“Le città e i giorni” di Filippo D’Angelo

Filippo D’Angelo presenterà Le città e i giorni giovedì 1 febbraio alle ore 19 presso la Libreria Verso, a Milano. Interverrà con l’autore Alessandro Beretta.

In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo coreano Byung-Chul Han indaga la scomparsa della figura dell’Altro nel mondo contemporaneo, nella convinzione che solo l’incontro con l’Altro possa conferire a ciascuno la propria identità e generare reale esperienza, sulla base però di una presa d’atto dell’urgenza di ricostruire una comunità fondata sull’ascolto e l’apertura.

Oggi è necessaria una rivoluzione del tempo che dia inizio a un tipo di tempo completamente diverso. Si tratta di scoprire di nuovo il tempo dell’Altro. L’attuale crisi del tempo non riguarda l’accelerazione, bensì la totalizzazione del tempo del Sé.

Si fondano sulla crisi del tempo le istanze sollevate in chiave narrativa da Filippo D’Angelo nel romanzo Le città e i giorni, nottetempo. Attraverso le vicende di due fratelli alle prese con le conseguenze di scelte private e professionali deleterie, il romanzo esplora lo scarto tra desideri e realtà tangibile, abbagli e euforie, deviazioni tossiche e impossibilità di salvezza, lambisce la voragine di un dolore perpetuo negli inabissamenti nel passato delle tragedie infantili, dei segreti indicibili, delle perdite, e nelle riemersioni nel presente dei drammi famigliari, degli smarrimenti, delle vocazioni frenate e dell’assenza di una reale visione sul futuro.

La continua alternanza di capitoli e lo sfasamento temporale permettono di insinuarsi nelle falde del tempo anteriore, per rintracciare le ragioni di una fatica di vivere. Un aspetto enfatizzato dai cambi di registro: gli indugi sui turbamenti emotivi e il disordine evocano la tensione interna vissuta da Maurizio nel percepire l’incapacità di affrontare una scelta vissuta senza entusiasmo nell’entrare a far parte come architetto del fastoso progetto di un grattacielo di oltre duecentocinquanta metri a poca distanza dal centro senza interazioni con il paesaggio urbano, che impone un trasferimento da Parigi a Milano con sua moglie Consuelo e sua figlia Cristina. L’entusiasmo professionale passerà dall’ascetica vocazione giovanile associata a un’idea di destino seguendo le orme di suo nonno e di suo padre, a un lavoro sporco, legato indissolubilmente a compromessi e intrighi. Il cambiamento minerà un equilibrio domestico già compromesso, porterà Maurizio a cercare altrove un alleggerimento dalle pressioni percepite nella relazione con sua moglie, mostrandosi incapace di ascolto e preda di “ansia edonica”.

Gli inserti diaristici tracciano invece lo straniamento vissuto da Emanuele durante una nuova missione come cooperante nella Repubblica Centraficana per occuparsi di un’inchiesta su abusi sessuali su minori da parte di militari francesi. Dal furore giovanile dei tempi del G8, invaso da una “illusione di potenza dei rivoluzionari senza avvenire”, agli anni di studio privi di prospettiva, alle timide prove di scrittura, la scelta della cooperazione sarà un tentativo di riscatto, una reazione al senso di disfatta che lo abbranca. La pretesa vocazione all’aiuto è scalzata da un’esigenza egoistica che lo porterà ad abusare del potere che detiene, a essere complice del ricatto morale dell’assistenzialismo. Rileggere le sue riflessioni lo porta a prendere atto della falsità insita nel dare una rappresentazione inevitabilmente fallace di sé e si estende, in senso più ampio al suo rapporto con la scrittura, nell’impossibilità di aderire alla “materia viscida di cui sono fatte le sensazioni, i pensieri e i ricordi”.

I due fratelli affrontano intrighi e tradimenti, si confrontano col peso dell’inganno le cui ramificazioni “aspirano a espandersi ovunque”, privi di strumenti in grado di proteggerli dai loro stessi errori. L’impressione di essere apolidi riguarda in misura diversa entrambi. In Maurizio prende forma nell’impressione di vivere in uno spazio immateriale tra Parigi e Milano, tra fantasmi del passato e nuove incognite, con visioni su un tempo rinnovato che sovrappongono il reale al miraggio. In Emanuele si sviluppa nel tentativo di reagire a un intorpidimento radicato dietro la cortina di fumo dei diritti umani.

Ne Le città e i giorni l’autore inscena una farsa che nel presagio del dramma cela risvolti tragicomici nel tratteggio di un bizzarro campionario umano tra soci alcolizzati e visionari, imprenditori asserviti al potere, missionari intolleranti, irriverenti medici balbuzienti, opachi referenti ONU, giornaliste convinte di essere “l’archetipo peccaminoso della donna bianca”, patrioti corrotti.

Pur afferendo a ambiti diversi, emerge la profonda affinità tra due contesti agli antipodi, governati da anomalie e  storture spacciate per interventi progettati per favorire un benessere collettivo. I retroscena politici in paesi segnati da miseria e corruzione celano dinamiche simili a quelle contaminate alla base di imprese internazionali.

Le evoluzioni dei soggetti si traducono negli spazi che diventano teatro delle loro disavventure, e che assumono contorni diversi sulla base dello sguardo che si posa su di essi. Dalle mete passeggere come il borgo ligure di Framura, vano riparo alla crisi coniugale, le parentesi di New York e di Genova, “decrepita e appariscente”, legate a un’evasione salvifica e vacua, l’esperienza di Parigi e il ritorno, tra il perturbante e il tragico, a Milano, il tormentato soggiorno in Congo e Bangui tra campi profughi, sino al viaggio in Israele, e a Buenos Aires nel presagio della fine, i luoghi attraversati traducono la particolare concezione del tempo che emerge nell’opera e la profonda inquietudine vissuta dai protagonisti. La rarefazione delle partenze cela una personale visione del tempo nell’opera, una volontà di collocazione fisica nell’identificazione della sua geometria. Il tempo verticale aderisce alla memoria, il tempo orizzontale marca la frenesia e lo smarrimento, si riflette nelle architetture e negli spazi che definiscono l’anomalia, l’anelito di pura assenza per fantasticare di esularsi dal presente e agognare una rigenerazione.

A ogni partenza crede di vivere un risveglio interiore, come se i sensi e la mente fossero ripuliti dalle scorie dell’abitudine.

Affini nell’esperire un tempo vuoto, i due fratelli sono inconsapevoli di ciò che li avvicina. La solitudine inestinguibile che li affligge si sovrappone a un’idea di paesaggio, nelle evoluzioni vissute da chi convive con un perenne stato di allerta – al contempo oggettivo per il pericolo politico e privato e per la consapevolezza delle proprie responsabilità – e chi si affanna a rincorrere vacue evasioni che finiscono per attestare una resa interiore nella vulnerabilità dello spazio. La fragilità diventa nel romanzo una condizione propria del paesaggio e a tratti appare quasi più una configurazione interiore nel racconto di figure imprigionate nell’impotenza, eterni carnefici e vittime, incoerenti, segretamente disoneste e prive di lungimiranza, che generano interrogativi sul peso del compromesso per garantirsi un riparo, sull’enigma dell’altro, sul mancato riconoscimento reciproco, sulla paura di nuove sofferenze.

Pur revisionando con elementi di fantasia la complessa situazione geopolitica della Repubblica Centrafricana tra lo spettro della guerra civile, i conflitti tribali, le squadre cristiane di autodifesa e l’ingerente presenza militare, l’autore compie una denuncia sugli esiti del predominio straniero, incarnando le diverse visioni, per restituire la smania di controllo incoraggiata dalla celata convinzione di una superiorità morale, l’assenza di reale empatia verso luoghi in cui “miseria e rovina sono deiezioni della storia”, la ricorrente visione stereotipata e paternalista  che sovrappone ritualità e violenze e che associa la diffidenza all’ottusità, l’incapacità di rispettare e riconoscere l’identità di un continente “destinato a incarnare a lungo il rimosso dell’Occidente”, con un velato parallelismo tra il colonialismo militare e quello del sistema di cooperazione internazionale e delle missioni. Mette in luce le tensioni tra i diversi soggetti che operano per favorire miglioramenti del tenore di vita, per garantire sostentamento, scolarità e assistenza sanitaria, in un gioco al rimpallo di responsabilità, tra l’egocentrismo missionario dell’etica cristiana, la corruzione locale che dirotta altrove i finanziamenti erogati per strutture e servizi, l’ingenuo culto dei diritti umani dei cooperanti, le ambiguità dei referenti dell’ONU, degenerato in un rassegnato sconforto.

Schemi ricorrenti riconoscibili seppur in misura diversa in contesti agli antipodi, come nell’efferatezza del mondo dell’architettura resa nella pretesa superiorità sociale tra rancori e invidie con allusioni a privilegi che annullano i meriti, da parte di figure che a vario titolo sono pronte a giustificare i propri fallimenti professionali “col determinismo di una pretesa subalternità sociale”, o con “l’ipocrita rivendicazione di un primato morale”. Attraverso riferimenti a Gilles Clément e altri esponenti del pensiero, le ricorrenti riflessioni sull’architettura diventano nel romanzo anche una potente metafora della società del presente, a partire dagli interrogativi sul rapporto col potere, e sulle nuove frontiere dell’architettura critica.

L’opera si regge sul dialogo impossibile tra scenari che incarnano lo spazio e il tempo, attraverso deformazioni visionarie su città padrone e città schiave e abbacinanti utopie urbane, che evocano squilibri nuovi e irrisolvibili su fondamenti immateriali.

Il romanzo attesta la tendenza a disimparare lo stupore, sviluppata in individui centrati sul proprio dramma personale al punto tale da mostrarsi incapaci di gestirlo: Emanuele pensa più a uscire pulito da una vicenda dai contorni oscuri piuttosto che fare realmente luce su un’inchiesta per cui è stato chiesto il suo intervento; Maurizio  si trincera dietro finti tentativi di riconciliazione famigliare per non confrontarsi con le ripercussioni di scelte dettate unicamente dai suoi interessi, indifferente e irritato dalle frustrazioni di sua moglie e dalla solitudine della maternità che la attanaglia, sentimenti amplificati per contrasto da una deviata idea di benessere, dove un eden personale può trasformarsi ben presto “nell’averno del disfacimento familiare”.

I soggetti narrati da D’Angelo si rivelano assuefatti alla frenesia che si sono costruiti per evitare di osservare le proprie macerie, disposti semmai a farsi soggiogare da rassicuranti finzioni utili a nutrire speranze artefatte. L’opera è un’indagine sulle conseguenze dell’isolamento narcisistico dell’uomo, sulla strumentalizzazione dell’altro in un contesto di concorrenza universale che, per tornare agli assunti di  Byung-Chul Han, distruggono il clima di gratificazione e annullano uno sguardo necessario per ottenere una razione di approvazione e legittimazione, un’illusione di importanza. In tale ottica prende forma anche il tema del doppio, che nell’opera ottenebra la concreta visione dell’altro nell’adesione a un modello irreale, e che riguarda il soggetto stesso, nella sensazione di possedere un altro sé, corrotto e avvelenato in modo irreversibile.

Ogni figura esplorata da D’Angelo si mostra accecata da un interesse, che si tratti di padri che attestano il proprio controllo sui figli pilotandone le scelte professionali o personali, madri accentratrici, sante bevitrici, o adulti che scelgono di ristagnare nell’eterna condizione di figli per sgravarsi da responsabilità professionali e personali, cercando vane vie di espiazione attraverso una paternità schizofrenica.

Contraddittori e irregolari, i soggetti di D’Angelo perseguono ideali di cui non hanno piena contezza, pervasi da suggestioni passeggere o mossi da convinzioni sulle quali non si sono mai del tutto interrogati, frutto di una ribellione a modelli famigliari o di un fugace slancio giovanile. La vaga ricerca di un altrove è riconoscibile anche nell’indagine fisica che prende forma tra le pagine, nelle ricognizioni urbane, nelle fughe vuote, nelle espiazioni con attenzioni paterne o con intermittente impegno umanitario, nella percezione di una “predestinazione all’assurdo” nell’involontaria “vocazione alla farsa”, nella concezione di una dimensione sessuale come annichilimento di sé, “rinuncia a ogni identità, a ogni principio, a ogni convinzione”, che illumina la tristezza di un presente relazionale statico, ordinario, retto una commedia dai ruoli prestabiliti.

Anche la scelta di raffigurare la violenza assume una valenza precisa nell’opera, si allinea a un’idea di sacrificio derivante dalla riproposizione di dinamiche di potere travestite da aiuto che Byung-Chul Han ritiene prodotte dalla società della prestazione, dove un soggetto formalmente libero è preda di se stesso e delle pulsioni che ha fatto proprie finendo per caratterizzarlo. Sono le sparute manifestazioni dell’angoscia risvegliata da pretesti apparentemente irrilevanti ad annunciare l’incombere dell’inesorabile in quel nulla filosoficamente legato all’idea di soglia. Le figure erranti del romanzo vivono nel presagio oscuro della morte intesa come fine di ogni anelito, e attendono inconsciamente di consumare un rito salvifico per compiere un passaggio necessario basato simbolicamente su morte e rinascita. Con Le città e i giorni Filippo D’Angelo consegna una riflessione su una tragedia senza speranza né disperazione, un elogio del vuoto, attraverso la raffigurazione dell’“alienazione dell’espatriato” e del controesilio che attestano l’ideale impossibilità del ritorno.

 

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