“Uccidi quei mostri”: Jeff Jackson e l’ultimo romanzo rock

L’8 dicembre 1980 un ragazzo sui venticinque anni di nome Mark David Chapman, descritto negli anni a venire come introverso, se ne stava davanti a un grande palazzo di Manhattan noto come Dakota Building. Aveva con sé una copia del romanzo più celebre di J.D. Salinger, The Catcher in the Rye. Verso sera scorge un uomo e una donna rincasare e spara al primo. I just shot John Lennon, ho appena sparato a John Lennon, dirà il ragazzo ai primi soccorritori accorsi sul posto. È l’omicidio più noto nella storia del rock – del resto era stato proprio Lennon a sentenziare come i Beatles fossero più famosi di Gesù Cristo – e non è l’unico episodio cruento nella galleria altrimenti gioiosa e liberatoria di questo genere. In tempi più recenti, con contorni completamente differenti, basta ricordare il terribile massacro al Bataclan di Parigi durante il concerto degli Eagles of Death Metal.

Uccidi quei mostri – l’ultimo romanzo rock, dell’americano Jeff Jackson (uscito in Italia con SEM, la traduzione è di Seba Pezzani), è pura fiction, per fortuna; ma il motore della storia è costituito da un’ondata di violenza omicida che si scatena verso una nutrita schiera di cantanti e band, con motivazioni alquanto misteriose (come in fondo è ancora incomprensibile, del resto, capire cosa sia scattato quarant’anni fa nella mente di un Mark David Chapman).

Detto in maniera più diretta, c’è un gruppo di assalitori che si materializza durante i concerti per fare fuoco sui musicisti. A guidarci nella narrazione fitta e oscura – in cui minaccia e tensione sono palpabili a ogni pagina – è Xenie, una ragazza ventenne dall’aspetto goth, assieme a Florian e Shaun, aspiranti musicisti.

Jackson ci precipita immediatamente nel vivo, nell’atmosfera pulsante di locali alternativi, club punk buoni per piccole formazioni sperimentali, con questa minaccia di morte che si allarga con maggiore insistenza tra Florida, Ohio, New York («Quando Xenie ripenserà al concerto, rivedrà sempre l’ingresso della band, il pubblico ammutolito, l’atmosfera carica di aspettative. Rimpiangerà di non essere rimasta bloccata in quell’istante di possibilità sfrenate, i sensi esasperati, ferma sulla cuspide della vibrazione distorta della prima nota»). Per una curiosa coincidenza – considerando che Uccidi quei mostri è stato scritto nel 2018 – l’esplosione omicida è chiamata nel libro “epidemia”, anche se in questo caso il virus non è da intendersi come un micro-organismo, bensì come un’entità teorica, tutta da decifrare.

Il romanzo è intessuto per frammenti brevi o più lunghi che si sovrappongono, affilando un vortice che può risultare caotico proprio alla maniera di una sessione di ascolti immersivi nella musica hardcore; da questo punto di vista, il gioco di rimando tra letteratura e rock è rafforzato anche dalla struttura “fisica” del libro – composto da un Lato A e da un Lato B, esattamente come accade con i vinili – o da certi passaggi che sembrano ricordare il refrain di un brano («L’assassino dal soprabito nero e dall’arma semiautomatica. L’assassino con i capelli rasta e lo zaino pieno di esplosivo. I tre assassini con i passamontagna bianchi»). In questo, Uccidi quei mostri è un romanzo ibrido, sfaccettato, non di facile accesso – per quanto la sintassi di Jackson risulti scorrevole e ritmata.

Mentre la narrazione procede per strappi, lasciandosi andare tanto ad accurate descrizioni del lato più decadente del rock quanto alla sua dimensione più cool – l’estetica, le acconciature, il pulsare dei suoni e la carica sessuale contenuta nella musica – il mistero sulle cause originali dell’epidemia di violenza resta tale. Ed è questo l’effetto più straniante volutamente ricercato e ottenuto da Jackson con la sua poetica postmoderna che guarda da qualche parte il Don DeLillo di Great Jones Street – che non a caso ha descritto Uccidi quei mostri come “un ottimo lavoro”, e detto da DeLillo è decisamente un po’ di più che un buffetto sulla guancia – e altrove il citazionismo oscuro di Thomas Pynchon.

Scorrendo il filo della storia con Xenie e Florian e sistemando la puntina del giradischi sul Lato B, infine, ci accorgiamo di quanto dietro la cortina di spari e assalti si nasconda qualcosa di più profondo e filosofico, un ragionamento che riguarda l’autenticità – e la sua perdita, perché tutto finisce – il disfacimento di un’epica in favore di repliche sciatte e sbiadite: e se è vero che il mistero è parte integrante della musica, allora Uccidi quei mostri rispetta pienamente l’oggetto della sua narrazione, assumendo le sembianze di un omaggio – seppure inquieto, inusuale.

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