«Ogni libro che leggevo era una forma dell’infinito»: Pietro Citati, La ragazza dagli occhi d’oro

Tra le pagine di “La ragazza dagli occhi d’oro” arde la fiamma più vera di chi ama la letteratura: nella deduzione e nella possibilità di scovare i segreti tra le parole delle opere sta uno dei lasciti più preziosi di Citati, il suo metodo, il suo modello di critica letteraria

Autobiografia della nazione

Dal nostro archivio, un pezzo di Francesco Pacifico apparso su minima&moralia il 18 febbraio 2013.

Questo pezzo è uscito su Nuovi Argomenti.

1. Tinello.

“E più tardi, nell’interminabile pomeriggio, che cosa potranno fare, poveretti? Francesca dipingerà: mazzi di rose, tramonti, il ritratto della mamma. Forse suona anche il piano, o ricama, o prega. E Fulco catalogherà pietre, o insetti, o fossili? Si ricorrerà agli animali imbalsamati? Magari, folaghe? Si arriverà addirittura alle conchiglie? Comunque, una giornata lenta, pigra, meridionale, qualunque. (Quella ‘twilight zone’ lavanda e violetta fra il ‘conosci te stesso’, l’autoritratto, e le pippe.)”

Questo fanno le famiglie italiane da sempre: anche qui, nel 1899 caricaturale in cui si svolge (non si svolge, semmai sta fermo) Specchio delle mie brame, epopea di luoghi comuni di Arbasino ‘74. Ottanta anni dopo, nel tinello di mia nonna la domenica a Roma stesso problema di noia – però non si può di fronte ad Arbasino fare indigestioni di madeleines e dire che “90° minuto” risolveva tutto alle sei e dieci del pomeriggio: 1) sia perché lui è contro le riletture melense del passato e di Proust, che costringono ogni cosa a diventare madeleine; 2) sia perché non è vero: “90° minuto” non risolveva niente, la domenica italiana non me la risolveva nessuno, era un trionfo del capitonné e del senso di morte.

Le sottoculture come modello per un futuro di comunità

Questo pezzo è uscito su Che-Fare.

How a culture comes again, it was all here yesterday
And you swear it’s not a trend, doesn’t matter anyway

Nirvana, Aero Zeppelin, 1988

un addio con il rock
la foto di un cuore di carta un cuore fatto con un
manifesto per concerto appallottolato
sarebbe ora di mettersi il cuore in pace
con grande dispiacere di molti siamo di nuovo all’anno zero

Nanni Balestrini, Blackout (1979)

 

I.

Il modello ideale per gestire la “transizione” italiana attuale, per predisporre un immaginario più coerente e funzionale di quello vigente, e soprattutto per far sì che le dimensioni dell’innovazione culturale, politica, sociale, economica finalmente si sostengano a vicenda rimane sempre e comunque quello delle sottoculture: qualcosa che il nostro Paese, non a caso, ha conosciuto a differenza di altri finora in forma unicamente embrionale e subliminale.

Un giorno con Raffaele La Capria

Questo pezzo è uscito sul Foglio, che ringraziamo.

di Salvatore Merlo

“Un tempo era più facile capire, c’era la buona letteratura e c’era la cattiva letteratura. Oggi c’è la falsa buona letteratura. Quasi tutti scrivono bene, qualcuno anche benissimo, ma sono senz’anima. Libri costruiti. Goffredo Parise, il Parise del Sillabario, faceva diventare poetico il senso comune, perché solo la poesia rende un libro animato, vivo”. E quando gli si chiede di fare un esempio di libro artificioso, lui è forse quasi sul punto di citare il suo amico appena scomparso, Umberto Eco (ma non lo fa): “Penso ai libri dei personaggi televisivi, libri che loro si promuovono reciprocamente”.

Umberto Eco, un grande italiano

È mancato ieri sera Umberto Eco, intellettuale e scrittore italiano tra i più noti e apprezzati al mondo. Ripubblichiamo quest’intervista apparsa originariamente sul Venerdì, basata sulla sua esperienza del Gruppo 63.

Un intero scaffale. Nella biblioteca di Umberto Eco – immensa, una Babele affascinante, l’Eden sognato e immaginato da qualsiasi amante dei libri – la letteratura sul Gruppo 63 occupa un bel po’ di spazio. Eppure nessun libro restituisce la risata, piena e fragorosa, dello scrittore quando ricorda quell’esperienza. Questo movimento letterario, definito di neoavanguardia per distinguerlo dalle avanguardie storiche, nasceva ben cinquant’anni fa. Il suo carattere di sperimentazione faceva il paio con le polemiche, incandescenti, che riuscì a innescare. Una su tutte: Carlo Cassola, Vasco Pratolini e Giorgio Bassani, scrittori già noti e consacrati dalla fama e ironicamente bollati come “Liale”, sprezzante richiamo ai romanzetti rosa firmati Liala. Robe da salotti letterari, si dirà. Se non fosse però che alcuni membri del Gruppo 63 saranno destinati a diventare fra i maggiori protagonisti della cultura del Novecento.

Grand Ludwig Hotel

Questo pezzo è uscito sul Foglio.

Je suis Charlie? Mah. Piuttosto, Ich bin Ludwig, dunque via, via dall’Europa reale sanguinolenta delle islamofobie e islamofilie, e invece ecco innocenti evasioni in un’Europa regale e felix, sulle tracce del monarca più scapricciato e keynesiano che il vecchio continente abbia mai prodotto, Ludwig II di Baviera. Si parte col nostro Corano d’elezione, “Fratelli d’Italia” di Alberto Arbasino, in ultima edizione Adelphi con peso da bagaglio a mano, manuale di successo per ragazzi anni Sessanta, e fondamentale Baedeker e Tripadvisor per gite fuori porta.

Eccoci dunque all’aeroporto Strauss di Monaco, dove accoglie un alcolico Riesling Bar intitolato al principe cancelliere Metternich; e poi in autostrada, superando a sinistra l’Allianz Arena, il nuovo stadio della coppia Herzog-De Meuron che sembra un borsone Chanel capottato oppure un copertone di camion rovesciato, come se ne trovano tra i guard rail: seguendo scrupolosamente l’itinerario arbasiniano tra questi famosi castelli di Ludwig (1845-1886), si parte da Herrenchiemsee, una Versailles neanche tanto in miniatura su un lago nerissimo, mai abitata dal re amante del cemento e del laterizio al chiaro di luna; qui, si sale al piccolo villaggio di Prien su un battello Josef con poltroncine e tappezzerie verde tabacco dello stesso colore delle campagne tedesche che si sono attraversate; attraverso vetratine lucidissime del piroscafo, con effetto Hopper, si vedono dentro coppie di anziani con canetti che mangiano piccoli bratwurst e pretzl, seduti su divanetti di chintz rossi decorati a piccole casine e ancorette, tipo Naj Oleari negli anni Ottanta.

Arbasiniana

Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio.

di Matteo Marchesini

Abbiamo in mano i “Ritratti italiani” di Arbasino raccolti ora da Adelphi. Ritratti “cubisti”: che sovrappongono tempi, luoghi, articoli, interviste e appunti, spaziando da Longhi alla Loren e dalla Brin al cardinale Siri. Li sfogliamo, come l’autore in copertina, stesi su un divanetto, cercando di assumere la sua aria assorta e languida. Ma noi abbiamo attorno dei rigidi cuscini Ikea: niente morbidezze di cuoio sotto e d’arazzi sopra, né vestiti di sartoria o calze pronte per zompare a un vernissage in un punto qualunque del pianeta. Del resto, noi siamo cresciuti tra anni Ottanta e Novanta in una Padania cheap e retrodatata ai Cinquanta, mentre lui nei suoi padani Cinquanta già viveva in un agio da inizio anni Ottanta tra hippie e yuppie, raggiungendo ovunque la gioventù del Mondo e Paragone su una decappottabile sportiva…

Perché tutto parli di me

Pubblichiamo un articolo di Annalena Benini apparso sul Foglio ringraziando l’autrice e la testata.

di Annalena Benini

Il treno è pieno e si sta in piedi, schiacciati contro le borse degli altri, non c’è quasi lo spazio per mandare messaggi. Lei è bionda e anziana, porta i tacchi alti, una gonna di pelle e gli occhiali da sole, lui ha qualche anno in più e la tiene delicatamente per il polso, le spiega dove appoggiarsi, lei guarda avanti ma forse non vede niente da dietro quegli occhiali da farfalla. È arrabbiata, gli dice piano: “Lasciami stare”. Lui continua a spiegarle qualcosa, è gentile. Lei alza la voce: “L’unico modo è prenderti a calci nel culo, come faceva quella, con te è l’unico modo”. Lui resta lì, silenzioso, con le dita intorno al suo polso, lo sguardo costernato fisso sugli occhiali da sole.

Le lune di Zavattini. Colloquio con Alfredo Gianolio

a cura di Mario Valentini

Con Alfredo Gianolio ci siamo frequentati spesso nel corso degli anni ’90, quando a Modena facevamo Il Semplice. Di recente ho ripreso contatto con lui per un articolo destinato a OOA, la rivista dell’Osservatorio Outsider Art di Palermo, in cui avevo pensato di parlare delle vite di artisti naif da lui raccolte e trascritte.

Gli ho rivolto diverse domande via mail, incentrate, oltre che sui pittori naif, sulle sue frequentazioni con Cesare Zavattini. Le ha eluse tutte, con la grazia e l’ironia che gli sono proprie da sempre, tirando fuori però un racconto di quei fatti che mi sembra bello.

Il racconto è uscito sul n. 7 di OOA (www.glifo.com) come pezzo autonomo, anticipando l’articolo per il quale sarebbe dovuto essere del semplice materiale di lavoro.

di Alfredo Gianolio

Il mio incontro con Cesare Zavattini fu casuale, dovuto al fatto che, verso il 1950, settimanalmente mi recavo presso la Camera del Lavoro di Luzzara dove si trovava il mio recapito di avvocato. Provenivo da Reggio Emilia, inizialmente con una “Lambretta” e quindi con una vecchia “Wolksvagen”, dal minuscolo lunotto anteriore, forse un residuato bellico, che incuriosiva i bambini, i quali si facevano ai margini delle strade al mio passaggio.

Segretario della Camera del lavoro era Mario Scardova, che, il giorno della Liberazione, fece il suo ingresso in Luzzara sopra un cavallo bianco tra due ali di popolo plaudente.

Percezioni & proiezioni dell’Italia

Questo articolo è uscito su Artribune. (Immagine: Luigi Ghirri, Italia in miniatura)

Occorre indagare a fondo la percezione esterna dell’identità italiana. Soprattutto nel mondo anglosassone, essa è inevitabilmente legata all’immaginario degli anni Cinquanta e Sessanta: La dolce vita, Mastroianni, la Vespa, la Cinquecento… Questo tipo di universo narrativo è estremamente attraente per uno spettatore straniero – mediamente colto, impegnato in una professione creativa, ecc.

Il nostro presente così complesso e difficile non ha praticamente nessuna penetrazione nella percezione esterna: è come se continuassimo a proiettare la stessa immagine e la stessa aura da, appunto, sessant’anni. In questo tipo di processo c’è ovviamente una quota molto alta di nostalgia: il riferimento auratico è un’età dell’oro – e indubitabilmente è abbastanza vero che in quel periodo noi abbiamo prodotto il nostro meglio, finora, in termini di cinema, arte, moda e design. Non è detto che questo tipo di nostalgia sia necessariamente un male: è un patrimonio intangibile, valoriale; una piattaforma se si vuole molto utile, su cui si può costruire nuova una proiezione dell’Italia.