La perdita e la resistenza. “Vita degli anfibi” di Piero Balzoni

“Siamo sempre intrusi nel nostro passato”, scrive Jelena Lengold ne La resa (trad. Elisa Copetti, Voland, 2022) per tracciare la condizione di una bambina – accompagnata sino alla maturità – che assiste allo sfaldamento famigliare sottraendosi allo sconforto grazie a una sotterranea ribellione per frantumare le evidenze. Il nuovo romanzo di Piero Balzoni, Vita degli anfibi, indaga tale scarto individuando nella prospettiva infantile la disperazione della perdita e i tentativi di sopravvivenza alla vita nel bilico dell’assenza.

In un’imprecisata località del Nord Italia immersa nel verde, una famiglia si trova a trascorrere le vacanze con il compito di sorvegliare un caseificio di proprietà di un amico del padre. Il passo favolistico è reso nell’assenza di precisi riferimenti temporali e spaziali, nella scelta emblematica di lasciare nell’anonimato personaggi che finiscono per fondersi con il loro ruolo e annientarsi – la madre, il padre, il Forzuto – e nelle continue sovrapposizioni dell’immaginario sul verosimile attraverso racconti di paese e leggende sul dio del lago che ne abita il fondale.

La scomparsa improvvisa del padre nel giorno del nono compleanno della figlia si rivela priva di risposte nonostante le indagini, finendo per corrodere in modo irreversibile due esistenze consumate nell’attesa di un ritorno. La cristallizzazione dell’istante sull’altalena come ultimo momento prima della sparizione decreta nella mente della giovane un futuro segnato dall’assillo del dubbio di aver rimosso parole definitive. L’autore indaga l’impossibilità di elaborare un lutto sospeso che attanaglia chi convive con il vuoto dell’assenza nello smarrimento di non poter rendere tangibile quel dolore.

L’attesa di mio padre era diventata l’attesa di mangiare, riposarsi, lavarsi, dormire.

Balzoni si interroga su quel che permane nella perdita di fronte a un’incertezza del presente che allaga il passato e costringe a attuare una metamorfosi per garantire la sopravvivenza. Il tratteggio dell’inquietudine oscura che attanaglia la figura materna è reso nell’adozione di un registro grottesco che definisce l’abbandono di ogni difesa nella resa fisica di un corpo che rifiuta il cibo, nell’ossessione che assume le sembianze di un tarlo che mangia i mobili, nella disperazione delle solitarie risate notturne che risuonano nelle campagne.

Nelle notti in cui mamma rideva non c’era posto in cui potessi nascondermi.

L’apparenza comica del dramma consacra un istante del passato per sconvolgere l’assetto del presente e mostrarne gli equilibri labili. L’allestimento dello scenario naturale fa da contrappunto alle vicende narrate, con continue allegorie nelle descrizioni fisiche tra laghi che custodiscono una cattedrale sul fondo, boschi degli alberi neri che celano barche ricoperte di muschio, pontili sgangherati che paiono scheletri di animali morti mentre si abbeveravano. Anche i nuovi spazi che definiscono la vita adulta della protagonista – una città senza nome descritta come appena uscita dalla guerra, con una “piazza folle, una lastra d’asfalto come un trampolino sul mare” – rivelano smarrimento e estraneità al presente.

Le istantanee sul dramma misurano le incertezze di vivere che portano madre e figlia a elaborare piani di resistenza dai loro lettini da spiaggia Rivadoro coi bordi arrugginiti in un caseificio fatiscente che diventa metafora di una realtà famigliare dalla cornice fragile e dagli enigmi irrisolti. A indicare un’inesorabile metamorfosi è il racconto del cambiamento di girini catturati e chiusi nei barattoli nascosti nella dispensa, osservati muoversi nella notte e poi liberati.

La narrazione di un’appartenenza divisa è resa nelle immagini di anfibi che sono in grado di procedere verso la terraferma pur restando legati all’acqua da cui provengono, creature che rappresentano il simbolo dell’assenza di memoria e di mancanza di coscienza. L’inganno dei ricordi e la scoperta del perdono dominano una narrazione strutturata tra continui andirivieni temporali scandita da tre fasi e sviluppata attraverso altre storie che si innestano a quella principale, accomunate dalla necessità di sopravvivere a una perdita inesplicabile. Le insistenze descrittive su oggetti abbandonati intorno al lago, come un passeggino senza ruote, una papera di plastica, un album fotografico ignoto, definiscono i tentativi di rifuggire l’oblio: “Le cose che non hanno un posto vengono assorbite dalla terra e ritornano semi”.

I dettagli minimi come le caramelle sotto il sedile dell’auto, gli appunti su fogli volanti, il Lego mai finito di costruire, le tacche della crescita in quel che rimane di un muro (in un indiretto rimando ai versi di Hilde Domin) misurano il dramma di una perdita senza risposte che genera un rovesciamento nel rapporto di cura madre/figlia. La prosa si posa lieve su drammi sopiti attraverso insistenze descrittive su una moglie affranta per raccontarne il dolore, l’odio, la rabbia, nei gesti di mani invecchiate nell’asciugare capelli, aprire armadi, riordinare stoviglie, cercare insetti invisibili.

Le visioni sulla pagina traspongono incubi e angosce remote, tra continue sfocature che annullano i confini del reale, confondono i ricordi nel groviglio inestricabile del noto. Balzoni scandaglia con una sottile grazia i reperti del passato con cui i suoi soggetti devono confrontarsi per renderli custodi di una memoria antica e ambigua, impenetrabile e sfuggente, necessaria per provare ad abitare un penoso presente frantumato.

Celebriamo i corpi come case vuote su un mare in secca e ci scordiamo presto l’odore dell’incenso, il cemento fresco sulla parete di lapidi tutte uguali.

L’indagine fisica ispeziona gli spazi vuoti nella relazione con l’altro, trova nelle rassicuranti immagini infantili un’illusione di benessere infranta dalla ferocia di un’infinita attesa e dalle consapevolezze adulte sul disagio di una madre depressa preda di manie ossessive e di fantasie sulla fine.

Nel deviato panorama domestico costruito nel romanzo, l’effigie dell’ignoto investe il privato e allaga l’immagine stessa del passato. A tradurre la sospensione sono i periodi troncati, la prosa sincopata e i continui flashback che preludono a un epilogo aperto in linea con la costruzione dell’opera. Il nodo amaro del distacco dal mondo generato da un cocente senso di abbandono sancisce l’esilio da sé, una condizione che invade ogni cosa e permette di illuminare il dramma con inattese aperture che rappresentano una flebile idea di salvezza dal declino. Con Vita degli anfibi Balzoni allestisce sulla pagina gli esiti di una impossibilità di essere, tra verità parziali o oscurate, capaci di generare percezioni opposte della realtà, dalle aspettative dei figli al senso di inganno dei padri.

 

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