L’arte di scrivere racconti in tre parole chiave

Lo scorso maggio, Giuseppe Zucco, con I poteri forti, pubblicato da NN, ha vinto il Premio Ceppo Biennale Racconto 2022. Questa che leggerete è una riflessione sull’arte di scrivere racconti, organizzata intorno a tre parole chiave, commissionata dal Premio e discussa durante la premiazione. Relazione Non ne so nulla dei miei libri fino a quando […]

La scintilla della letteratura nasce dal mistero

Pubblichiamo un pezzo uscito su Il Libraio, che ringraziamo. Legami familiari, di Clarice Lispector, è una raccolta di racconti senza pari. Come in tutti gli scrigni del tesoro, non finisci mai di trovarci dentro delle monetine d’oro. Così, qualche giorno fa, rileggendola, ho sgranato gli occhi davanti a alcune frasi contenute nella postfazione. Scrive Clarice […]

Fantasie dall’orlo di un precipizio. “I poteri forti” di Giuseppe Zucco

  Sono acqueforti i racconti-mondo di Giuseppe Zucco, la raffigurazione di un terrore oscuro dalle sembianze mascherate. Il buio plasma la realtà, si fa origine della materia, e fa emergere figure spettrali e sensuali, che si aggirano nella pagina per invitare chi legge a inabissarsi nell’ignoto. Visioni di morte prendono forma dalle risate grottesche che […]

Avvicinare Emily Dickinson #3

Pubblichiamo la terza puntata di una serie dedicata alla poesia di Emily Dickinson, curata da Giuseppe Zucco. Qui potrete leggere la prima e la seconda puntata.

Che l’amore è tutto quanto c’è
è tutto quanto sappiamo dell’amore,
è sufficiente, il carico dovrebbe essere
proporzionato al solco.

(da Uno zero più ampio, di Emily Dickinson, a cura di Silvia Bre, Einaudi)

Quando Emily Dickinson si ritirò dal mondo, rinchiudendosi definitamente nelle sue stanze, per celebrare il momento indossò una veste bianca, e così vestita si allungò fino alla fine dei suoi giorni, proseguendo come da un’altare verso una porta maestosa, tirandosi dietro lo strascico invisibile delle ore più terribili e più liete.

Uccellini

Colla, una rivista letteraria che ciclicamente propone nuove voci e nuovi racconti, è da poco online con il numero 28. Ringraziando la rivista, pubblichiamo qui uno dei racconti. Il dipinto è di Albrecht Dürer.

Ho come un battito d’ali nel petto.
Victor Hugo

Eravamo così poveri che, ogni sera, invece di restare seduto guardando i piatti vuoti, mio padre batteva un pugno sulla tavola, e urlava che ero stata cattiva, ed elencava la lista interminabile delle cattiverie commesse a casa e a scuola, e concludeva che se avevo il male dentro, non c’era altra soluzione, e mi spediva a letto senza cena.

Io mi alzavo dalla sedia, e fissavo la faccia rossastra di mio padre, cosa infinitamente migliore che fissare il biancore dei piatti vuoti, e dicevo scusa, dicevo non lo farò mai più, anche se non avevo fatto nulla di cui farmi perdonare, e a capo chino infilavo la via del corridoio.
E una volta in camera mia, chiudevo subito la porta, e cercavo di non sentire le urla di mio padre e di mia madre, i piatti che si schiantavano contro le pareti, e prendevo i libri dallo zaino, e legavo i capelli in una coda, e continuavo a studiare scienze naturali, almeno fino a quando la stanchezza non faceva di me una piccola alga fluttuante nella piccola luce della lampada.
Ma non c’era modo, poi restavo tutta la notte con gli occhi aperti, e mi giravo nel letto, e non riuscivo a prendere sonno, e tutto questo per via del mio stomaco, che a volte emetteva oscuri brontolii, altre volte veri e propri discorsi con una voce che non sapevo che sesso avesse.

Avvicinare Emily Dickinson #2

Più o meno negli stessi anni in cui visse Emily Dickinson, visse anche Henry David Thoreau. Abitavano lo stesso stato americano, il Massachusetts, e le loro città, Amhrest e Concord, distavano l’una dall’altra un centinaio di chilometri. La socialità non fu il loro forte – non si sposarono, non ebbero discendenza. Dopo essere stati assidui lettori della Bibbia, dei Vangeli, di Omero, di Shakespeare, di Milton, di Emerson, entrambi scrissero opere destinate a tracimare impetuosamente oltre la diga del breve tempo in cui respirarono.

Avvicinare Emily Dickinson #1

Rileggendo questa poesia, mi figuro Emily Dickinson nel 1864. La ritrovo vestita di bianco, come in tutti i libri in cui il suo nome è sussurrato come un mistero. Ha più o meno trentaquattro anni. I capelli raccolti. Le labbra carnose. Una fossetta sul mento. Un problema agli occhi. Molto probabilmente soffre di qualche forma di epilessia. Nottetempo scrive poesie su dei foglietti che poi ricuce in fascicoli con ago e filo. Da qualche anno ha preso la decisione irrevocabile di non uscire più di casa. «Tentare di parlare di ciò che è stato, sarebbe impossibile. L’abisso non ha biografi», scrive in una lettera del 1884. Tanto più la vedo stendere i piedini sulle assi del pavimento, e camminare lentamente, cautamente, di notte, mentre tutti dormono.

L’ultima volta che sono stato in quarantena – appunti sparsi di vita costretta e corporale

Chiuso in casa, vivendo solo, questa cosa nobile e un po’ immonda di fare a me stesso da padre, da madre, da nonna, da fratello, da fidanzata, da amico, da gatto, da pianta da innaffiare con moderazione.

Questa auscultazione intima di sé, della propria carne, del proprio corpo nelle sue inestricabili parti, soprattutto della gola, in cui il più infimo raschio è già suono di corno a cui faranno seguito le terribili mute del virus in assetto di caccia.

Nient’altro che le nostre mani vuote – il dono di questi giorni infetti e fuori sesto

(fonte immagine)

O meraviglia, che si possa far dono
di ciò che non si possiede, o dolce
miracolo delle nostre mani vuote!
Georges Bernanos

Sono tempi infetti e fuori sesto. E così, costretto a casa da questa quarantena, aggirandomi tra le mie stanze come il fantasma di me stesso, per evitare il più cieco sconforto mi trovo a pensare che in fondo a tutto questo isolamento ci deve essere qualche dono.

E se è vero che oggi «il mondo è un dente strappato», e l’ennesima diramazione dei bollettini della Protezione Civile sembra confermarlo, ugualmente, nella stessa poesia, Amelia Rosselli ci invita a «non stancarsi mai dei doni».

Bambini nel tempo – cosa sapevano Victor Hugo e Dostoevskij dell’infanzia

Durante le vacanze leggo solo i classici. Anche se, senza altri impegni, abbandonando telefono e computer al loro triste destino di filamenti di silicio che nonostante il potere che ora esercitano su di me non parteciperanno un giorno alla redenzione dei corpi, e sprofondando per ore tra le loro pagine, mi rendo conto che non si tratta più di lettura. È una questione di ipnosi.

Come si esce dalla lettura dei classici? Con i polmoni larghi e gli occhi nuovi. Si respira meglio. Si accoglie più vita dentro. E il mondo, lì dove tutto si confonde e si infittisce l’ombra, a tratti diventa più comprensibile.