Fantasie dall’orlo di un precipizio. “I poteri forti” di Giuseppe Zucco

 

Sono acqueforti i racconti-mondo di Giuseppe Zucco, la raffigurazione di un terrore oscuro dalle sembianze mascherate. Il buio plasma la realtà, si fa origine della materia, e fa emergere figure spettrali e sensuali, che si aggirano nella pagina per invitare chi legge a inabissarsi nell’ignoto.

Visioni di morte prendono forma dalle risate grottesche che svegliano un marito nella notte, consapevole di essere destinato a fare la fine di Oloferne. Appaiono nel vagabondare di un uomo in crisi in una città dai contorni indefiniti alla ricerca di un palazzo da cui buttarsi, braccato dai propri assilli in una notte limpida e crudele. Si consumano mentre si accende l’euforia amorosa di due adolescenti nello sfondo di barconi affondati e corpi di migranti che riemergono dall’acqua.

I poteri forti, NNE, prende forma a partire da scenari allucinati, dove “gli uccelli cadevano dal cielo come coltelli”. Un universo fantastico popolato da esseri umani e animali allestito nello spazio del racconto per definire il solco di una ferocia propria della sopravvivenza. Dopo Il cuore è un cane senza nome, minimum fax, Zucco continua a comporre storie dalle tenebre, con un’inclinazione favolistica dalla conturbante dimensione onirica.

Traccia uno smarrimento condiviso tra protagonisti di storie diverse, che rivela il distacco dal presente e il mancato riconoscimento di sé e dei propri desideri. Un’incapacità di identificazione che nasce dal primo racconto – nella scoperta di una estraneità provata nell’osservazione del volto della propria moglie – e che culmina nella penultima storia, con la descrizione di un viso che dietro un “reticolo di crepe e fessure” cela una creatura ripugnante “che da tempo immemore le dimorava dentro e ora premeva per uscire”. L’influenza morbosa e distruttiva invade anche il tema amoroso, tra fantasie che sopravvivono solo nell’immaginazione e desideri irraggiungibili che celano la tensione costante tra ossessione erotica e repulsione.

Ogni protagonista pare in attesa di compiere una esplorazione nell’ignoto, un viaggio tra le macerie del meraviglioso: una dimensione ultraterrena marcia e infetta resa con macabre visioni che illuminano il cammino. Che la direzione sia la morte o un’idea di salvezza, l’esito sarà inesorabilmente una caduta senza toccare mai il suolo. È quel che accade al protagonista di Un ramo spaccato in due. La sua pelle preconizza gli eventi, e nei suoi contrasti – la neve bianchissima e il corpo nero d’inchiostro – annuncia l’ineluttabile. Il continuo comparire di tatuaggi rivela i presagi che lo avrebbero raggiunto nell’avverarsi fuori e dentro di sé.

Dietro ogni incontro, gesto e oggetto si cela una profonda simbologia. Le rovine entro cui vagano i personaggi di Zucco narrano un passato legato unicamente alla perdita e trovano nella dimensione del sogno lo spazio franco delle intermittenze emotive. Ci sono racconti dove a dominare non è l’incedere degli eventi, o l’attesa di una loro risoluzione, ma il modo in cui le descrizioni dei dettagli diventano predominanti perché racchiudono verità sotterranee.

In una sorta di bestiario fantastico con accenti inaspettatamente realistici, il richiamo al mito trova nel catalogo animale e nell’abbozzo di creature mostruose la raffigurazione degli esiti del conflitto tra l’individuo e il mondo intorno che dichiara l’insensatezza dell’umano. Può allora accadere che un pappagallo sollevi domande sul senso del suicidio a un uomo in crisi (Quarant’anni), o di ritrovarsi a inseguire un topo tra i rifiuti per poi ascoltare le parole sulla solitudine pronunciate da una salamandra nel bagno di uno squallido locale.

L’assurdo diventa lo strumento primario per enfatizzare la follia del reale anche attraverso potenti indugi descrittivi. Persino l’insistenza sul repellente assegna memorabili aperture liriche al tratteggio della caducità che investe le fragili strutture famigliari, l’incertezza del vivere, la labilità delle relazioni, e misura la piccolezza dell’umano.

Le palme secche pungevano il cielo. E alcuni lampioni, ormai tutti ruggine e salsedine, sopravvivevano inclinati come tanti idoli in disgrazia delle notti d’estate.

L’indagine sui poteri invisibili in grado di scompaginare visioni precostituite prende forma attraverso allegorie sull’ordine umano. Nel racconto La pietanza, un uomo assoldato per controllare gli accessi di un palazzo scopre una ragazzina segregata in cantina. La complicità nata dal sostentamento riservatole – preferito alla liberazione – sottende un’urgenza di autoindulgenza dopo una vita di eccessi. Tale condizione sarà ben presto minata dal rovesciamento radicale della prospettiva. La metamorfosi della vittima in una creatura mostruosa dalla natura famelica che prende il sopravvento si rivela metafora dell’intera opera: misura lo spaesamento esistenziale che domina ogni storia anche attraverso i ricorsi a figure animali.

Nel momento in cui i cani hanno più fame e desiderio si perdono. Ma com’è possibile? Perché quando la vita li colma più intensamente si lanciano dal ponte? Non c’è altra via per prendere ciò che quell’odore dolcissimo e nauseante indica loro? Non c’è altro modo per sfamarsi?

La tensione farsesca, l’uso sottile dell’elemento ironico e l’ossessione per l’orrido contribuiscono al continuo sconfinamento nell’assurdo, all’interno di un gioco di riferimenti letterari favorito dalla disinvoltura di un autore che scompone e ridefinisce costantemente le proprie fonti – da Fëdor Dostoevskij a Dylan Thomas – per allestire la pagina tra preludi e sospensioni.

Dagli alberi cadevano strani frutti che si spiaccicavano a terra come se fossero già marci. Il colore del cielo lo nauseò tanto che a lungo ebbe coscienza solo della punta delle sue scarpe.

L’estrema cura riservata alla parola investe la narrazione di una dimensione pulviscolare che rende rarefatti i contorni narrati e assegna centralità alla raffigurazione di un vortice oscuro di paura e desiderio, dove il dolore si perde nei singhiozzi che affiorano “come pesci putridi nell’acqua scura della notte”.

Con I poteri forti Giuseppe Zucco compone immagini fantastiche tra le vertigini, invenzioni sull’orlo del precipizio, attraverso cui misurare un disagio interiore immortalato prima che il disfacimento diventi irreversibile. Un elogio dell’attimo che precede il vuoto.

“E il vento si quietò, il mare si quietò, l’acqua divenne una pellicola tesa e trasparente. Delle teste emersero l’una dopo l’altra dal mare. A quelle teste seguirono spalle, toraci, gambe. La spiaggia fu lentamente invasa da un numero orribile di corpi marci e gonfi d’acqua”.

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