potersi correggere, di saper sterzare. Pensa di poterlo fare sempre, anche se l’errore assume la forma di una tentazione pericolosa, addirittura illegale, nel corpo e nell’anima di Penelope, giovanissima paziente epilettica dell’istituto che Fred sta ricostruendo, una tentazione in tutto e per tutto, bella, intelligente e seducente sulle rive tumultuose del fiume Boulder. Preso dal lavoro, e da Penelope, Fred perde tessere del mosaico che è Laura, e finisce col perdere qualcosa di troppo.

Esistono libri che sanno come affondare il colpo, e il romanzo di Reeves appartiene a questo insieme come certe storie di Richard Yates, o di Raymond Carver («Mi siedo sul primo gradino e accendo una sigaretta. Voglio che Fred arrivi. Voglio che si scusi per avermi abbandonato in questo suo istituto. Voglio sentirgli dire che la ragazza non significa nulla, è solo una paziente, una tra tanti»; questa è Laura, e suona o non suona come una carrellata carveriana?) Anatomia di un matrimonio, per meglio dire, affonda il colpo a più riprese e risulta una lettura difficile da abbandonare – al contrario, diventa ancora più catalizzante –anche quando diventa lancinante, nella parte finale, perché Reeves riesce a resistere perfettamente in equilibrio sul crinale della storia, affacciata sul racconto e al tempo stesso partecipe di quello che sta raccontando, elargendo ampie dose di empatia verso entrambi i protagonisti.

È una storia ricca di poesia vera (Penelope prima s’inventa un corso di poesia per i suoi compagni dell’istituto, e dopo consegna a Fred i versi di Dylan Thomas) o soltanto evocata, e di momenti che fanno scattare clic emotivi a ripetizione; è calata sì negli anni Settanta del Montana, ma suona contemporanea, soprattutto nei personaggi femminili, tanto Laura quanto Penelope, più avanti rispetto a Fred, lui sì imbrigliato nel Novecento. Reeves sa cosa dire anche quando dirlo è difficile, quando la collezione degli ultimi momenti svanisce e le parole scompaiono e restano soltanto gli sguardi, i ricordi, una materia complessa e inafferrabile, la materia di cui sono fatte le vite, destinate a incontrarsi, bruciare, sfiorarsi, infine perdersi.

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