Dentro al bosco sacro di Alessandro Fiori

foto di Daniela Baiardi

Esistono due modi per passeggiare in un bosco, almeno stando a quanto suggeriva più di vent’anni fa Umberto Eco. O ci muoviamo per tentare un percorso, una strada o ci muoviamo per comprenderne meglio la struttura, per scoprire perché alcuni sentieri siano accessibili e altri no. Ugualmente ci sono due modi per percorrere – e ascoltare – un disco. Lo si può attraversare seguendo una linea orizzontale che permette all’ascoltatore di trasformarsi, durante il dipanarsi delle tracce, di divenire altro rispetto a sé, dall’inizio del primo brano alla fine dell’ultimo, oppure tracciando un segmento verticale che punta dritto alla conclusione e mangia l’ascolto con famelica curiosità.
Il nuovo disco di Alessandro Fiori (ma più in generale tutta la sua produzione) non sembra appartenere a nessuna delle due opzioni sopra menzionate, preferendo muoversi in diagonale, per ritrovare quel gusto un po’ bislacco, un po’ bambino, di disegnare traiettorie a zig zag, colpendo in maniera quasi futurista l’essenza della parola cantata.

Mi sono perso bel bosco, pubblicato grazie alla sempre brillante visione di un’etichetta come 42 Records, arriva a sei anni di distanza dal mirabile Plancton, e si prende la libertà di occupare uno spazio enorme nel panorama del cantautorato italiano, e lo fa con tutto il candore di una cosa bella e inaspettata.
Bella perché rappresenta il continuo e umanissimo camminare senza meta, di chi sbanda e incespica, desiderando deviare dalla banalità dei giorni, o in questo caso dei versi.
Inaspettata perché dopo il caos pandemico, restituisce in maniera decisiva una prova cantautorale che colma uno spazio sempre troppo a lungo rimasto vuoto: il farsi assenza nel presente troppo carico, troppo pieno. Di ansiogeni e cafonissimi “fuori ora”, “fuori ovunque”. Fiori si fa boschivo, vivendo uno spazio amico, sicuro, eppure ancora locus amoenus in cui riuscire a perdere (e farci perdere) l’orientamento.

Costellati da una dolcezza tanto paterna quanto amica, i brani del disco incontrano una doppia corsia lessicale facendo convivere serenamente due vocabolari, uno prettamente boschivo (già in Plancton si osservavano al microscopio terra, vermi, e spore), l’altro più urbano. Così il bosco, i funghi, i cervi, i faggi, il crinale, i lupi, la pioggia, il vento sembrano adattarsi al cinema, alle vetrine, alle puntate delle serie tv, ai pop-corn, a Netflix, ai carrelli della Coop, alle chiacchiere su Messenger. Quello che va a creare Fiori è un glossario intimo, familiare, che ribadisce la volontà di essere compreso soprattutto all’interno di un microcosmo privato, in cui la legge dei bambini si impone sulle gerarchie genitoriali. È tutto perfettamente in equilibrio in questa tavolozza tanto intima da trasformarsi in un grande ritratto familiare quanto universale nel narrare con sapienza e sfumature da macchiaiolo le paure di tutti. Se è vero, come cantava qualcuno, che le canzoni sono come i tatuaggi, le storie sonore di Alessandro Fiori vivono con noi, si fanno portare in giro, come una spilla sul paltò, come una fotografia ritagliata da tenere nel portafoglio, proprio come la polaroid sfocata dell’artwork.

Prodotto da Giovanni Ferrario e Alessandro Asso Stefana, mixato da Giacomo Fiorenza, il disco vede la partecipazione di tanti amici, quasi un carillon di affetti e suoni: Brunori Sas, Levante, Colapesce, Massimo Martellotta, Dente, Marco Parente, Iosonouncane e Enrico Gabrielli. Pensato come un vinile, lato A e lato B, Mi sono perso nel bosco offre paesaggi che riportano in vita la delicata fantasia di Endrigo e Bindi, che esaltano un caleidoscopio elettronico à la Sparklehorse, che si arrampicano fino alla rarefazione da cuore analogico in stile Jim O’ Rourke.

Da una tracklist piano e chitarra fuoriesce il magma vitale composto da organo, oboe e batteria di una cronaca familiare che ha i tempi di una pièce teatrale (“ho tanta paura/venivo di là o tornavo di là/io non mi ricordo”) che detta la non-direzione, le non-coordinate di questo viaggio. E si fa chiaro sin dall’inizio che perdersi è esattamente ciò che vogliamo di più, ciò che renderà possibile un ritorno alla quiete. Come dimostra il cielo rischiarato di Io e te (“la nebbia se ne è andata, posso lavorare”) cantata assieme a Dario Brunori, quasi un manifesto post pandemico in cui tutto sembra di nuovo possibile: il wurlitzer ricerca un ordine ritmico sublimato dal flauto di Gabrielli, mentre le chitarre elettriche impastano la partitura perfetta per un brano senza tempo. Un affresco sonoro che canteremo ogni volta in cui a mancarci oltre al tempo, sarà la speranza.
Una scossa improvvisa, un fulmine che abbatte un albero durante una tempesta in pieno agosto: il bozzetto espressionista di Amami meglio si annuncia con il preset metallico di una Casio SK-1 fino a quando le corse free del sax non si perdono nei cori incantati affidati all’amico Colapesce. Con Stella cadente, quasi una ninna nanna klezmer, le chitarre elettriche sposano con sottile sensualità philicorda e omnichord, in un abbraccio che rende possibile l’incontro fra il caldo suono dei sixties e l’elasticità degli anni ‘80.
Dal magnetismo nostalgico di Fermo accanto a te, dialogo a due voci in coppia con il felino languore di Levante si mira all’essenziale malìa che oboe e violino restituiscono in Una sera, brano capace di ristabilire la pace dopo decenni di conflitto sul vero significato del lemma canzone d’autore: il romanticismo può e deve esulare da ogni tratto zuccherino, sembra suggerire il cantautore toscano con la creazione di questo piccolo fragilissimo film.
Anche perché la realtà tremenda, tagliente e senza speranza si para dinanzi ai nostri occhi in ogni caso: Pigi pigi, per la prima volta un testo scritto da altri – dall’amico Luca Caserta, artista di Avellino – affronta con sguardo bambino l’apocalisse dei morti nel Mediterraneo e della ormai diffusa normalizzazione dell’orrore. Piano, voce, mellotron e dolore.
Un dolore da re-imparare ed elaborare si fa strada tra i meandri di assenza cantati nella straordinaria L’appuntamento, un confronto, un colloquio col proprio io, un’autoanalisi di fronte all’angoscia della perdita. Lo stesso smarrimento vissuto dal bimbo che, in preda agli incubi notturni, cerca conforto nella nonna: Troppo silenzio, con i cori di Dente, il vibrafono di Giovanni Ferrario e i synth mesmerici manovrati da IOSONOUNCANE, si ispira a Calderón de la Barca e alle memorie private del piccolo Fiori donando una forte pittura onirica al racconto donchisciottesco: “La vita è solo un sogno/dimenticato da un altro sogno/che s’è svegliato di soprassalto/perché ha sognato troppo in silenzio/e si è spaventato”, apriamo gli occhi, il bosco è muto, attorno a noi solo luce che sfronda la natura.

Mi sono perso nel bosco gode di una struttura compositiva classica, soprattutto se osservato in rapporto a Plancton che andava a destrutturare la forma canzone dell’esordio solista Attento a me stesso: nei dodici brani del disco convivono arrangiamenti e sonorità sì bizzarre ma meno sperimentali e ardite del precedente lavoro, offrendo lo spazio a quello che possiamo definire emozionale e travolgente pop neoclassico, un sindacato sonoro di rara dolcezza e spontaneità. Quello di Fiori è un bosco sonoro e narrativo dal quale non vorremmo mai più uscire, un bosco sacro i cui rami intrecciati ricamano poesia anche nel momento in cui scrivono in prosa.

Se per molti Mi sono perso nel bosco suonerà soprattutto come un disco d’amore, per chi scrive è la testimonianza dell’amore che si tramuta, che si incrina e poi risuona, dell’amore adulto che si guarda da fuori e immagina di non essere fedele a un che di bello e incoercibile che è presente eppure non lo è mai, perché è proprio questa cosa qui, lui, l’amore, a essere presente e a fuggire sempre via.
La penna di Fiori si delinea come un destino grazie al dolore, alla sparizione di chi si è amato. Scopre sempre tracce ulteriori, facendo dimenticare a chi lo ascolta – e lo legge – la funzione attuale del poeta. Non esistono ragioni per cui dovremmo pensare che perdersi nel bosco sia meno importante dello scrivere un disco perché ciò che, alla fine, si manifesta chiaramente è la semplice e implacabile necessità della musica pensata, narrata, composta, cantata da Alessandro Fiori.

Un orecchio commosso il suo, che sa giocare perbene, all’amore.

 

 

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