Tra fantastico e verosimile: su “Il nuovo fiume” di Eva Meijer

La minaccia che incombe su Koraalboom è il nuovo fiume, sgorgato all’improvviso da un buco nel terreno che cambia di continuo il suo corso e invade le terre dei contadini. Colpisce i campi di un imprenditore locale amante di Byron e Keats, pioniere nel settore della coltivazione della soia, divenuta negli anni la maggiore industria legale del paese. Sul fenomeno del fiume indaga il dipartimento di Scienze della terra e Gestione del suolo dell’Università di Sint-Frank. I geologi parlano di frattura, la gente del villaggio di maledizione degli antenati che vendicano la terra tradita. L’immaginario villaggio del Sud America alla fine del fiume ha perso la memoria dei suoi riti propiziatori, dei miti, dei racconti popolari, e ha permesso lo sfruttamento dei terreni subendo le ingerenze di un potere occulto che continua a controllare il paese anche dopo la caduta del regime e l’insediamento di un governo democratico. Il fenomeno del nuovo fiume richiama l’interesse di una giornalista inviata da The Guardian per realizzare un reportage, che intuirà ben presto la complessità della situazione, scoprendo la morte dell’imprenditore, trovato impiccato a testa in giù, nudo, dopo essere stato strangolato. La vicenda scuote una comunità omertosa e incapace di una reale ribellione, segnata dagli espropri per la coltivazione di cocaina e governata da una sindaca ambigua e distante dai problemi degli abitanti, che in passato sognava il cambiamento, lo rappresentava nei suoi arazzi e lo invocava nel perseguire la causa pacifista e ecologista. Numerosi enigmi costellano la vicenda, dal presunto coinvolgimento di un movimento di attivisti che poche settimane prima dell’omicidio aveva indetto una protesta contro le monocolture, al succedersi di fatti inspiegabili legati a libri scomparsi e a drammi che si susseguono, preconizzati da un’adolescente dotata di una visione sensibile che travalica il noto, in grado di registrare il colore dell’ambiente che la circonda e di riconoscere nella distanza tra gli individui un segno di assenza. Con Il nuovo fiume, Eva Meijer compone un romanzo dai toni del thriller improntato sulla denuncia dello sfruttamento ambientale immaginando esiti devastanti in terre già segnate da coltivazioni intensive, per riflettere sul cambiamento climatico, sui limiti delle soluzioni scientifiche, sull’influenza politica nelle scelte del singolo e sulla rassegnazione collettiva nell’accettare fatalmente un’imposizione.

Filosofa, saggista, ricercatrice universitaria, Eva Meijer da anni è a capo di organismi dedicati alla Filosofia ambientale e agli Animal studies. È nota in Italia per il saggio sui codici comunicativi Linguaggi animali (trad. Stefano Musilli, nottetempo, 2021), e per il romanzo Il cottage degli uccelli (trad. Stefano Musilli, nottetempo, 2022), incentrato sulla vicenda della naturalista inglese Len Howard. Nelle sue opere, Meijer è interessata a immortalare le basi per il cambiamento nella graduale identificazione dell’essere umano con le forze naturali. Ne Il nuovo fiume il vincolo della terra e il peso degli avvenimenti manifestano l’impossibilità del singolo di emanciparsi dal groviglio di ricordi collettivi e miti. La prospettiva adottata sottende a un continuo rimando storico e sociale per scorgere in un luogo d’invenzione nel Sud America il simbolo di un’immobilità deleteria, che inibisce una reale rivoluzione. Attraverso un fitto intrico di eventi che coinvolgono una giornalista, un poliziotto e sua figlia, un geologo, una madre che trascorre la vita a lavorare a una casa delle bambole che rappresenta l’ideale infranto della sua famiglia incompiuta e monca, un attivista e un enigmatico bibliotecario custode di verità indicibili, Meijer analizza il modo in cui ogni personaggio si relaziona alla perdita, nella vana compensazione di un lutto, di una frustrazione professionale, di una crisi, per interrogarsi sulla labilità delle relazioni e sulla superbia dell’essere umano, sul ricatto dell’illusione, sull’estraneità al presente, sull’indifferenza, sulla miseria individualista che contribuisce a sfaldare un bene comune. Sulla pagina il fiume diventa un’emergenza reale e al contempo il simbolo di una trasfigurazione.

La prosa di Meijer sovrappone il fantastico al verosimile nel tratteggiare una comunità anzitutto a partire da un immaginario alimentato da stratificazioni di emblemi sacri, truci rituali della tradizione, miti, cerchi della vita nascosti in un arazzo, sacrifici di bambini, leggende sui cactus del carbone, sortilegi, cerimonie di purificazione dentro tende che diventano porte per mondi nuovi. Si innestano così sulla vicenda principale le leggende di Chaltihutali, la dea dei fiumi, Maia, l’agente del cambiamento, Odino, il dio norreno che si sacrifica a sé stesso in cambio della saggezza, Blado, il custode del regno della primavera infinita, Oremop, l’anima scura dalle fattezze di un nano che protegge gli uccelli della foresta. Le insistenze descrittive si alternano a appunti, pagine di diario, riflessioni che attribuiscono un senso nuovo al succedersi degli eventi. Risultano rivelatrici le prose poetiche composte dall’imprenditore ucciso, illuminano il dramma secondo una cromia dei ricordi che scruta l’eredità del passato nel presente e cadenza l’incedere del tragico.

Il marrone è il colore del cuoio, della riva del fiume, del rumore degli applausi e delle nacchere. Il blu è l’ora alla fine dei pomeriggi d’inverno, racconta l’esaurimento di un amore: è il colore della porta di casa per tenere lontani gli spiriti maligni e le mosche. L’argento è la luna. Il bianco è la morte, assomma le credenze degli aborigeni sul tempo del sogno e la preparazione alla fine. Il nero è il male, sono le unghie sporche di chi scava il terreno, “profondità sottomarine, buchi, fini in generale, la danza nera!”. Il nero cattura i colori risucchiandoli in un vortice, il bianco li restituisce a chi guarda. E se l’argento è amare, l’oro è ridere, la storia di un innamoramento simile al “rivoltarsi della pelle”. Il verde è la giustizia per l’albero. Le anse liriche palesano le incoerenze e nascondono premonizioni, compongono una tetra sinfonia del dramma tra immagini di morte, amore, fine, suggestioni dissolte, sovrapposizioni di incubo e veglia che sollevano istanze e invocano risposte nuove: trovano nel nero la chiave dell’enigma, inteso come ciò che rimane nascosto, come “una presenza che si spaccia per assenza”, in una terra spietata che “ingoia tutte le note, tutta la luce”. Solo la ragazza col serpente tatuato saprà cogliere il senso celato nei frammenti sparsi, nei versi ricuciti insieme per dare forma al disegno nuovo di chi scorge nella lingua il legame tra i morti e i vivi e che trova in essa lo spazio dove contenere storie familiari, il rapporto tra il passato, il presente e il futuro, “pensieri/ vezzeggiativi/ le stagioni/ emozioni/ modi di descrivere il cielo”, il legame con gli antenati, quel che si può preservare e quel che non si può dire. L’allestimento del paesaggio urbano e naturale assegna un’aura grottesca alla peculiare architettura del capoluogo dalle case con porte e finestre senza angoli, ai cactus dalle sembianze umane, alle lucertole dello stesso colore della rena, alla biblioteca che si rivela un universo in cui i racconti finiscono per riscrivere gli eventi, alle infinite distese di sabbia e soia. Sono i luoghi ormai trasfigurati come l’antico bosco sacro dove in passato si offrivano doni agli dèi a comporre un imponente preambolo al tragico.

Attraverso i suoi personaggi, l’autrice indaga una verità che si mostra dinamica, procede per graduali svelamenti che rischiarano gli aspetti oscuri di un territorio vessato dal potere. I continui ingrandimenti su vicende opache raccontano cosa si cela dietro la minaccia di un esproprio nel dover coltivare piante illegali per estrema povertà o per paura di essere uccisi. Aleggia, tra gli altri, il dubbio che attanaglia una delle figure centrali del romanzo, che si interroga sul modo in cui affrontare la discrepanza tra sé stessi e il mondo intorno. Le riflessioni sullo scorrere del tempo sovrastano l’evolversi delle vicende, interrogativi nati a partire dall’osservazione dei cambiamenti del corpo altrui che si estendono all’aspetto esteriore assunto dal mondo, ai processi della natura, all’espressione nel suolo, al senso della vita nella fine, al dissolvimento di un ideale, di un affetto. L’indagine sulla perdita ricerca il significato dell’impossibilità del ritorno, il senso di tradimento nell’abbandono. “Spesso tornare è andarsene di nuovo”. Riporta alla dimensione acquatica, collegata all’apparente sospensione onirica, alla vaga inquietudine nel sogno di una luce bassa e ovale come presagio dell’inesorabile. Con Il nuovo fiume Eva Meijer consegna una riflessione sul peso del compromesso di fronte all’illusione di progresso quando l’anomalia rappresenta la conseguenza di un generale disfacimento in una visione che non contempla alcuna distanza tra gli dèi e la terra. Risiede nella frattura il messaggio di un’opera dalla valenza politica che identifica nella letteratura lo spazio per misurare l’urgenza reale di un cambiamento necessario e provare a innescarlo.

 

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