L’elogio della spregiudicatezza cromofila. “Bluets”, il manifesto lirico di Maggie Nelson

“Mentre collezionavo azzurri per questo progetto – in raccoglitori, scatole, quaderni, ricordi – immaginavo di creare un tomo, un compendio enciclopedico di osservazioni, pensieri e fatti blu. Ma dispiegando la mia collezione, adesso, mi colpisce soprattutto la sua anemia – un’anemia che sembra direttamente proporzionale al mio entusiasmo. Pensavo di aver raccolto abbastanza blu da costruirci una montagna, seppur composta di scarti. Ma ora mi sembra di essere inciampata su uno strato sottile di gelatina azzurra sparsa su un palco in cui lo spettacolo è arrivato e partito da un pezzo; la scenografia, abolita”.

L’atto reiterato di mettere in fila oggetti e collezionarli in base alla percezione delle sfumature ha permesso a Maggie Nelson di maneggiare nel tempo la propria depressione identificando nella scrittura una via per sollevare istanze. Tra analogie e parabole celate in duecentoquaranta frammenti definiti proposizioni, numerati e composti tra il 2003 e il 2006, con Bluets (traduzione di Alessandra Castellazzi, Nottetempo) Nelson compone un saggio lirico sulle ripercussioni del colore nella sua vita: studia un innamoramento divenuto ossessione cercando risposte nella filosofia, nella scienza, nella letteratura, nell’arte figurativa, nella musica, nel cinema.

Nota al pubblico italiano per i volumi Gli Argonauti (vincitore del National Book Critics Circle Award) e Sulla libertà, editi da il Saggiatore, Nelson è divenuta una voce letteraria inconfondibile, che nel muoversi tra narrazione e memoir rende storie private portatrici di esigenze sottaciute. Nell’opera Sulla libertà compie ingrandimenti su un impulso multiforme che analizza nelle espressioni artistiche, nel rapporto dell’individuo con la comunità di cui fa parte, nel sesso, nell’uso di stupefacenti e, in senso più ampio, nello scarto tra la rivendicazione di diritti individuali e la preservazione di beni collettivi e conquiste condivise. Aspetti riconosciuti nell’intera produzione dell’autrice: ne Gli argonauti il caso della sua famiglia queer mostra come una storia d’amore sia oggetto di continui tentativi esterni di allineamento sociale e morale, tra pregiudizi e ipocrisie. L’opera cela una riflessione sul fatto che il “compito dell’amore e del linguaggio” sia “dare allo stesso inflessioni di frasi che saranno per sempre nuove”.

La ricerca formale e l’innovazione letteraria caratterizzano anche Bluets, il cui titolo rimanda al quadro Les Bluets (1973) della pittrice americana espatriata Joan Mitchell – “appassionata cromofila e bevitrice” – tra i più amati dell’autrice, come “tutti i minimi blu” dei quadri di Cézanne o le tele che caratterizzano l’époque bleue di Yves Klein dipinte con una sfumatura blu oltremare inventata e brevettata dall’artista. L’osservazione di queste ultime opere alla Tate Modern di Londra provoca una sensazione di saturazione che avvicina all’oscurità e porta Nelson a interrogarsi sul rapporto tra l’eccessiva chiarezza e la verità, che riguarda anche il concetto di fede nell’originale intuizione di “Divinità Tenebra” del monaco siriano Dionigi l’Aeropagita, una visione alternativa rispetto alla definizione di Dio come verità e luce (Giovanni 1,5), perché contempla nell’eccessiva luminosità un difetto di percezione, “un’accecante oscurità”. Sulla base di tale metafora Nelson si muove tra supposizioni su “qualità esperienziali” e illusioni sistematiche del colore associandole all’amore, per provare a lambire i propri vuoti nell’ipotesi del sopravvento del dolore nella percezione del reale.

Che si tratti di una sofferenza esistenziale per l’elaborazione di una perdita nel tentativo di vivere con dignità la solitudine, o fisica (come accaduto all’amica affetta da quadriplegia e lesioni alla spina dorsale), la cura si rivela nel patimento. Nell’interrogarsi su come rapportarsi a un affanno – “Ho provato ad abbandonarmi a peso morto al mio crepacuore, come un amico mi ha confessato di fare con la propria ansia” –, Nelson riflette sul confine tra determinazione e abbandono della volontà, accettazione e resa. In tale solco l’esplorazione estetica trova nel frammento la misura esatta per sezionare, condensare e mischiare continuamente le parti, e lasciare a chi legge segmenti sparsi sull’amore, la morte, il dolore, la malattia, l’abbandono, la dipendenza emotiva, la depressione.

Quello che so: incontrandoti, ha avuto inizio un’ondata di blu. Voglio che tu sappia che non te ne attribuisco più la colpa.

A caratterizzare le prose poetiche di Maggie Nelson il continuo ricorso alla seconda persona singolare, che rende l’opera una continua invocazione all’altro, un aspetto riconosciuto a partire dal commiato nel verso finale di un brano di Leonard Cohen che spiega le ragioni della scrittura.

Oserei persino dire che non so comporre in altro modo e, considerando che le cose stanno come stanno, scrivere per me ora è un prisma di solitudine, un esperimento per certi versi nuovo e doloroso.

Una visione in netto contrasto con la teoria di William Gass sul “penetrare l’intimità” e l’ammonimento agli scrittori sulla rinuncia alla sensualità “di questo mondo in favore delle parole con cui la raccontiamo”.

La ricerca di un senso da dare al dolore ricorre nella celebrazione o messa in discussione degli interrogativi di Goethe sulla vivacità priva di gioia dell’azzurro, delle Osservazioni sul colore annotate da Wittgenstein prima di morire, della convinzione platonica della pericolosità del colore definendolo un narcotico come la poesia, dell’intollerabilità dei colori vividi provata da Van Gogh, della nostalgia del saṃsāra, della volontà di non confondere i desideri con gli aneliti condivisa da Joseph Cornell in East of Borneo e da Warhol in Blue Movie.

Le continue insistenze delle note rischiarano i legami tra il colore e il tormento fisico e interiore, e trovano una sintesi nel pensiero di Gertrude Stein espresso nelle poesie in prosa racchiuse in Teneri bottoni. Nell’intento di illuminare il rapporto tra la parola esatta e le cose tangibili, Stein si concentra sui “colori feriti”: “Perché esiste un singolo pezzo di un dato colore. Perché esiste tanta sofferenza inutile”.

Nell’opera il ricorso alla dimensione sessuale ancor prima che esprimere linguaggio della relazione rappresenta anzitutto una personale espressione di libertà, un’affermazione di sé. In rapporto alla sofferenza affettiva, la sua evocazione misura l’intensità di un coinvolgimento emotivo e seziona un senso di tradimento originario, legato a un’incapacità di empatia ridotta a stucchevoli inganni vuoti che sviliscono i propositi dell’azione amorosa, come racconta la delusione provata nell’apprendere che la lettera scritta per l’amato è stata conservata chiusa per mesi.

“Un caldo pomeriggio di inizio primavera, New York. Siamo andati al Chelsea Hotel per scopare. Dopodiché, dalla finestra della nostra stanza, sul tetto dall’altra parte della strada ho visto una cerata blu agitarsi nel vento. Tu dormivi, quindi è rimasto un mio segreto. Era una sbavatura nel quotidiano, una scaglia azzurro vivido nella malsana provvidenza. È stata l’unica volta che sono venuta. Era l’essenza delle nostre vite. Era sconvolgente”.

L’assenza di un ordine cronologico e il ricorso a riferimenti che a distanza di svariate pagine riprendono un concetto e lo confutano rendono il racconto lirico un complesso mosaico che invoca l’incompiutezza e l’imperfezione per calibrare patimenti individuali e collettivi, scorgere un senso di dolente sopraffazione nel Blues, riconoscere una tristezza inestinguibile nei versi di Joni Mitchell nell’album Blue ascoltato guidando nella Valle della Luna, trovare nelle parole di Billie Holiday una vicinanza nella percezione di ottenebramento. L’autrice è affascinata dalle specificità linguistiche – dalla definizione di essere blu che in tedesco indica la condizione di ubriachezza, all’ora blu inglese per riferirsi all’aperitivo, all’identificazione del blu per descrivere la depressione – per trovare conferme su un’associazione cromatica che traduca la disperazione e la speranza.

Tra continui interrogativi sulla “fondamentale impermanenza del tutto” nell’osservazione dei suoi reperti blu ricevuti negli anni, Nelson torna sulle parole di Goethe a proposito degli effetti distruttivi della scrittura, riflette sulla possibilità di “mantenere sempre vivo l’oggetto dinanzi a sé e non ucciderlo con la parola!”. Trova nella scrittura un mezzo per bilanciare due parti di un’equazione. Cosciente dell’inganno insito nella cromia dei ricordi, riconosce nello scrivere un’azione invasiva sulla memoria personale e la associa a un album di fotografie in cui ogni immagine sostituisce il ricordo che intendeva preservare. Allo stesso modo nella scrittura le sovrapposizioni artificiali prodotte da ogni rievocazione più che maneggiare frammenti sparsi portano a creare “nuove tracce”.

L’esplorazione lirica in Bluets riguarda anche il linguaggio, è resa con un’espressività tesa, dirompente, secondo una linea volutamente discontinua nel racconto di una precarietà esistenziale che diventa il prisma attraverso cui osservare la realtà nelle sue deformazioni e che compone, pur nell’irregolarità e atipicità del testo, un ritratto narrativo omogeneo. Scrutare l’incertezza e celebrarla traduce un complesso rapporto col tempo, che cristallizza la furia del passato e definisce l’alterità nel presente: un’esigenza di rottura degli schemi resa attraverso un continuo gioco di intersezioni e dissociazioni tra il soggetto e la realtà intorno.

A rendere innovativa la lingua poetica di Nelson è la capacità di saturarsi di emozioni e apparire al contempo ispida, governata da accostamenti di immagini oniriche e scabrose inserite in una sottile armonia che contempla una visione dell’esistenza in bilico tra drammi, fugaci euforie e rassicuranti sospensioni al dolore grazie al pensiero di un colore.

Bluets è un canto sommesso di dolore e liberazione, un esperimento formale che rivela una ricerca estetica funzionale a dare forma a un disordine non addomesticabile, un manifesto lirico poetico che elogia una solitudine dagli “spasmi di dolore incandescente, un dolore che, se rimane incandescente troppo a lungo, può iniziare a simulare o a suscitare – a te la scelta – un presentimento del divino”.

 

Commenti
Un commento a “L’elogio della spregiudicatezza cromofila. “Bluets”, il manifesto lirico di Maggie Nelson”
  1. Annalisa Sommavilla ha detto:

    Molto interessante.
    Queste righe mi hanno convinta ad acquistare il libro.
    Inizialmente nella versione originale, poi eventualmente sarà interessante anche leggere la versione in italiano.
    Grazie.
    Annalisa

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