La disciplina dell’errore. Il teatro di Romeo Castellucci

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«Le pagine di questo libro danno forma a tutto quello che, nel corso degli anni, ho cercato di dimenticare», scrive Romeo Castellucci nell’introduzione de “La disciplina dell’errore. Il teatro di Romeo Castellucci. Scritti e interviste” (Cronopio, 2022, in collaborazione con Triennale). Si tratta di una raccolta di interviste e riflessioni che coprono un arco temporale che va dal 1997 al 2014, con un testo finale di Felice Cimatti strutturato in dieci tesi sull’arte teatrale dell’ultimo Castellucci. L’edizione italiana ampliata è a cura di Alice Guareschi.

Dimenticare come non rappresentarsi: un pensiero, quello di Castellucci, anti-novecentesco, un dimenticare illuminato, antisimonideo, segno del reale e della consapevolezza dell’incompiutezza.

Come scrive Abate su “Antinomie” parlando di Bros, “c’è forse una sola cosa che, nel teatro di Castellucci, è più essenziale della parola incompiuta, anche se ad essa connaturata: la violenza dell’immagine. Il punto è che, però, il campo di azione di Romeo Castellucci non è la performing arts ma il teatro, un mezzo (e un fine), a cui Castellucci con la Societas arriva solo in un secondo momento. Durante la sua giovinezza trascorsa a Bologna come studente di liceo artistico, nel 1977, Romeo Castellucci si trova a vivere un clima infuocato e scopre la storia dell’arte, studiata sui libri della sorella Claudia.

Si iscrive all’Accademia di Belle Arti col desiderio intrinseco di bruciare tutto, di incanalare la rabbia, che vede nelle piazze, in una disciplina estetica. Due sono le esperienze che segnano il suo percorso artistico: “La sagra della primavera” vista in Piazza Maggiore e i primi lavori di Carmelo Bene, visti a Cesena al Teatro Bonci, un Eliogabalo che, involontariamente, ha diffuso quell’epidemia che si chiama, per Artaud, teatro. Alla forma scenica, però, arriva, col suo gruppo di amici, solo in un secondo momento. Inizialmente mettono in scena spettacoli in gallerie d’arte e, solo in seguito, all’incirca verso il 1982 con “Popolo zuppo”, approdano allo spazio teatrale. In una recensione apparsa su “Il Resto del Carlino” del 29 maggio 1982, il “gruppo Raffaello Sanzio” è definito “naif, rabbioso ovvero postmoderno” mentre, invece, Eraldo Affinati su “Il giornale d’Italia” li definisce anarchici individualisti.

La cosa che accomuna, però, queste due recensioni è che, seppur con qualche rimostranza, considerano teatro (e non performance) questo spettacolo, dove Romeo stesso recita. Teatro postmoderno con attori. Un aspetto, a mio avviso, significativo perché distingue nettamente i lavori della Societas dalle performing arts. Sin dagli esordi, dunque, c’è un “lavoro di scavo radicale che ha investito anche la concezione stessa dell’attore”, come ricorda Castellucci nel libro “Attore, il nome non è esatto. Il teatro di Romeo Castellucci nelle foto di Luca Del Pia” (Cronopio, 2021).

“L’attore deve essere autorevole, essere al di sopra di me, il regista”, dice Castellucci in un’intervista del 1998, riportata nella sezione “L’uso della retorica” del volume curato da Jean-Louis Perrier. Una definizione che, probabilmente, lo accompagna sin dagli esordi. A cambiare, però, è forse il significato che Castellucci dà al ruolo del regista e lo possiamo evincere in un passaggio importante offerto da questo testo prezioso edito da Cronopio. Basta andare al capitolo “Mettere in scena l’irrappresentabile” per capire che Castellucci preferisce l’espressione francese “metteur en scène” anziché “regista”. «Mettere in scena», dice, «è più radicale, significa allo stesso tempo “rimuovere [dé-mettre] in scena”, ritirare dalla scena, passare attraverso la scena.»

«Dalle sue origini», dice Romeo Castellucci in un’intervista del 1999, «il teatro pensa il senso di Dio e l’assenza del sacrificio. Quando il sacrificio entra in crisi nasce il teatro.» Allora ecco che l’elemento teatrico si fa vivo, vita e morte si affrontano, il corpo dell’appestato, dell’uomo messo a nudo davanti ad altri uomini, diventa un meccanismo esplosivo, si fa religione di simboli e rituali.

Il teatro di Romeo Castellucci, ben esemplificato dagli scritti e dalle interviste proposte da Perrier, è circolazione di sangue e di escrementi, è esperienza estetico-sensoriale che è, al contempo, soffio vitale e pustola. L’uomo moderno può sentirsi infastidito da questi varchi aperti (fatti di immagini mai definitive) che, incidentalmente, possono portare a dimensioni etiche (come accade in Bros). Il corpo è il teatro (e non la performance), il suo spazio che Castellucci attraversa con le sue creazioni, i suoi oggetti, le sue macchine.

Infine, il linguaggio. Il visibile senza l’invisibile, il significante senza il significato. Se ne intuisce il peso specifico quando, in “Giulio Cesare”, proietta su uno schermo l’immagine della glottide e delle corde vocali di un attore, dopo aver inserito una telecamera endoscopica nella cavità nasale dello stesso.
Lo spettatore è il monarca, è lui che determina quanto vede. Sceglie cosa vedere, se vedere. Per Castellucci è la “quinta parete” e deve sentirsi chiamato dalla cosa che vede. L’artista non crea mediazioni, non determina gerarchie.

Lo spettatore riceve delle immagini da quest’incontro col teatro, che permette di rivelare il potenziale semantico di tutte le immagini e di tutti i segmenti sonori iscritti nel suo solco.

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