Una bella linea alla voce Amore – un racconto di Sarah Spinazzola

 

di Sarah Spinazzola

 

«E tu chi sei stato?»
«All’inizio ricordo che avevo paura di tutto. Mi dicevo: e se sbaglio? Poi durante l’apprendistato ho capito che mi piaceva disegnare, soprattutto dipingere. Però allo stesso tempo amavo, come dire, amavo stare a guardare e fare foto. E così dopo poco ero diventato un fotografo. Grazie a un settimanale riuscii a partire per una spedizione in giro per il mondo. Avevo fatto molti reportage. Quando li ho portati in redazione pareva che piacessero. Li ho contattati più volte ma il settimanale alla fine non me li ha pubblicati. E così mi sono ritrovato con tantissimo materiale e senza un soldo. È stato lì che ho tirato fuori la mia voglia di dipingere: ho trovato un vecchio scantinato abbandonato, l’ho dipinto tutto di bianco e ci ho messo in mostra il mio lavoro. All’inizio non veniva nessuno. Stavo in strada con tanto di volantini in mano a pubblicizzare la mia mostra. Un bambino, allontanandosi con la mamma, aveva appallottolato la carta e si era messo a dargli dei calci. Lo avrei rincorso volentieri e ficcato quella pallina in bocca. Ho tirato avanti una settimana coi volantini poi ho mollato. Ho abbandonato sia lo scantinato che le foto. Prima di andarmene ho lasciato scritto sul muro a caratteri cubitali il mio numero di riconoscimento nell’#mdp, così se qualcuno avesse trovato interessante il mio lavoro avrebbe potuto ritracciarmi. Non mi cercò nessuno per mesi. Anche se, come sai, quei mesi furono una manciata di ore. Ero fuori dallo scantinato e mi misi a camminare intorno al palazzo da dove ero uscito. A un tratto una macchina che arrivava dalla stessa direzione in cui stavo camminando è andata dritta veloce superandomi. Dalla via traversa ne stava arrivando un’altra. Tre due uno, boom. Un secondo di silenzio e poi il botto. Ho alzato gli occhi. Un clacson iniziò a suonare senza più smettere. Mi avvicinai all’angolo a guardare in fondo alla via. Una via lunga e stretta che correva fino al centro. La via da dove arrivavo io larga e con uno stop. Misi le mani nelle tasche dell’impermeabile. La gente dei negozi là attorno stava uscendo fuori, come le formiche quando si alzano i vasi. In quel momento una ragazzina si mise di fianco a me. La guardai. “Come ci si sente ad essere così alti?” mi chiese. “Soli”, gli risposi. “Ho capito”, fece lei e continuò dritto sul suo monopattino fino a che non diventò un puntino piccolissimo e sparì. E lì io decisi, come posso dire, di ricominciare da capo. In fondo cosa avevo da perdere? Tanto nell’#mdp, questo bel mondo dei possibili in cui si può vivere tutto e nulla, potevo benissimo permettermi di cancellare ogni cosa e ricominciare con un nuovo apprendistato. Nonostante la delusione, sentivo ancora il bisogno di esprimermi. Nell’esatto momento in cui quel monopattino spariva dai miei occhi capii che avevo sbagliato con la fotografia. Dovevo dipingere. Me n’ero già accorto nel periodo dello scantinato quando tenevo il rullo in mano e stendevo litri e litri di pittura bianca. Dio, era bellissimo. Durante il mio secondo apprendistato, quello in arte e pittura su tela, avevo letto in un libro che Van Gogh dipinse tutti i suoi quadri in sette anni. Se ci ripenso mi gira ancora la testa. All’epoca avevo trentatré anni, e a parte aver imbiancato delle grandi pareti non avevo combinato nulla. E così niente, dopo l’apprendistato presi una casa, una mezza villa in una zona molto tranquilla fuori città, un paesino piccolino, tutto verde. In una delle stanze poggiai un bel cavalletto e la mia prima tela. Avevo la testa vuota. Rimasi per un po’ seduto sullo sgabello a fissare il vuoto con la persiana semi accostata per non far entrare l’afa. Non successe nulla. Ero preoccupato. Una voce dentro di me ogni tanto si svegliava e diceva: aiuto. E se non diceva aiuto diceva: ho paura. Andò avanti un bel po’ tra aiuto e paura e arrivò l’autunno. Le campagne intorno a casa si colorarono di ogni tonalità di rosso, arancione, giallo, oro, castano, marrone scuro, verde militare misto al nero. Santo dio, era incredibile. Mi decisi a non mollare. Non ero mai stato un tipo estroverso, uno che attira l’attenzione e non me la sentivo di piazzarmi col cavalletto in mezzo ai campi per mettermi a dipingere. Ma allo stesso tempo non volevo perdere tutta quella grazia e così fotografai. Passai giorni e giorni con uno zaino in spalla e tutto il necessario per dormire all’aperto: sacco a pelo, utensili per la cucina da campo, avevo anche un pistola spara sonniferi, e un coltello serramanico. Mi ero portato un carica batterie a luce solare per la macchina fotografica. Giravo tutta la zona facendo foto a ogni cosa, cipressi, betulle, aceri e molti altri alberi di cui non ricordo il nome. Un gran silenzio. Giornate di sole col cielo azzurro, di pioggia, di vento e mazzi di foglie che libravano in aria come stormi, nuvole di uccelli in viaggio verso chissà dove. Ho visto un anatroccolo una volta. Attraversava una strada tutto solo. In quelle settimane apprezzavo veramente la vita all’aperto, e anche se non dovevo portare nessun materiale fotografico a nessuna agenzia di stampa internazionale, sentivo che stavo facendo un bel lavoro. Un giorno vidi uno stagno quasi tutto pieno di foglie giallastre e mi sembrò un bel posto dove fermarmi a mangiare. Ero così preso dalla natura dalle rocce e dalla luce e dai colori e dai silenzi che emanavano quei luoghi – che sembravano urlarmi a ogni passo, scegli me! scegli me! e io li sceglievo, sceglievo tutto – che a un tratto mi resi conto che non mi ero ancora fermato a vedere quante foto avevo fatto. Non mi sembrava possibile che dopo mesi passati a girovagare non mi fosse venuto in mente di controllare. Ricordo che avevo appena mangiato una cosa semplicissima ma buonissima come pane e formaggio comprato da un uomo in un casolare poco distante da quello stagno, quando controllai la memoria interna della macchina fotografica. Diecimila, all’incirca. C’era scritto diecimila e quarantatré per l’esattezza. Avevo scattato poco più di diecimila foto, non ci potevo credere. Guardai lo stagno con un mezzo sorriso sulle labbra, lasciandomi cadere all’indietro con le braccia e tutto il busto. Guardai il cielo che filtrava dai rami, mezzi secchi. Presi un bel respiro a pieni polmoni, ed espirai con la bocca. Stavo bene. Saranno state le due del pomeriggio. L’aria era fresca e il sole era ancora alto nel cielo. Mi misi a ridere. Partì come una risatina così, un po’ stupida, trattenuta, come quelle che si fanno a una battuta sentita a cena, e che mantengono il decoro. Poi però quella risata si trasformò. Mi capitò esattamente questo: stavo ridendo come non mi succedeva da non so più quanto tempo. Avevo le lacrime agli occhi, e sdraiato com’ero la saliva mi andò di traverso. Cominciai a tossire. Mi alzai di fretta per cercare la borraccia nello zaino e senza sapere come ci riuscii, la macchina fotografica finì nello stagno».
«Stai scherzando, vero?»
«No, l’avevo spinta col piede. Rimasi immobile davanti a quel tappeto di foglie galleggianti, contemplando qualcosa che in verità mi sembrava inevitabile. Cioè perdere tutto. Di nuovo. Subito dopo mi scrollai e mi piegai sulle ginocchia, ficcai un braccio dentro l’acqua quasi fino alla spalla. Sentivo qualcosa di molliccio sul fondale di quell’acqua putrida, ma come posso dire, non avevo paura. Era insolito per me perché io sono parecchio fifone in materia di acqua, entrare in acqua, nuotare e cose così. Senza dubbio quella roba molliccia che sfioravo con la punta delle dita doveva essere fango e dopo qualche sbilanciamento che quasi ci cadevo dentro, trovai la tracolla della macchina fotografica e la tirai su con tutta la forza d’animo di un pescatore».
«Dimmi che hai provato ad accenderla e funzionava ancora.»
«Non ci ho provato. Ho tirato fuori la scheda della memoria. Era un po’ gocciolante e sporca di terra. L’ho messa al sole ma subito dopo l’ho tolta perché temevo si potesse rovinare ancora di più. Della macchina non m’importava, l’avrei potuta cambiare, il resto no. Iniziai a camminare su e giù intorno allo stagno. Mi sentivo uno stupido, uno stupido completo. Me ne stavo lì tirare calci alle foglie e a maledirmi. Ora tu penserai che sono doppiamente stupido perché quelle foto non erano vere, erano solo delle simulazioni come si dice nell’#mdp. Non avrei mai potuto stamparle nella realtà, e in ogni caso avrei potuto ricominciare da capo e farne altre. Tanto il tempo ce l’avevo, e l’autunno sarebbe ritornato, giusto? Invece mi sembrava di aver sbagliato di nuovo tutto. Senza quelle foto non potevo dipingere, o anche solo pensare di riuscire a venderle a un qualunque settimanale. Mi sentivo finito. Sia la mia carriera di fotografo che quella di pittore erano di nuovo al capolinea. In fondo, non era quello lo scopo delle vite simulate nell’#mdp? Imparare a fare quello che si vuole, diventare con l’esperienza quello che si vuole essere. Già, poteva anche darsi, ma io come potevo evolvere, trovare il mio posto nel mondo se tutti gli sforzi che facevo fallivano?»
«C’è da dire che ormai, per come stanno adesso le cose, conta solo quello che riusciamo ad ottenere nell’#mdp».
«È quello che pensano tutti. Poi però per fortuna qualcosa di buono è successo.»
«Cioè?»
«Te lo dirò solo se mi racconterai di te, voglio prima sapere di te. Chi sei stata?» 
«Non so da dove cominciare.»
«Comincia dall’inizio.»
«Io intanto non ho fatto come te, all’inizio. Non ho pensato alle mie inclinazioni né tanto meno alla possibilità di fallire. Era tutto molto chiaro in me. Io volevo praticamente una cosa, cioè tutto. Volevo realizzarmi in ogni aspetto dell’esistenza: amore, lavoro, casa, famiglia, amici. Solo che non sapevo da dove cominciare e così mi sono interessata alla filosofia. Che cosa c’entrasse davvero la filosofia non lo sapevo, ma da qualche parte dovevo pur partire, ti pare? Ho iniziato con un apprendistato di studi teorici. Ogni giorno mi svegliavo presto, andavo in un’aula con altri due studenti. Il nostro professore, N37U, un tale che aveva più o meno vent’anni più di me, era un uomo interessante, si faceva chiamare in quel modo perché voleva mantenere anonima la sua identità. Aveva un modo di parlare che mi sembrava di capirlo già dallo sguardo. Per farla breve, dopo la prima lezione praticamente lo adoravo. In poco tempo diventai la più brava, ed era tutto grazie a lui, a come parlava. Mi faceva amare tutti i temi che trattava. A volte mi dimenticavo anche di dormire e continuavo a studiare. Praticamente bevevo un sacco di caffè, e mi stiracchiavo ogni tanto con le gambe. Per il male al collo invece non potevo farci nulla. Nonostante fossi lontanissima dal progetto amore, lavoro, casa, famiglia, amici, ero stranamente soddisfatta. Poi un giorno, dopo una delle ultime lezioni del primo anno di apprendistato, N37U o meglio, Enne, come avevo iniziato a chiamarlo io perché eravamo entrati un po’ in confidenza, mi chiese se mi andava di dare un’occhiata a un saggio che stava componendo. Voleva che partecipassi anch’io. C’è mancato poco che gli gettassi le braccia al collo. Ma mi trattenni. Ricordo ancora che ero lì sulle scale con un piede su uno scalino e l’altro giù, appoggiata con la schiena al corrimano. Tenevo i libri in braccio che mi pesavano parecchio mentre lui mi guardava con quei suoi occhi un po’ enigmatici. Ovviamente risposi che avrei partecipato anche se non avevo letto il saggio e non sapevo di cosa parlava. In quel momento capii che praticamente avrei preso parte a qualsiasi cosa mi avesse proposto. Ricevetti il testo quello stesso pomeriggio e la mattina dopo arrivai in aula da lui con il pezzo scritto da me. Glielo portai alla cattedra e me ne andai dove mi sedevo di solito. Guardavo Enne mentre se ne stava con la testa abbassata, gli fissavo quella bellissima ciocca di capelli che ha sulla tempia destra, tutta bianca e grigia. Una ciocca argentata in mezzo ai capelli castani e un po’ rossicci. A un tratto alzò la testa e mi guardò, io mi sentii fuori posto come se da un momento all’altro potesse dirmi, Cosa vuoi da me? Che ci fai ancora qui? Invece non disse niente di tutto ciò. “C’è il duecentesimo anniversario del primo allunaggio”. Poi silenzio. Non sapevo che rispondere e dissi soltanto “Ah”. E lui rimase lì, come in attesa, allora dissi, “L’allunaggio, sì certo”. Mi cadde la penna dal banco. “Ti piacerebbe andarci insieme stasera?” Una cosa l’avevo capita di Enne: non era una persona di troppe parole. Ma neanche troppo poche. Solo quelle giuste. Né troppe né troppo poche. E quasi sempre si aspettava in risposta solo il numero di parole giuste, praticamente quelle adeguate. Percepivo sempre che se avessi sorriso o fatto quella che cadeva dal pero, detto una battuta, azzardato qualche movimento corporeo volontario, ma anche involontario, sarebbe stato di troppo e avrebbe spezzato in qualche modo quello che c’era tra noi. Qualunque cosa ci fosse tra noi. Così, senza pensarci un momento gli risposi di sì, che ci sarei venuta. “Allora a stasera”. Disse solo quello poi tirò su i fogli e uscì dall’aula. Io rimasi seduta al mio posto con un sorriso stampato sulla faccia e la testa che andava velocissima. Come mi trucco? Cosa mi metto stasera? Mi faccio attendere, o arrivo in orario? Non fu difficile. Mi vestii come sempre di nero, e arrivai in anticipo. Quella sera fu l’inizio di un periodo complicato. A un certo punto eravamo seduti in piazza. Il buio intorno a noi e un megaschermo su cui venivano proiettati film girati sulla Luna. Me ne stetti quasi tutto il tempo in silenzio. Non sapevo mai veramente cosa dire. Ogni pensiero che si affacciava alla mia mente veniva vagliato da un meccanismo perverso che finiva sempre con la solita domanda: Vale la pena dire questa cosa? Penserà che sto dicendo qualcosa di stupido? La risposta era quasi sempre sì. Nel dubbio dicevo solo cose essenziali. Poi a un tratto Enne disse, “Andiamo in fondo”. Non avevo capito dove intendesse con in fondo, ma mi alzai e lo seguii spostandomi lentamente tra le file di sedie. In quel momento mi prese la mano per portarmi non so dove. Ma che m’importava. Sentire le nostre mani unite mi sarebbe bastato per mesi. Ci allontanammo dal megaschermo, andammo oltre le ultime file dove c’era un marciapiede. Non riuscivo a stare in me, tremavo. Per un secondo ho anche pensato di mollare tutto e di uscire dall’#mdp, poi non so come ci sono rimasta e ci siamo seduti per terra sul marciapiede. “Così va meglio,” disse. E lì capii che voleva allontanarsi dallo schermo perché eravamo troppo vicini e lui aveva male alla schiena. Mi venne il mal di pancia. Pensavo avesse in mente qualcosa, invece era solo per la schiena, e io chissà perché gli tirai un orecchio».
«Un orecchio, hai detto?»
«Sì, un orecchio, come quando i bambini fanno una marachella e gli si tira un orecchio».
«E perché?»
«Non sapevo cosa dire, ero bloccata. Io sono sempre stata una gran chiacchierona, ma con lui mi sentivo disinnescata. Così gli tirai un orecchio. Mi sembrava la sola cosa che potevo fare. Mi disse di smetterla, che gli davo fastidio. Lo feci di nuovo. Si arrabbiò sul serio. “Dai Enne non ti arrabbiare,” provai a dire, “stavo scherzando”. Non avevo mai scherzato così con lui e non immaginavo che fosse permaloso. In ogni caso ormai il danno era fatto e lui si arrabbiò talmente tanto che si alzò, prese la sua borsa e se ne andò via senza salutare».
«E poi?»
«E poi niente, il giorno dopo vidi che il saggio era stato pubblicato e il mio pezzo non c’era. E infine scoprii che non avevo nemmeno superato l’apprendistato».
«Ma perché? È impossibile. Tutti superano qualunque apprendistato».
«Non lo seppi mai. Provai a cercare Enne in tutto l’#mdp, gli scrissi messaggi, andai nella sua aula, nello studio privato. Praticamente non si faceva trovare. Mi dissero solo che non voleva più essere disturbato. Poi un giorno uno del corso mi portò un biglietto che diceva: “Nessuno può dirmi per cosa mi devo o non mi devo arrabbiare”. E così non lo rividi mai più».
«E poi cosa hai fatto?»
«Niente, presi la mia lista e tirai una bella linea alla voce Amore».

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Sarah Spinazzola è nata a Milano nel 1983. Ha esordito nel 2012 con Il mio regalo sei tu (Marcos y Marcos). Nel 2018 per Rizzoli è uscita la raccolta di racconti per ragazzi Insetto o scherzetto? Del 2019 e 2020 sono Manuale di sopravvivenza senza genitori e Manuale di sopravvivenza alle scuole medie (entrambi Marcos y Marcos). Nel 2021 è uscito per Harper Collins La befana vien di notte 2 – Le origini. Nel settembre 2024 uscirà per Marcos y Marcos  Manuale di sopravvivenza al primo amore.

 

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