«Sono nata, ormai, da così tanto tempo che ho avuto modo di abituarmici». Su Giorno di vacanza di Inès Cagnati

di Andrea Salvatore

L’abisso affacciato sul nulla temporaneo che perimetra un giorno di vacanza è, salvo casi molto più fausti o molto più infelici della media condizione umana, esperienza solidalmente condivisa, foss’anche in un’unica occasione. In situazioni di particolare sadismo, vai a sapere se o fino a che punto involontario, la vittima può arrivare a conoscere la ricattatoria e straordinariamente pressante sollecitazione di un ultimativo “Divèrtiti!”, imperativo morale tanto crudelmente categorico e tanto categoricamente inattuabile, quantomeno nella sua pienezza, da rivelarsi il più delle volte un amorevole anatema (con gli effetti, sia chiaro, di ogni indistanziabile maleficio). Né il consolante mezzo gaudio, certo sopravvalutato in generale ma in altre circostanze pur discretamente lenitivo, riverbera altro se non la quietistica agnizione di un’ineludibile nebbia esistenziale, ché mai si darà quel contrappasso verso alcuno la cui miseranda prefigurazione è comunque, della medietà gaudente, non negoziabile condizione di godibilità. Chi si trovi a dover affrontare un giorno di vacanza, insomma, sappia di non potersi aspettare consolazione altra di quella approntata dal Seneca più deflattivo: essere grati al destino per tutti i giorni in cui siamo stati occupati, e di ciò saviamente contentarsi. Del resto, Ducunt volentem fata, nolentem trahunt, e peraltro – non si vorrebbe infierire oltre, ma la verità anzitutto – nei giorni in questione anche il trascinamento appare (o comunque viene percepito) come più lento, e ogni secondo sgoccia, dice il poeta.

Del tristo destino qui in questione offre una prodigiosa variatio l’entomologia esattissima di Inès Cagnati, in Le Jour de congé, tradotto con altrettanta esattezza da Lorenza Di Lella e Francesca Scala per i tipi di Adelphi. Non per stanco manierismo si cita il titolo originale (reso, giocoforza, con Giorno di vacanza), quanto perché quel “congedo” indica qualcosa di più dello spettro semantico che ricomprende permessi di lavoro e cessazioni dal servizio – forse un distacco, forse finanche un commiato; ma questo lo stabilirà, in caso, chi si avventuri nelle centoquaranta pagine che raccontano, in una mai disunita prima persona, il giorno di riposo di Galla, i cui preadolescenziali pomeriggi del venerdì vengono impiegati, per buone quatto ore, nel percorrere in bicicletta i trentacinque chilometri che separano il liceo dove svogliatamente studia dalla casa dei genitori e delle troppe sorelle, un’inospitale dimora di campagna conficcata in un’inospitale campagna, visitata saltuariamente da zie nerovestite, «una schiera di ceri a lutto» (p. 60). Un venerdì sì e uno no, Galla, finita la scuola, torna a passare il fine settimana in famiglia. Un venerdì sì e uno no, Galla spera di essere accolta come una figlia. Tutti i venerdì, e anzi tutti i giorni, senza eccezione, Galla vorrebbe nascere – e, se proprio non è possibile, almeno rinascere – in paesi più assolati, in case più calde, su terreni meno fangosi, solcati da biciclette meno periclitanti e meno arrugginite.

Questo venerdì Galla parte dal liceo appena finita la scuola, inforca la bicicletta e percorre tutti i trentacinque chilometri che la separano da casa. Piove, ovviamente, e c’è fango. Arrivata a casa, lascia la bicicletta lungo il fienile. Daisy, l’amata cagnetta, l’unica buona madre della storia, abbaia non appena la vede arrivare. Il tempo di salutarla e si affaccia alla porta il padre di Galla, richiamato dai festanti versi della cagna di famiglia. Il tempo di accorgersi della presenza della figlia e di lanciarle un poco appellabile “Vattene!”, subito ribadito per certificarne l’assoluta inappellabilità, e Galla si ritrova fuori di casa (non è la prima volta), con una madre troppo debole per correre in suo soccorso (e non taceremo certo le abitudini manesche del di lei marito, equamente somministrate alle varie componenti della famiglia). Resta l’altra madre, si diceva: Daisy si offre di condividere il suo covaticcio giaciglio con Galla, che tra molti pensieri e un numero di fantasie congruo per sopportare la notte, arriva all’alba del giorno dopo. La aspettano una giornata in famiglia, o almeno così spera, e altre due settimane in collegio, prima della successiva sessione di chilometri in bicicletta e di speranze appiedata. Lo scoprirà, se ne ha voglia, il lettore.

Esapodi a parte, l’entomologia di Cagnati di cui si diceva si estende dai quadrupedi ai bipedi (umani e non) fino agli artropodi, in una campagna in cui ogni animale (generalmente umano) uccide ogni altro animale (generalmente non umano), in una catena ininterrotta di fatalismo necroforo, che finisce per trovare un senso e un posto nel mondo anche alla condizione di larvata infelicità di Galla (il romanzo è cadenzato da un formulare “È così” protrettico-constatativo). L’essenziale paratassi di Cagnati – mai corriva, mai retorica, mai a effetto – restituisce una protagonista che dell’affaccio all’adolescenza conserva tutti i chiaroscuri, senza risolverli in artefatti contrasti, men che meno in men che dubbi contorni morali. Galla nutre un malcelato odio, al meglio una cinica insofferenza, verso tutti, tranne Fanny, l’impeccabile e adorata compagna di banco (bella, bionda, composta, diligente, aggraziata, felice, sempre preparata e a suo agio, senz’altro nata al sole), Daisy, la pur maltrattata cagna di famiglia, e – ma qui le cose si complicano, senza dover necessariamente discendere in cripte psicanalitiche – la madre; per le sorelle, tutte più giovani, prova tra la pena e la pietà, Maria a parte, cui è riservato il medesimo odio che Galla perlopiù nutre per il circostante. Galla non piange e non ride, non si dispera e solo temporaneamente spera, al fondo non crede che le cose cambieranno e, altrettanto al fondo, non se ne fa un particolare cruccio. Sa che la vita è questa, la sua almeno; ma è appunto la sua che si trova a vivere e Cagnati a rendicontare.

Non c’è dunque spazio per ideali e idealità, debitamente impallinati per tutti i capitoli del romanzo: «Le mie compagne hanno osservato che si può morire per il proprio paese, per chi soffre la fame, per gli oppressi e altre fandonie del genere» (p. 109) – memorabile, in questo senso, il controcanto all’infiorata oblazione di Ofelia, invaghita più delle ninfee in boccio, e di una morte tanto scenograficamente inghirlandata, che dei dubbi appassiti di Amleto. Men che meno c’è spazio per colpe e redenzioni: così le cose sono andate e così, con ogni probabilità, continueranno ad andare. Quasi ovvio, a questo punto, che meglio sarebbe stato non essere mai nate, pensa Galla nel solcare la fanghiglia dei ruvidi costoni dei monti attorno a casa, ma tant’è: «A volte mi dico che sarebbe stato meglio non avere nessun genitore, da nessuna parte, e che nessun genitore mi avesse come figlia. Perché, se ci rifletto a mente fredda, devo riconoscere che non mi sarebbe piaciuto per niente essere mia madre. Per niente. Non che io sia cattiva o altro, almeno non credo. Ma comunque, non mi sarebbe piaciuto per niente avermi come figlia. Perciò capisco che nessuno mi volesse, quando sono nata. Io stessa avrei preferito non nascere. È così triste tutta la mia vita, ed essere me. È talmente triste che avrei preferito non nascere e che fossero tutti contenti. Non posso dire di avercela con i miei genitori o con me stessa, no. Sono nata, ormai, da così tanto tempo che ho avuto modo di abituarmici. E poi ci sono un sacco di persone che sono nate così, per un caso sventurato. Penso che, se sulla terra ci fosse soltanto chi è stato desiderato, la terra sarebbe quasi deserta. Chissà» (pp. 31-32).

Da ogni potenziale sommovimento è bene, al postutto, tenersi alla larga: «Io non amerò mai nessuno perché nessuno mi amerà mai. Meglio così» (p. 109). Pedalata dopo pedalata, l’altrove si fa sempre più incerto, fino a ridursi a uno stato mentale dal miserevole potenziale immaginativo (redentivo, neanche a parlarne): «Da sola, ho paura perché non so mai se è buio perché sono diventata cieca o se è buio perché è buio» (p. 15). La campagna, il circostante, lo spazio di esistenza non antropico, si riducono così a contenzione, non già contenitore, dei meditabondi pensieri di Galla, che con essi passa il tempo per assenza di alternative, non già per predilezione. La fuga panica – in un romanzo che per paradosso di disperante non ha nulla, se non l’evidente difficoltà di addivenire una volta per tutte a una definitiva atarassia, tomba delle illusioni, certo, ma al contempo dell’illusorietà delle illusioni – è anch’essa alterazione di un ineluttabile votata allo scacco: «A volte da noi cielo, terra e alberi si confondono. Non si distinguono. Gli uccelli impazziti gridano, si perdono e annegano» (p. 146). Qualsiasi abitante della terra, specie odierna, deve insomma alla cristallina prosa di Cagnati la figura vera, autentica, antiretorica di una protagonista che di quella stessa terra ha le asperità, le corruzioni e, con ogni probabilità, il destino seraficamente segnato.

Commenti
Un commento a “«Sono nata, ormai, da così tanto tempo che ho avuto modo di abituarmici». Su Giorno di vacanza di Inès Cagnati”
  1. Luigi ha detto:

    Al postutto… gran pezzo!

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