Genova, 2001

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La settimana che ricorre quindici anni dopo la “macelleria messicana” della Scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001 (“La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, secondo la celebre sentenza di Amnesty International) si è aperta con l’eco dell’ennesima beffa, dopo il danno atroce: l’agente che mentì sostenendo di essere stato accoltellato da un no-global (quale giustificazione per la crudele repressione di quella sera) è stato condannato ad un’ammenda equivalente a 47 euro.

47 euro. Mentire da Ufficiale dello Stato su una tortura di massa operata dalle Forze dell’Ordine costa come una cena completa in un ristorante di buona qualità, poco più di un paio di scarpe acquistate ai saldi, poco meno di una prestazione sessuale mercenaria contrattata per strada in una notte di periferia.

Questa scandalosa sentenza è solo la ciliegina su una torta di infamie che ha visto molti dei poliziotti coinvolti nelle torture essere gratificati con carriere folgoranti, per non parlare dei premi ricevuti dal tristemente celebre “dottor mimetica” o della promozione dell’allora capo della polizia De Gennaro alla guida di Finmeccanica.

Discorsi sul metodo – 20: Valeria Luiselli

Valeria Luiselli è nata a Città del Messico nel 1983. Il suo ultimo libro edito in Italia è Volti nella folla (La Nuova Frontiera 2012)

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Quante ore lavori al giorno e quante battute esigi da una sessione di scrittura?

Di solito sono contenta se faccio una pagina. Quindi circa duemila, duemilacinquecento battute, anche se non le conto così nel dettaglio. Dato che alla fine conta la qualità, a volte mi va bene anche fare sette righe, se sono buone. Poi ovviamente le attese cambiano a seconda di cosa si sta facendo. Ora sto scrivendo un romanzo per frammenti, e quindi la quantità diminuisce ulteriormente. L’importante è tenere un passo regolare, cercare di mettersi al tavolo tutti i giorni.

Dove scrivi? Hai orari precisi?

Comincio rigorosamente alle ventuno di sera e vado avanti fino alle tre o quattro di notte. A volte, se ho più energie o sono in mezzo a un momento particolamente importante, anche le cinque. Per scrivere ho bisogno di blocchi di ore considerevoli, ci metto molto a trovare il ritmo, a reinnescarmi. Se mi dai due ore non ci faccio niente, neanche comincio. Sei è il minimo per compicciare qualcosa.

Parise ritorna a casa

Questo pezzo è uscito in forma leggermente diversa su Succede Oggi.

Bisogna resistere alla tentazione di adagiarsi sulla propria memoria e provare a rileggerle, queste tredici voci di ambientazione veneta dei Sillabari di Goffredo Parise, anche se pensiamo di conoscerle bene,affinché si rinnovi quel primo stupore ed emerga l’uso che di queste “poesie in prosa” va fatto: prontuario tascabile, disponibile e lampeggiante via d’uscita ai conformismi ideologici e letterari dei nostri giorni, che sono quelli di sempre, gli stessi del tempo dell’autore. Bisogna, poi, rendere merito a chi ha messo su questa nuova iniziativa editoriale, la vicentina Ronzani Editore, cioè questi bibliofili che hanno voluto verificare la propria passione e cominciare così a pubblicare volumetti di altissima qualità tipografica, senza troppe ansie, lentamente: fondata nel 2015, ha cominciato a stampare da pochi mesi, ha in catalogo due soli titoli, ma altri verranno, a partire da settembre.

Oltre al direttore editoriale, avvocato civilista, altri redattori svolgono quella professione, compreso lo stesso Francesco Maino, autore dell’altro libro in catalogo, nonché direttore della collana in cui escono questi Sillabari veneti di Parise, riservata a scrittori originari della regione o i cui libri siano legati a quel territorio: dopo Parise, sarà la volta di Nico Naldini, per esempio.

Dalla parte dei vinti: il reportage “dalla fine del lavoro” di Angelo Ferracuti

Il libro precedente di Angelo Ferracuti si intitola Andare, camminare, lavorare, edito da Feltrinelli e uscito nel 2015, e consiste in una sorta di viaggio in Italia riletto attraverso l’esperienza dei portalettere. Quel libro rappresenta un altro tassello di quell’opera di mosaico che lo scrittore di Fermo sta portando avanti da tempo, con le sua capacità di abile narratore di reportage, in grado di indagare con intelligenza i sussulti sociali e le trasformazioni lavorative italiane.

Attraverso questo interessante punto di vista che si compiva nella frequentazione di Ferracuti di 53 portalettere di cui indagare la storia e il lavoro, il libro, costruito appunto attraverso l’accostamento di questi microcosmi, interpreta l’Italia in movimento, attraverso un metodo che osserva empaticamente con gli occhi degli altri i cambiamenti, ma aggiunge, in punta di piedi e sempre con cognizione di causa, anche una interpretazione personale, mossa da una insaziabile spinta interrogativa.

A proposito delle “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”

Esistono alcuni amori che è bene non rivelare a nessuno, nemmeno alla persona amata. Sono passioni che si sviluppano nei luoghi più ombrosi dell’anima, e vivono pericolosamente sbilanciate dalla parte del sogno. Privati della naturale possibilità del confronto, sono forse gli amori più romantici, destinati a perdere progressivamente ogni tipo di rapporto con la realtà. Terribilmente insicuri, possono essere al tempo stesso particolarmente spavaldi; non comprendono il valore del compromesso, e perciò si assestano spesso su posizioni estreme; non sono in grado di confrontarsi con la natura mutevole della vita, ma preferiscono indulgere in pensieri funebri; non hanno una grande dimestichezza con il tempo, e dunque si impongono la misura dell’eterno.

Sono irrequieti, nostalgici, infantili, teatrali, irragionevoli. Non si prefiggono traguardi concreti, ma perseguono obiettivi dissennatamente irrealizzabili. Idealizzano il sesso, ma in realtà lo temono più di ogni altra cosa. Giudicando il pensiero più appagante della corporeità, all’atto preferiscono la potenza, alla consumazione il desiderio. All’incertezza del futuro, antepongono le coordinate rassicuranti del passato; al rischio dell’esperienza, il conforto della rappresentazione.

Discorsi sul metodo – 19: Rodrigo Hasbún

Rodrigo Hasbún è nato a Cochabamba nel 1981. Il suo ultimo libro edito in Italia è Andarsene (SUR 2016)

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Quante ore lavori al giorno e quante battute esigi da una sessione di scrittura?

Dipende se sto lavorando a un nuovo libro, e da quanto è avanzato il lavoro. Ma in generale non mi faccio guidare da criteri quantitativi: né un numero di ore, né di pagine. Per me la scrittura funziona al di fuori di questa logica di produzione. A volte due o tre righe, o una rivelazione repentina, già fanno una grande giornata di lavoro. Altre volte dieci ore davanti al computer non sboccano in nulla che valga la pena conservare.

Dove scrivi? Hai orari precisi?

Scrivo seduto alla scrivania di casa o in alcuni caffè che mi piacciono. Quando me lo posso permettere, cerco di dedicare le ore migliori del giorno, diciamo da quando mi sveglio fino alle due o tre del pomeriggio, esclusivamente alla scrittura. Non c’è niente di cui sono grato come di avere quel tempo libero davanti a me, e di sapere che non ci saranno interruzioni di alcun tipo.

Fai preproduzione o scrivi di getto?

Scrivo di getto, con l’allegria e l’incertezza di chi va a un appuntamento al buio, o di chi si perde in una città che non conosce.

Il racconto dei volti in letteratura

Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Un uomo seduto a un caffè di Londra osserva la moltitudine che gli sfila davanti finché la sua attenzione si concentra su un vecchio dalla fisionomia così perturbante che l’uomo si alza e prende a seguirlo in giro per la città.

L’uomo della folla di Edgar Allan Poe può essere considerato la metafora di ciò che accade quando la scrittura, irretita da un viso, si getta al suo inseguimento e lo pedina, una parola dopo l’altra, provando a svelarne il mistero. Perché il volto – varco d’ingresso privilegiato al personaggio letterario, luogo della differenza e della permanenza, spazio fisico di continue metamorfosi generate dal tempo e da tutto ciò che accade – è un magnete che costringe ogni tentativo di descrizione a confrontarsi con l’indescrivibile.

Processo agli scorpioni

Un anno fa ci lasciava Luca Rastello, giornalista e scrittore italiano tra i più decisivi e incisivi degli ultimi tempi. Di seguito pubblichiamo un capitolo dal libro Il presente come storia, uscito per le Edizioni dell’Asino, che ringraziamo (fonte immagine).

di Luca Rastello

Sarebbe bello se ogni catastrofe si annunciasse tra fiamme e squilli di tromba, con i segni distintivi dell’eccezionalità e dell’unicità. Ma non è così. Quando arriva, la catastofe, di solito si insinua senza farsi notare fra le pieghe della vita quotidiana, fra un battibecco sull’adeguatezza o meno degli abiti che indossi e il disagio per una battuta infelice pronunciata da una persona di cui avevi fiducia.

Così è la guerra: una cosa che scoppia mentre vai al mercato, mentre pensi a un datore di lavoro insensibile o a una frase memorabile da dire a un partner in amore, una cosa che cambierà la tua vita, l’idea stessa che hai di te stesso, i concetti fondamentali su cui hai basato la tua esistenza: cittadinanza, diritti, o cose più assurde come “Europa” o “Giustizia”, cambierà magari anche la geografia, le mappe del tuo continente, cancellerà città e vite umane, ma intanto si annuncia mimetizzata in un groviglio di eventi quotidiani e banali da cui è così difficile distinguerla. Eppure in quel momento inavvertito è segnato un punto di non ritorno per un’intera civiltà.

L’autonomia della tartaruga: autobiografia di una femminista distratta di Laura Lepetit

In un pomeriggio bollente in cui il monolito mattonellato del teatro Piccolo di Milano sembra un miraggio prodotto dalla mente di un seguace di Escher e le strade di Brera, deserte e dense di silenzio, sembrano pronte a una sfida da O.K. Corall, salgo le scale di un antico palazzo di Corso Garibaldi.

Fra parquet a spina di pesce e soffitti a cassettoni, la Fondazione Adolfo Pini ospita il circolo dei lettori fondato da Laura Lepri (storico editor del panorama milanese, docente di scrittura creativa  e autrice di uno dei più interessanti testi sulla storia dell’editoria in Italia). Un luogo che è diventato, in pochi anni, un punto di riferimento per lettori che non si accontentano della ‘storia’ narrata dallo scrittore, puntando a comprendere cosa c’è dietro.

Alla riscoperta della leggenda-Burroughs

Questo articolo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Quando alla fine degli anni settanta i due aspiranti registi Howard Brookner e Jim Jarmusch decisero di girare un film su di lui, William Burroughs era diventato da tempo più leggendario dei suoi libri.

Dopo una vita di eccessi di ogni sorta passata in buona compagnia di Allen Ginsberg, Jack Kerouac e varia umanità beat, in vecchiaia Burroughs s’era conquistato l’affetto e l’ammirazione di almeno un paio di generazioni più giovani di lui e il lusinghiero epiteto di “padrino del punk”.