La grandezza narrativa di Bernard Malamud

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Questo pezzo è uscito sul Mucchio. (Fonte immagine)

Verso la fine del romanzo di cui è protagonista, Yakov Bok riceve finalmente in cella un avvocato, Julius Ostrovsky. Dice Ostrovsky: “In un paese malato ogni passo verso la guarigione è un insulto per quelli che campano sulla malattia“.

Yakov Bok, ebreo tuttofare sui trent’anni, abbandonato dalla moglie, si è trasferito a Kiev in cerca di fortuna, ma a compiersi è solamente la sua sventura. Soccorre un ubriacone, che per ricompensarlo gli offre un lavoro. Sul cappotto dell’uomo è cucita un’aquila bicipite, il distintivo delle Centurie nere, potente organizzazione antisemita. Bok, oppresso dalla miseria e ansioso di riscatto sociale, fa finta di non vedere, e accetta l’offerta di supervisore in una fabbrica di mattoni. Qualche tempo dopo, a pochi passi dalla fabbrica, in una grotta, viene ritrovato il cadavere mutilato di un ragazzino. “Dalla finestrella della sua stanza sopra la scuderia della fabbrica di mattoni, quella mattina sul presto Yakov Bok vide diverse persone, nei loro cappotti lunghi, che correvano tutte nella stessa direzione. Vey is mir,povero me, pensò a disagio, è successo qualcosa di brutto“: è così che inizia L’uomo di Kiev, il romanzo di Bernard Malamud ispirato alla storia reale di Mendel Bellis, operaio ebreo, accusato, ingiustamente, nella Russia zarista agli sgoccioli (1911), di aver assassinato un ragazzo cristiano a scopi rituali. Vey is mir, la tetra campana che risuona nel romanzo.

Tra i grandi scrittori ebrei americani del Novecento – Saul Bellow, Philip Roth e così via – Malamud, vincitore di due National Book Award e di un Pulitzer, occupa, incredibilmente, la posizione più defilata. Dev’essere perché le sue storie non hanno niente, o quasi, di rassicurante… Spesso i suoi protagonisti sono vittime di un destino disgraziato, da cui non riescono a liberarsi. Questa cosa è detta in modo chiaro nel Commesso, altro romanzo di Malamud, quando lo scrittore si riferisce a uno dei suoi protagonisti – anche lui ebreo: “Era Morris Bober e non poteva avere una sorte migliore“. E nell’Uomo di Kiev: “Yakov aveva paura che in prigione gli sarebbe andata male, e gli andò male fin dal primo momento“.

Ancora, se lo stile di Bellow e Roth risplende di una luce scintillante, una prosa ricca e piena, a volte persino opulenta, lo stile di Malamud è più… misterioso, complicato, difficile da spiegare. Il che è strano, perché Malamud scrive frasi dalla struttura e dal lessico accessibili, senza fronzoli, si direbbe. Gli incipit dei suoi racconti sembrano attacchi di un pezzo di cronaca nera.

Quello che succede dentro L’uomo di Kiev è la quintessenza della misteriosa grandezza narrativa di Bernard Malamud. La disgraziata storia di Yakov Bok si svolge su tre scenari. Il primo è il paese d’origine, nella provincia ucraina, dove vive con la moglie Raisl e il suocero Shmuel, anche loro stretti nella miseria. Il secondo è la Kiev che lo accoglie: città brulicante, portatrice di potenziali occasioni di riscatto, ma anche di pericoli, tra i quartieri Podol e Plossky. Il terzo scenario è il carcere in cui Yakov viene rinchiuso. Prima con altri detenuti, quindi in isolamento. Come evidenzia Alessandro Piperno nella prefazione, il grosso della vicenda si svolge in cella. Bok è solo, con la sua innocenza. Ascolta i tocchi del chiavistello, quando le guardie gli fanno visita per dargli da mangiare, accendergli la stufa, o perquisirlo, o insultarlo e picchiarlo. Tiene il conto dei giorni e delle settimane e dei mesi che passano, con pezzetti di legno o di carta.

Riceve visita dai fantasmi che più lo perseguitano – e grandissimo è Malamud quando tratteggia questi spettri: nell’oscurità della sua cella riceve Zhenia, il ragazzo assassinato, sua moglie, Raisl, il suocero, Shmuel, e la madre di Zhenia, Marfa Golova, e Grubeshov, il procuratore generale – tra i suoi aguzzini, uno dei più determinati – e tutti i detenuti nelle carceri spietate della Russia zarista e persino Nicola II in persona, in un crescendo che parte dal romanzo per sconfinare nel coro sinfonico. A volte, spettri e persone reali si confondono. Yakov Bok legge a voce alta brani della Bibbia, dei salmi e del vangelo, le uniche letture consentite. Cerca un contatto con i suoi carcerieri. E pensa, tantissimo.

Una delle figure che più spesso gli fanno visita, in forma umana o di spettro, è quella del giudice istruttore incaricato di indagare sulla sua vicenda, Bibikiov. Nella costruzione di questo personaggio Malamud dà il meglio di sé. Quando lo incontriamo per la prima volta, “porta un cappello nero in mano e una pelliccia sul braccio“. Ha “una barba scura, un prince-nez e una grossa sciarpa intorno al collo“. Altre volte indossa “un abito di lino spiegazzato e una cravatta di seta bianca, e la faccia pallida in contrasto con la barbetta scura“. Ha una voce “severa“, è tormentato, insomma ha il portamento, l’eleganza e la forza di un eroe tolstojano. Durante un incontro con il detenuto, gli dice: “Ci sono tante cose da fare che esigono tutte le capacità del nostro cuore e della nostra anima, ma da quale cominciare? Forse io comincerò con lei“. E poi: “se la legge non la difende, alla fine non difenderà neanche me”.

Con la sua religione, Yakov ha un rapporto conflittuale. Si sente ebreo, legato al suo popolo da un comune destino, perlopiù infelice, ma mal sopporta le insistenze con cui il suocero, Shmuel, lo invita a confidare nel suo Dio. I suoi genitori, ancora giovani, sono stati ammazzati durante un pogrom, per mano dei cosacchi, un pogrom a cui il piccolo Bok scampò per un soffio. Ma è per colpa degli inganni di un ebreo come lui, il falsario Gronfein, se durante il carcere finisce in isolamento.

Yakov si definisce un “libero pensatore“. Ha letto Spinoza, restando affascinato dal suo pensiero. Il tema del primo colloquio con il giudice istruttore Bibikiov, sorprendentemente per Bok, è proprio la filosofia di Spinoza. Congedandosi da Shmuel, dopo una visita di quest’ultimo in carcere, Yakov è lapidario: “Quando si viene ai fatti, o Dio è una nostra invenzione e non ci si può fare niente, o è una forza della Natura ma non della storia. Una forza non è un padre. È un vento gelato: prova a scaldartici. A dir la verità, per me Dio è un fallimento completo e ci ho messo una pietra sopra“.

Commenti
5 Commenti a “La grandezza narrativa di Bernard Malamud”
  1. Lorena Melis ha detto:

    Questo scritto è una illustrazione che mi ha convinta a saperne di più

  2. michele ha detto:

    molto bello.

  3. FIORELLA ha detto:

    GRANDE LIBRO IN CUI SI FONDONO LA STORIA “GRANDE” E L’UMANITA’ SOFFERTA DELL’EBREO SOTTOPOSTO ALLE INGIUSTIZIE DEL SISTEMA.

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  1. […] Liborio Conca La grandezza narrativa di Bernard Malamud […]

  2. […] Yakov Bok è ormai rinchiuso in un carcere zarista da un paio di anni, accusato di omicidio rituale e in attesa di processo e nelle più terribili condizioni che si possano immaginare. Verso la fine riceve la visita della moglie Raisl, fuggita dallo shtetl in quanto sterile e per questo sessualmente abbandonata da suo marito (la sua fuga, tra l’altro, è causa della sfortunatissima fuga di Yakov stesso verso Kiev), la quale gli comunica durante il colloquio una cosa importantissima, stanti le condizioni di assoluta privazione del prigioniero: “‘Ti ho portato un po’ di challah, del formaggio e una mela, ma mi hanno fatto lasciare il pacchetto nell’ufficio del direttore’, disse Raisl. “Non dimenticarti di chiederlo.'” Dopodiché della challah, del formaggio e della mela non si fa più parola. […]



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