L’epistolario di Truman Capote

Questo pezzo è uscito su Tuttolibri de La Stampa, che ringraziamo

di Nicola Lagioia

“Ovviamente ti prego di tener conto che non potrò propriamente finire il libro finché il caso non sarà giunto alla sua conclusione legale, o con l’esecuzione di Perry e Dick (la più probabile), o con la commutazione della pena (assai improbabile). Con i ricorsi alle Corti Federali ancora disponibili tutta la faccenda si trascinerà di sicuro almeno fino all’estate prossima”.

Chi scrive è Truman Capote. Il destinatario della lettera è Bennet Cerf, suo editore nonché tra i fondatori di Random House. È il 10 settembre del 1962, Capote si trova a Palamos, Costa Brava. È arrivato in Spagna tempo prima per ritoccare con calma A sangue freddo. Il libro procede bene, ma Truman non potrà licenziarlo fino a quando non sarà conclusa la vicenda giudiziaria di Perry Smith e Dick Htckock, i due assassini che il 16 novembre del 1959 sterminarono la famiglia Clutter nella loro casa di famiglia a Holcomb, Kansas. Essendo alle prese con una non fiction novel, inventarsi un finale non spetta allo scrittore. Se è vero che nel tempo Capote ha stretto con i due assassini, in particolare con Smith, un rapporto molto intenso – una relazione in cui calcolo professionale e trasporto emotivo si confondono –, le ragioni del libro sono più forti di ogni cosa. L’anno successivo, tornato a New York, Truman scrive al fotografo e costumista Cecil Beaton. I due si vogliono bene, sono amici da molti anni. E così, nel gorgo della confidenza, Truman allenta ulteriormente i freni inibitori, e confessa: “sto malissimo per la tensione e l’ansia. Perry e Dick attendono l’esito del ricorso alla Corte Federale per avere un Nuovo Processo: se dovessero ottenerlo (un nuovo processo) avrò un esaurimento nervoso o qualcosa del genere”.

Un nuovo processo potrebbe salvare la vita ai due imputati. Al contrario, una data certa per la condanna a morte segnerebbe in modo certo il confine cronologico oltre il quale A sangue freddo potrà venire pubblicato. Perry Smith e Richard Hickcock saranno giustiziati il 14 aprile del 1965. Il romanzo che trasformerà il già celebre scrittore in una leggenda inizierà a uscire a puntate sul «New Yorker» nel settembre dello stesso anno, arriverà in volume unico nelle librerie il 17 gennaio 1966.

Le lettere sopra riprodotte, insieme a moltissime altre, sono riunite in libro di grande valore, È durata poco, la bellezza, a cura di Gerald Clark, tradotto in italiano da Francesca Cristoffanini per Garzanti. Il libro raccoglie buona parte delle lettere scritte da Truman Capote tra il 1936 e il 1982, da quando era un preadolescente fino a due anni prima dalla morte. Come la celebre biografia curata da George Plinton – sempre Garzanti – raccontava la vita di Truman attraverso le parole degli altri, cioè i tanti (amici, nemici, amanti) con cui lo scrittore di New Orleans – nato per la seconda volta a New York, la terza in Kansas, la quarta in Europa, finito malinconicamente sulla West Coast, in California – aveva avuto a che fare nel corso di un’esistenza turbolenta e spettacolare, in questo caso è lui a raccontarsi di proprio pugno attraverso le missive che manda agli altri: dall’infanzia bistratta nel Sud ai primi successi, da Colazione da Tiffany a A sangue freddo, dalla sensazione di onnipotenza successiva al Ballo in Bianco e Nero all’azzardo di Preghiere esaudite, il romanzo mai concluso sul “regno del nulla” (il bel mondo dove, da abusivo, Capote riuscirà a intrufolarsi, a diventare nume e giullare prima di tradirlo con inaudita crudeltà e stupefacente candore) che costò allo scrittore il bando definitivo da parte di chi fino a quel momento gli aveva aperto le case delle proprie ville e i pontili dei propri yacht, segnando per la sua vita sociale, emotiva e per la sua carriera letteraria l’inizio di un tracollo.

Emblematiche, per capire l’uomo e l’artista, le due lettere con cui si apre la raccolta.

La prima risale all’autunno del 1936. Truman ha appena dodici anni e sua madre si è risposata con Joe Capote, un uomo d’affari cubano. La lettera è indirizzata ad Archulus Persons, il suo padre biologico, un balordo sempre a rischio di finire in galera che trascura il piccolo senza farsi alcuno scrupolo. La lettera è un capolavoro di nitore e vibrante icasticità (nella corazza dello stile ciò che vibra è forse un certo tipo di dolore).

“Come sai il mio cognome è cambiato da Persons in Capote, per tanto apprezzerei se in futuro ti rivolgessi a me come Truman Capote, dal momento che tutti mi conoscono con questo nome”.

Ma un futuro insieme, per loro due, non ci sarà.

La seconda lettera (la datazione è incerta tra 1939 e 1941) ha come oggetto Thomas Flanagan, all’epoca uno studente di un anno avanti rispetto a Capote alla Greenwich High School.

“Io sottoscritto dichiaro solennemente che qualunque affermazione possa aver fatto sul conto di Thomas Flanagan, o qualunque affermazione io possa avergli attribuito, era calunniosa e falsa”.

Flanagan, destinato a diventare un accademico e scrittore a propria volta, conserverà questo documento per quasi cinquant’anni: il non ancora maggiorenne Truman Capote aveva diffuso delle maldicenze sul suo conto e il calunniato aveva preteso una ritrattazione. Il pettegolezzo elevato a opera d’arte sarà del resto uno dei segni distintivi del Capote di Preghiere esaudite, e vedere nel principio la fine fa effetto.

Nelle lettere – che i destinatari siano addetti ai lavori o amici di baldoria, che si tratti di protestare per non essere stato incluso nella Modern Library “a differenza di Mailer, Salinger, Malamud” o di descrivere la bellezza di Ischia, che ricorrano le allusioni ai suoi rivali letterari o il nome di “Nelle”, la Harper Lee de Il buio oltre la siepe che fu compagna di giochi del Capote bambino e verso la quale Truman ha in queste lettere solo parole di riguardo – Capote conserva la brillantezza che gli conosciamo. Presumendo tuttavia di non avere un pubblico più numeroso di una persona alla volta (almeno fino ad ora), mostra lati di sé che altrimenti forse presenterebbe in modo diverso. Alcune missive risultano preziose perché rivelano segreti della sua tecnica narrativa.

Nel 1960, per esempio, mentre è alle prese con A sangue freddo scrive a un tale Donald Cullivan, un ingegnere di Boston che aveva conosciuto Perry Smith sotto le armi diventandone amico, tanto da deporre al processo come testimone della difesa. Nel suo romanzo verità, Capote si era riproposto di non far intervenire mai il narratore, cioè se stesso. Tutto doveva apparire al lettore come se stesse osservando la realtà senza la mediazione di un maestro di finzioni. C’erano, tuttavia, informazioni che Capote aveva preso di prima mano, e di cui soltanto lui era depositario. Come fare? “Ora, il problema è questo, è una questione tecnica”, scrive dunque a Cullivan, “nel libro non c’è la prima persona – vale a dire che io non figuro e, tecnicamente, non posso farlo. Ora, verso la fine del libro voglio inserire una scena tra te e Perry in cui userò del materiale tratto dalle mie conversazioni con Perry – in due parole, ci sarai tu al mio posto”.

Sono state spese molte parole, negli anni, per dare conto dell’influenza di Capote sulle generazioni successive e avvicendarlo ai nostri contemporanei. Se la prima operazione è doverosa, il secondo tentativo è un salto nel buio. Quante volte ci siamo ritrovati a far dialogare per esempio A sangue freddo con L’avversario di Emmanuel Carrère? A parte l’indagine su un fatto di sangue e la rinuncia alla finzione, non c’è altro da cui queste due importanti opere letterarie siano accomunate. L’avversario è un concerto per voce sola, A sangue freddo è un’opera polifonica. Nel primo caso c’è un narratore invadente (un’invadenza calcolata, consapevole, la cifra di molti libri di Carrère) che interviene, commenta, filosofeggia su tutto, dice “io” a ogni paragrafo. Nel secondo caso l’io narrante è assente. Se ne dovrebbe dedurre che Carrère è un narratore più spericolato di Capote, e che mettendo la propria stessa persona nel lato in luce di una vicenda tremenda (in questo caso il massacro di un’intera famiglia per mano del bugiardo patologico Jean-Claude Romand) rischi di più, mostrando senza orpelli debolezze e fragilità. Niente di tutto questo. Carrère si protegge più di Capote. Tra Carrère e Romand c’è infatti una voragine che non si può colmare, i due sono così diversi (socialmente, caratterialmente, antropologicamente) che noi lettori non li immagineremmo mai a ruoli invertiti. Il rapporto che lega Capote a Perry Smith e Dick Htckock è diverso. Nel biopic del 2005 con Philip Seymour Hoffman, gli sceneggiatori a un certo punto fanno pronunciare a Hoffman-Capote una frase che probabilmente lo scrittore non ha mai detto, ma che rende l’idea. “È come se io e loro fossimo cresciuti nella stessa casa”, dice Capote parlando di Perry e Dick, “solo che io sono uscito dalla porta d’avanti e loro da quella sul retro”. Truman Streckfus Persons, vale a dire, sarebbe potuto essere uno di loro se non fosse diventato Truman Capote.

A sangue freddo è scritto con uno stile perfetto, blindato, adamantino, il quale però lascia trapelare a ogni riga questa inquietudine, questo coinvolgimento, forse anche questo dolore. Proprio il fatto che lo stile sia perfetto ma non sufficiente (perfetto, non sufficiente) rende il libro magnifico.

Questa e altre considerazioni vi verranno facili leggendo È durata poco, la bellezza, la biografia epistolare che per quasi cinquant’anni fa brillare sotto il nostro sguardo questo bambino prodigio, questo adulto problematico, uno scrittore armato solo del proprio talento e di un’audacia rara, capace di salire dal niente sul tetto del mondo per constatare che nulla è eterno e tutto si corrompe. La bellezza, la forza delle sue pagine migliori non hanno salvato lui, possono accompagnare noi ancora per un po’.

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