La nostra distopia culturale

Questo articolo è uscito sul n. 26 di alfabeta2.

L’immaginario italiano come spazio concentrazionario

Nel 1961, Kurt Vonnegut pubblicò quello che è ancora oggi uno dei migliori racconti distopici di sempre. Harrison Bergeron tratteggia in poche, dense pagine una società paralizzata (in un’America “senza tempo”), in cui viene tecnicamente impedito a tutti di pensare: la gente guarda orribili e inutili programmi in tv, e per quelli un pochino più intelligenti l’Handicapper General – che tutto vigila e controlla attraverso i suoi agenti – ha predisposto un dispositivo radiofonico nelle orecchie, che a intervalli regolari trasmette allarmi, campane, esplosioni che impediscono a persone come George, il padre di Harrison, di “trarre un indebito vantaggio dal proprio cervello”. Il presupposto è che la cultura sia intrinsecamente pericolosa, dal momento che esaspera le contraddizioni invece di comporle e impedisce il conseguimento di un’agghiacciante “uguaglianza”, basata sullo spegnimento delle funzioni intellettuali e critiche. Sulla stupidità programmata.