Ricordo di Thomas Bernhard

di Daniele Benati

questo pezzo apparve su «Dolce Vita», nn. 20-21, maggio-giugno 1989.

Dopo aver fatto dodici al Totocalcio, nel marzo del 1983, e aver malamente investito la vincita al Casinò Winkler di Salisburgo, trovandomi ancora in Austria per qualche giorno, avevo deciso di arrivare in auto fino a Ohlsdorf, un paesino vicino al lago di Gmunden, in cui da circa vent’anni, in uno stato di totale isolamento (come a lui stesso piaceva sottolineare) viveva lo scrittore Thomas Bernhard.

L’idea era semplicemente di fare un giro dalle sue parti, vedere dal vivo i luoghi che aveva descritto nei suoi romanzi (i boschi d’aceri, le gole, le locande), e, magari, passare davanti alla sua abitazione; di certo non volevo importunarlo, anche perché avevo letto in un’intervista, poco tempo prima, che i vari seccatori che si fossero aggirati intorno alla sua casa, sarebbero stati accolti a colpi di carabina.

Tuttavia, dopo aver gironzolato un po’ per il paese, la curiosità aveva avuto il sopravvento ed ero entrato in una locanda per chiedere informazioni. Il gestore mi aveva detto che Bernhard non abitava a Ohlsdorf, ma una frazione vicina, in un vecchio cascinale di campagna. “Bernhard ha una Mercedes bianca, e di solito la lascia parcheggiata sotto il portico di ingresso” mi aveva detto. E così infatti era. Giunto ad Obernathal, una frazione vicina, in un vecchio cascinale si campagna, ho subito notato una Mercedes bianca sotto il portico d’ingresso di un vecchio casolare e ho deciso di entrare nel cortile. Dopo un paio di minuti s’è aperta una porta e ho visto affacciarsi un signore distinto che mi ha guardato con aria interrogativa.

Poi mi ha chiesto chi ero. Io gli ho detto che ero un italiano, in gita a Salisburgo, e volevo sapere se era lì che abitava Thomas Bernhard. Lui ha risposto di sì, aggiungendo però che lo scrittore era momentaneamente assente e che, se volevo parlargli, magari mi sarebbe convenuto tornare un’ora dopo. Con la precisione di un cronometro, un’ora dopo ho fatto la mia ricomparsa nel cortile e ho aspettato che la porta si aprisse di nuovo. Pochi istanti dopo, ho visto comparire sulla soglia Thomas Bernhard in persona; aveva un gran sorriso e con gentilezza mi allungava la mano. Io sono rimasto un po’ allibito, nel trovarlo così disponibile, e nell’emozione ho farfugliato il mio nome cercando mentalmente una ragione che giustificasse la mia visita. Ma lui non me ne ha dato il tempo: con un cenno, mi ha invitato a entrare e ci siamo accomodati in cucina, dove c’era anche la persona che avevo incontrato un’ora prima e che poi è risultata essere il fratellastro di Bernhard, dottor Paul Fabjan.

Da quel giorno sono passati esattamente sei anni. Bernhard, come purtroppo sappiamo, è morto alcuni mesi fa, dopo una lunga malattia ai polmoni. La sua fama in questi ultimi anni, si è rapidamente diffusa e consolidata anche in Italia, nonostante l’inspiegabile ritardo con cui sono apparse le sue opere e soprattutto a dispetto del discutibile, talvolta scriteriato ordine si apparizione. Ma, a quell’epoca, di lui non si sapeva ancora molto. Tranne il fatto che si trattava di un autore geniale, di cui però gli austriaci non potevano in alcun modo essere fieri.

L’uomo che mi sedeva di fronte nella sua casa di Obernathal, infatti era considerato come una specie di nemico sociale, uno spietato accusatore e un instancabile, seminatore di scandali. A ogni pubblicazione di un suo libro, così come alla prima rappresentazione di una sua opera teatrale, si accendeva una polemica, che, a seconda dei casi, poteva assumere toni più o meno violenti, con Bernhard che cominciava a offendere qualche pezzo grosso del mondo politico o dell’ambiente artistico; gli altri che, vedendosi citati con tanto di nome e cognome, lo querelavano, e lui infine che minacciava pubblicamente di far scomparire tutte le sue opere dal territorio austriaco.

Ma per quanto mi riguardava, quell’uomo si stava rivelando una persona molto gentile, comprensiva e pronta alla battuta di spirito. Era difficile collegare questo suo modo di fare all’ira furibonda e aggressiva che scaturiva dai suoi romanzi. E inoltre non saprei neanche dire chi, in quell’occasione fosse più curioso dell’altro. Nel rispondere alle mie domande infatti, Bernhard concludeva spesso rivolgendomene di sue, tutte molto semplici, tipo chi ero, cosa facevo, chi erano i miei amici di Salisburgo, cosa ne pensavo di Salisburgo, eccetera. Subito avevo avuto l’impressione che lo facesse per evitare, come spesso fanno gli scrittori, i noiosi discorsi sulla letteratura. Ma poi ho dovuto ricredermi, perché anche alle domande più stupide Bernhard rispondeva con molta serietà.

Abbiamo parlato subito del suo stile, uno stile che si basa su una ossessione del ritmo quasi maniacale (“Se il ritmo si spezza”, ha detto Bernhard, “tutto il resto è kaputt”), e su una continua ripetizione dei concetti che produce l’effetto di un andamento a spirale, piuttosto che quello di una consequenzialità lineare, come in genere accade nel romanzo. Bernhard ha poi aggiunto che vi era uno stretto legame fra il suo stile letterario e il suo stile di vita, e che il primo era l’autentico prodotto del secondo, e che se non avesse deciso di vivere in quel modo, e cioè di rifiutando praticamente qualunque tipo di legame, egli non sarebbe mai stato lo scrittore che era diventato. Bernhard, a questo punto, ha usato una parola che ricorre in molti dei suoi testi: Rucksichtslosigkeit. Questa parola significa spregiudicatezza, intransigenza, mancanza di riguardi per chicchessia, implacabilità. Ma significa anche volontà di definire il mondo attraverso un’idea, e in questo senso rispecchia perfettamente il tipo di attualità intellettuale che caratterizzava sia Bernhard che i suoi personaggi (in genere studiosi inconcludenti che si ritirano in un luogo isolato, dove sperano di portare a termine un’opera, che al contrario, non riusciranno nemmeno ad iniziare).

La nostra conversazione aveva preso forse un taglio un po’ troppo complesso, viste anche le nostre difficoltà linguistiche (io capivo poco il tedesco e Bernhard non era molto ferrato in inglese; fortunatamente, il fratello Paul più d’una volta ci ha risolto alcuni problemi di comprensione). Così ho deciso di fargli una domanda più semplice, e gli ho chiesto in quanto tempo avesse scritto Perturbamento. Bernhard ha sorriso e poi ha detto: “Tre mesi!”. All’epoca aveva da poco acquistato e ristrutturato la casa di Obernathal, ma non si sentiva di abitarci. Così aveva lasciato sola la zia, con la quale da tempo viveva, e se ne era andato da alcuni amici a Bruxelles. Qui abitava al quarto piano di un edificio, in Rue de la Croix, e poteva vedere ogni giorno le suore di un monastero sottostante camminare in tondo nel giardino del chiostro.

In tre mesi, scrivendo giorno e notte (era tale la concentrazione a un certo punto, che non si era nemmeno accorto di un incendio sviluppatosi in un supermarket a pianterreno), aveva portato a termine il romanzo. “Ma è probabile”, ha ammesso Bernhard, “che a determinare l’andamento ritmico del testo siano state proprio quelle suore”. E forse in questo vi era un segno premonitore, perché come poi avrebbe ricordato in Wittgensteins Neffe (Il nipote di Wittgenstein, 1982), sarebbe stata proprio una suora a mettergli sul letto la prima copia del romanzo appena pubblicato.

Allora era il 1967, e Bernhard si trovava ricoverato al padiglione Hermann, sulla Baumgartnerhohe, a Vienna, dove era stato operato da poco per un tumore (“grosso come un pugno”). Gli ho chiesto se concordava con la critica nel considerare proprio Perturbamento il suo romanzo migliore. Mi ha risposto di no, e ha aggiunto che la sua opera più riuscita, sotto tutti gli aspetti, era Gehen (Camminare), un romanzo del 1971, di cui, al contrario, si era parlato pochissimo. Anche questo, come tutti i romanzi di Bernhard, raccontava la storia di un suicidio (quello del chimico Hollensteiner, che s’impicca nel suo istituto universitario perché lo stato non gli ha concesso nessun finanziamento); la storia di una follia, (quella di Karrer, nella cui testa il suicidio del chimico aveva sortito un effetto catastrofico, e che impazzisce all’improvviso in un negozio di calzoni, mentre cerca di dimostrare al nipote del negoziante che i pantaloni in vendita non sono di pura lana inglese, come loro sostengono, ma è tutta merce di scarto cecoslovacca); e vi è infine la situazione d’isolamento condivisa sia dal narratore che dal suo interlocutore (Oheler).

La conversazione con Bernhard è proseguta poi con domande e risposte sempre meno impegnative. Gli ho chiesto se gli piacevano autori italiani, e lui mi ha risposto: “Autori o libri?”. E io: “Libri”. E lui: “Tanti, ma sarebbe inutili ricordarli”. Gli ho chiesto se teneva letture pubbliche. Ha risposto che non ne faceva più da un pezzo, anzi l’ultima l’aveva fatta proprio in Italia, a Bolzano, ma ad ascoltarlo c’erano andati solo due paralitici. Gli ho chiesto se gli piaceva l’Italia. Ha risposto di sì, ma che non conosceva molto la nostra cultura anche se aveva scritto un racconto intitolato L’italiano. Gli ho detto che l’avevo letto, e che nello stesso libro vi era anche Al limite boschivo, un racconto eccezionale. Lui ha sorriso, annuendo. Gli ho detto che parlava sempre di suicidio. Lui ha risposto che pensare al suicidio è la cosa più facile che possa accadere ad un essere umano. Lui personalmente aveva pensato più volte di commetterlo buttandosi giù dal Monchsberg (uno dei monti di Salisburgo). Poi ha aggiunto che di fatto Salisburgo è la città con il maggior numero di suicidi. Io gli ho detto che la prima impressione che avevo avuto da Salisburgo era stata quella di una città grigia, non molto viva. Lui ha risposto che vent’anni prima era molto più bella e che le facciate delle case erano appena state ridipinte, ciononostante dietro la bellezza di queste facciate si nascondeva molta stupidità. Gli ho chiesto quante volte riscrivesse i suoi libri. Lui ha detto che non seguiva sempre lo stesso metodo, ma che in genere li riscriveva tre volte.

Gli ho chiesto se stava scrivendo un nuovo libro. Lui ha detto che era abituato a lavorare sempre. Allora gli ho chiesto se davvero lavorava anche nei campi, come avevo letto in un’intervista. Lui s’è picchiettato un dito contro la tempia e ha detto che lavorava lì, nel suo cervello, e che era tutto lì. A questo punto ho avuto la sensazione che fosse ora di andare e mi sono alzato in piedi. Anche Bernhard s’è alzato e mi ha allungato la mano. Gli ho detto che avrei continuato a leggere i suoi libri, e che, siccome quel giorno era il lunedì di Pasqua, avevo trovato veramente una bella sorpresa nell’uovo. Lui ha annuito. Tempo dopo gli ho scritto una cartolina, ma lui non ha risposto. In compenso mi è capitato di leggere su “Tuttolibri” (La Stampa, 30 aprile 1983), una lunga intervista a Thomas Bernhard, il cui cappello cominciava così: “È difficile intervistare lo scrittore Thomas Bernhard. Dopo un anno di tentativi, il giornalista di “Le Monde”, Jean-Louis de Rambures, ci è riuscito…”

Commenti
15 Commenti a “Ricordo di Thomas Bernhard”
  1. Dinamo di Stiria ha detto:

    Bello questo ricordo di Bernhard. Bernhard è stato uno scrittore-contro, di una polemica feroce. Credo molto semplicemente che non fosse contro la vita come qualcuno delle volte scioccheggia, è stato uno scrittore contro quella umanità, spesso al posto di comando, che colla propria ottusità estetica, cattolica, politica, e nazionalista distrugge la vita libera degli altri.
    Uno scrittore spietato nei riguardi dell’ottundimento delle fratellerie culturali, e spietato coi ranghi del potere.

    Penso si sia scavato una strada nella letteratura assolutamente autonoma e smarcata da linee di discendenza, filiazioni ed eredità gravose. Una strada originale su cui ha lavorato tutta la vita, scrivendo un botto di romanzi. Anche da un punto di vista esclusivamente narratologico, tecnico, od artistico la sua opera rimarrà per l’assoluta invenzione di nuovi modelli, d’altronde sta diventando, o è diventato, un classico della letteratura… spero non gli nuocerà, ma non credo.

    Tra i tag ho visto “perché Bernhard pensava al suicidio e Massimo D’alema mai?”… ad occhio e croce penso che Bernhard uno col profilo estetico culturale e colle letture di D’Alema non l’avrebbe sputato, manco fosse stato un austriaco.

    Trovo invece, perché ci vivo (ahimè) da un po’ di tempo per necessità, che la Lombardia nella sua interezza sia pari pari alla merdosa Austria descritta nel suo squallore etico-estetico-culturale da Bernhard.

  2. Mariateresa ha detto:

    Adoro la scrittura di Bernhard e non riesco a trovare Piazzale degli eroi.

  3. Larry Massino ha detto:

    Arrivare ad augurare il suicidio a qualcuno che ci sta pur legittimamente antipatico a me pare pochissimo elegante. D’altra parte l’europeista D’Alema è il bersaglio preferito dei populisti nazionalisti, o socialisti nazionali, o nazionalsocialisti, contro i quali Bernhard si è battuto a viso aperto tutta la vita.

  4. Bachisio Bachis ha detto:

    Non so se D’Alema pensi o meno al suicidio, ma il suo nome affiancato a quello di Bernhard suggerisce scenari inquietanti.
    Pensate se fosse lui il Murau di Estinzione, e raccontasse la sua autobiografia pubblica ripercorrendo le note vicende di liquidazione del patrimonio ereditato, con la donazione finale di Wolfsegg-Partito a chissà quale comunità, quasi come espiazione postuma dei peccati di famiglia, rigorosamente non propri.
    Sarebbe una lettura interessante.

  5. Gisy Scerman ha detto:

    Perché insudiciare Bernhard con queste cose nemmeno degne di nome?

    Un grazie a Daniele Benati piuttosto, che non è certo da tutti aver intervistato T.B . Specie a quell’epoca.
    Bernhard è tra i migliori autori degli ultimi cinquanta anni. Ave.

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  8. […] (a cura di) Daniele Bennati: Ricordi di Thomas Bernhard, di Nicola Lagioia (1989), Minima et Moralia, 12 dicembre 2011, http://www.minimaetmoralia.it/wp/ricordo-di-thomas-bernhard/ […]



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