Guerra e guerra: dentro il labirinto di Lászlo Krasznahorkai

«Erano in quattro, disse Korin».

Entrare in un romanzo di Lászlo Krasznahorkai significa approcciare una sorta di labirinto letterario, dentro il quale smarrirsi, ma non occorre considerare il senso di perdita dell’orientamento, ma piuttosto la piena realizzazione dello sgomento che sopraggiunge quando si lasciano sul pavimento, passo dopo passo, i riferimenti letterari con i quali eravamo entrati. Alcuni esempi: un romanzo non è mai una storia soltanto, un personaggio non racconta soltanto la storia che leggiamo, il posto da cui vengono gli attori è solo in minima parte corrispondente a quello che ci giunge nominato o descritto, le frasi che vengono pronunciate non sono mai costruite per essere pensate come la grammatica ci insegna, no.

Ogni frase racchiude sotto di sé un  insieme di piccoli micro periodi fatti di cellule, destinate a muoversi e a riprodursi ottanta, cento, duecento pagine più avanti. Ogni enunciato è vero, perciò è quanto mai falso. All’interno del racconto, tra i protagonisti potremmo trovare un altro testo, per cui un nuovo racconto, scritto in maniera altrettanto complessa (o forse semplice) da chissà chi, chissà quando. Un uomo che parla a uno sconosciuto non sta mai parlando al vento, un ubriaco è in grado di manifestare una filosofia lucidissima, qualcuno che alza il volume del suo soliloquio sta riflettendo, sta mettendo insieme ragionamenti fatti per decenni, prima opachi e inafferrabili, poi di colpo chiari.

Sembrava piuttosto che tutte le sue forze l’avessero abbandonata all’improvviso, rendendo il suo corpo simile a quello di un uccellino colpito da una pallottola: la testa rovesciata all’indietro, gli occhi spalancati, le braccia, come ali ferite, abbandonate inerti ai due lati del corpo, si era insomma arresa all’abbraccio dell’altro, rovinandoci dentro, mentre dietro il suo collo, a causa del gesto impetuoso con cui il vecchio l’aveva poco prima tirata a sé, il cappotto si era stranamente accartocciato.

Quando uno dei protagonisti avrà capito, il lettore sarà pronto a rimettere in gioco ogni convinzione fino a quel brano, o capitolo, acquisita. Quando il lettore crederà di avere appena sottolineato la frase che dipana la matassa, che dissolve la nebbia,  in quel momento  il gioco dello scrittore ungherese ripartirà dal via, o forse dal finale, ma non avrà alcuna importanza. È successo nei precedenti romanzi di Krasznahorkay, soprattutto in Satantango (Bompiani, 2016, traduzione di Dóra Várnai) – considerato il suo capolavoro – succede in Guerra e Guerra, sempre edito da Bompiani e tradotto da Várnai, uscito nell’ottobre scorso. Intanto, anche in quest’ultimo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1999, ogni tanto, come sotto ipnosi, ci pare di ballare. Danziamo dalle parti del capolavoro anche in queste pagine.

La storia principale in breve. Un archivista ungherese, il solitario e (forse) disperato György Korin, scopre un antico manoscritto in un piccolo centro ungherese; testo, a quanto pare, di immenso valore. Korin rispetto al testo ritrovato diventa preda di una vera e propria ossessione, lo porta con sé a New York, il centro del mondo, il cuore pulsante. L’idea è quella di trascriverlo e diffonderlo per consegnarlo all’immortalità. Il manoscritto racconta le vicende di quattro personaggi straordinari: Kaiser, Falke, Bengazza e Toot.

Nei vari capitoli del manoscritto i quattro appaiono, come se saltassero fuori da un sogno, in luoghi ed epoche diverse: a Venezia nel 1423, nell’antica Creta, o ancora, a Colonia nel 1869, nella Spagna del 1493, al tempo in cui sta tornando Cristoforo Colombo, li si vede spuntare durante la costruzione del Vallo di Adriano. Ogni volta qualcosa interrompe la pace, la serenità la tranquillità, ecco una guerra, ecco un disastro. Krasznahorkay mostra tanti scenari in cui il tempo di pace era evidente e possibile, ne dimostra – come facendo schizzare i colori fuori da un dipinto – l’irrealizzabilità, la precarietà, tutto si tiene ma per poco, l’armonia dura di più se la immaginiamo, nella realtà non siamo mai stati bravi a perseguirla. Se la voglia di guardare al futuro in ogni epoca è tradita dall’arrivo di qualcuno, che siano conquistatori, nazionalisti, distruttori di spirito e di pensiero, allora è sempre tempo di guerra, non c’è mediazione, ma soltanto perdita. Il manoscritto e Korin, sono due protagonisti e due storie che si tendono la mano e prendono la scossa.

A volte mi piace molto fermarmi, interrompere tutto, e basta, disse in un’occasione Korin in cucina, poi, dopo un lungo silenzio in cui si limitò a guardare il pavimento per alcuni minuti, alzò la testa e molto lentamente aggiunse: Perché dentro di me qualcosa si rompe, e mi stanco.

Korin si attribuisce un incarico, una missione tipo quella dei cavalieri antichi, la persegue con devozione, viaggia sospeso tra forze di inarrivabile bellezza e dolore figlio dell’orrore, dell’anonimato, della solitudine. Guerra e guerra è anche la storia di una scrittura condivisa dall’autore con i lettori. Durante la stesura, infatti, lo scrittore ungherese ha diramato dei dispacci, invitando i lettori a una sorta di avventura, quel resoconto (per la prima volta) finisce nel romanzo, in questa edizione italiana.

Tutto ciò porta Krasznahorkay molto vicino alla visione letteraria di Roberto Bolaño: il testo è una mappa che conduce agli altri testi, i libri sono destinati a parlarsi tra loro. Insomma conta soltanto la letteratura, quello che succede tra le parole è il definitivo lasciapassare per le cose, che finalmente vanno come devono andare, fatte per delinearsi e scomporsi. Non si tratta di metaletteratura, si tratta di letteratura di altissimo livello, l’unica della quale dovremmo occuparci.

Il manichino era seduto da solo a un tavolo vicino al banco, facendo sembrare che ci fosse veramente qualcuno lì, era un manichino a grandezza naturale, di plastica rosa, svestito, dello stesso tipo di quelli che componevano anche il carico del carrello fuori dalla porta, solo che la pelle rosa di questo qui all’interno appariva più trasparente grazie all’effetto della luce, mentre il suo sguardo dava l’impressione di essere più pensieroso di quello dei manichini esterni.

Oltre tutto questo esiste (e resiste) la bellezza della prosa di Krasznahorkay, la sua capacità di avvolgerci dentro frasi lunghissime e senza scampo, di illuminarci con descrizioni piene di poesia, tenaci e improvvise, come pennellate di blu sopra tavole nere, come respiri lunghi dopo l’apnea, come quando spunta il sole sopra i grattacieli di New York e si riflette tra le vetrate e la neve appena caduta, quando quello stesso sole traccia una linea tagliata che brilla sopra le orme lasciate dai vecchi scarponi di chi ha passato il confine ungherese.

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