87 ore di misericordia

ottantasette

Questo pezzo è uscito su Misericordia, l’ultimo numero di Nuovi Argomenti. Tra i testi presenti, il diario di Enzo Bianchi e la sezione tematica curata da Chiara Valerio e Leonardo Colombati.

di Costanza Quatriglio

C’è una componente istintiva nel trovare il proprio posto, nel sapere dove mettersi, da quale punto di vista sciogliere ogni sforzo d’attenzione. Quando poi l’istinto si fa scelta, l’osservazione svela il suo aspetto politico, perché riguarda questo mondo e non un altro in cui la misericordia avvicina l’uomo a Dio. La misericordia avvicina l’uomo all’uomo, chi non soffre a chi soffre. Ecco perché Francesco Mastrogiovanni, nelle immagini delle videocamere di sorveglianza, è la massima espressione dell’altro che soffre; ecco perché la sua morte è connaturata allo sguardo di quelle videocamere. Ecco perché, più semplicemente, se Mastrogiovanni fosse stato guardato diversamente, oggi sarebbe vivo.

La sfida, nella realizzazione di 87 ore (1), è stata quella di assumere un punto di vista che allontani anziché avvicinare, che esprima, attraverso l’allontanamento, l’impossibilità di uno sguardo alternativo, costringendoci a stare dentro una realtà che esiste solo in quanto rappresentata attraverso un occhio che reifica ciò che filma al pari della contenzione meccanica effettuata ininterrottamente sul corpo di Francesco.

La prima domanda, radicale, a cui sono seguite tutte le altre, è stata con quale realtà dovessi costruire la mia relazione, a quale mondo dedicare il mio sforzo d’attenzione. Le lunghe ottantasette ore d’immagini moltiplicate per nove telecamere esprimevano l’esercizio di un potere inteso non già come mezzo per ottenere un risultato, ma come fine, un potere assoluto che si autoalimenta alimentando il meccanismo. È il potere che elimina alla radice ogni possibilità di misericordia. In quella realtà dovevo costruire la mia relazione, laddove non vi era uno spazio accessibile; anzi, mi era negato.

L’obiettivo è stato quindi individuare i varchi per superare la soglia di quell’unico mondo possibile. Attraverso un processo durato, appunto, ottantasette ore.

In 87 ore la durata ha assunto una funzione rivelatrice del meccanismo che ha portato alla morte di Mastrogiovanni. Lavorare sul tempo è stato necessario, anzi: lavorare il tempo (sono d’accordo con il filosofo Pietro Montani che, commentando il film, ha trasformato il tempo in complemento oggetto). Disvelare le azioni nascoste in quel magma d’immagini che sembrano tutte uguali, sebbene non lo siano. Attraverso il montaggio ho costruito unità narrative diverse, alternando contrazioni e momenti di distensione, velocità e stasi, affinché il nostro sguardo potesse compiere un percorso d’elaborazione lungo l’intera durata del film. È quindi nella struttura narrativa che si compie quello sguardo misericordioso il cui presupposto è lo scorrere del tempo dentro quello spazio che separa l’occhio della videocamera di sorveglianza da chiunque venga filmato.

È lo sguardo che si sofferma.

Vivere ogni esperienza per incarnarne la restituzione: nel film, ad esempio, «l’emozione della morte di Mastrogiovanni non coincide con un istante puntuale ma è un processo che richiede il tempo» (prendo a prestito le parole di Montani), perché solo retrospettivamente ci rendiamo conto che Mastrogiovanni è morto sotto i nostri occhi senza che noi ce ne accorgessimo. In questo modo, abbiamo fatto esperienza del punto di vista delle videocamere di sorveglianza e siamo pronti a elaborarne la crudele indifferenza.

Andando a ritroso nel procedimento di costruzione del film, il primo passo è stato la qualificazione di quel punto di vista. Quei fotogrammi prodotti dalle videocamere di sorveglianza, presi singolarmente, manifestavano un’apodittica pretesa probatoria dovuta al fatto di corrispondere a un immaginario codificato e ormai interiorizzato. Un immaginario sempre più diffuso e ancora, a mio parere, troppo poco elaborato criticamente – se consideriamo di essere, ininterrottamente e ovunque, sorvegliati da videocamere che ci guardano dall’alto.

Pertanto, qualificare quelle immagini secondo il loro presunto valore certificativo, avrebbe significato l’esclusione di ogni sforzo d’attenzione e quindi di ogni possibilità di elaborarne l’orrore attraverso la narrazione.

Ecco perché 87 ore non racconta i fatti – il valore simbolico del corpo martirizzato di Francesco Mastrogiovanni è per certi versi esaustivo – ma la portata di quei fatti, scegliendo una strada in cui comprensione e narrazione finiscono col coincidere.

L’unica via per avvicinare il corpo di Francesco ridotto a cosa, schiacciata in quella bidimensionalità priva di ogni soggettività, era quindi impossessarsi di chiavi di lettura capaci di superare l’immobilità mortifera di quell’orrore e farne materia viva. Come?

Facendo sì che quel punto di vista diventasse esperienza primaria per ognuno di noi e, così facendo, accompagnando ogni singolo spettatore a elaborarlo affinché, fuori dal film, ne potesse scegliere liberamente un altro. In questo liberamente c’è lo spazio per la compassione, che è sentimento ma anche ragionamento e quindi antidoto, frutto di un percorso di chiarificazione ed elaborazione che ci permette di prendere in carico ciò che è avvenuto. Una catarsi offerta dall’elaborazione razionale – e critica – del punto di vista.

Per quanto mi riguarda, mai come in questo caso, la narrazione è necessità, nel senso di scelta, l’unica possibile: la struttura in cinque atti nasce infatti dalla qualificazione di quelle immagini attraverso chiavi di lettura individuate nello studio dei testi – clinici, giuridici, giudiziari – a cui ho avuto accesso durante la preparazione del film.

Il prologo, nella spiaggia deserta, ci mette nella condizione di disponibilità ad accogliere il corpo di Mastrogiovanni perché, in quel vuoto, le voci degli esseri umani, rievocando il prelievo coatto subìto dall’uomo Francesco, preparano il nostro sguardo alla sofferenza che sta per arrivare.

Nel primo atto, siamo catapultati senza paracadute nell’esperienza di quella sofferenza; nel secondo, ci rendiamo conto di aver fatto nostro quel punto d’osservazione: noi guardiamo ciò che gli infermieri guardano dai monitor e, contemporaneamente, guardiamo gli infermieri agire dentro lo spazio dei monitor, – un loop del controllo che nega ogni possibilità di avvicinamento tra esseri umani. Nel terzo, elaborando quel punto d’osservazione, ne elaboriamo gli automatismi legati alla procedura.

Non possiamo non notare come la mancanza di uno sguardo umano sul paziente Mastrogiovanni si esprima nelle non azioni: non avvicinarsi, non toccare, non vestire, non dare da mangiare, non dare da bere. Le azioni, invece, sono legate alla diligenza dell’esecuzione: l’infermiere sposta il comodino per far spazio al letto di contenzione; le addette alle pulizie lavano ripetutamente i pavimenti; gli infermieri poggiano il vassoio del pranzo sul comodino di Mastrogiovanni nonostante lui sia legato mani e piedi.

In coincidenza con la visita di Grazia Serra, la nipote di Francesco a cui è stato impedito di entrare nel reparto psichiatrico, il quarto atto ci consente una fuoriuscita. Fuori dalla porta gialla cerchiamo il contatto con l’umano, a contrasto con il disumano della meccanicità di quell’occhio robotico. È il bisogno di cercare il bene oltre la sventura: una sorella piange il fratello morto; un’anziana madre è tenuta all’oscuro delle torture subite dall’amato figlio; un tribunale mette in discussione il potere assoluto espresso da quel luogo chiuso e autosufficiente.

Nel quinto atto, rientrati nel mondo videosorvegliato, l’unico a guardare Francesco Mastrogiovanni è il paziente psichiatrico appena ricoverato: colui che è dichiarato pazzo sfugge alle regole del reparto e si accorge della fame d’aria, segno visibile della lunghissima agonia che da lì a poco avrebbe portato Mastrogiovanni alla morte.

Quella notte del 4 agosto 2009, dentro uno dei nove monitor posizionati nella stanza degli infermieri, Francesco muore per edema polmonare: annegamento interno preceduto da marea montante. L’acqua, non salvifica, lo inonda. Quella stessa acqua da cui viene strappato la mattina del 31 luglio, come testimoniano le voci sulla spiaggia durante il prologo del film.

Nell’epilogo, fuori dal circuito della videosorveglianza, il medico legale osserva a occhio nudo il corpo senza vita e, guardando le ferite inflitte dalle cinghie di contenzione su polsi e caviglie, si predispone a interrogare il cadavere attraverso l’osservazione autoptica.

È quello lo sguardo misericordioso? Sì, se riconduce la creatura Mastrogiovanni alle leggi dell’universo. Attraverso lo sguardo dell’essere umano, il medico legale mette le cose a posto, nel senso che rimette ogni cosa al suo posto, secondo la legge di causa-effetto che per ottantasette ore è stata negata, in quel mondo dell’insensatezza.

In sala di montaggio dicevo scherzando che la voce del medico legale è la voce di Dio, un dio sporco e contaminato con un forte accento del sud, che si mangia le parole pur cercandone l’esattezza: della morte di Mastrogiovanni può dirci ogni cosa, perché non c’è nulla di più prossimo all’amore di Dio di uno sguardo umano che comprenda davvero ciò che osserva, annullando ogni distanza, dando alla prossimità di un’autopsia la stessa dimensione dell’atto creatore.

Ho provato una grande gioia quando ho individuato le chiavi d’accesso a questa mole così crudele d’immagini. Uso questo termine – gioia – in senso weiliano: folgorante Simone Weil che definisce gioia il sentimento dell’esserci, il percepirsi nelle cose, dentro le cose; un abitare che può farsi rimedio – pur senza consolazione – per il cuore e la mente. La gioia di aver trovato la chiave per la narrazione è stata pari solo alla paura di affrontarla e a un implicito senso di inadeguatezza o forse di colpa per aver scelto di farlo, cercando di proteggere le persone a me care da quelle immagini e dal film stesso.

Nonostante questa gioia, rimane l’amara consapevolezza di aver costruito la mia relazione con l’immagine anonima di un corpo ridotto a oggetto, non con una persona.

Un corpo che nulla ha a che fare con l’esistenza di Mastrogiovanni; il che ci sbatte in faccia la questione del potere in tutta la sua agghiacciante evidenza: il corpo soggiogato non ci appartiene più. Durante le settimane di promozione del film, spesso mi sono concentrata sul fatto che si pronunciasse il nome di Francesco Mastrogiovanni.

Per qualche tempo, ho pensato che questo potesse essere un modo per riavvicinarlo ai vivi, poi, con il passare dei giorni, ho realizzato che Mastrogiovanni sia sì un nome ma, non essendo un volto, sarà sempre e solo quel corpo agonizzante prima e senza vita poi, a incarnare simbolicamente uno sguardo privo di misericordia.

Mi sono così spiegata perché nel sottotitolo «Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni» avessi scelto di chiamarlo Francesco, mentre per i familiari e per chi gli vuol bene è e sarà sempre, più affettuosamente, Franco. Quasi avessi voluto scindere la vita dell’uomo da quel corpo martirizzato, coerentemente con quanto afferma la nipote Grazia Serra: «in quelle immagini non vedo mio zio». Nulla sappiamo di lui; a malapena conosciamo il suo volto: un volto grande come un francobollo su un manifesto che vediamo per pochi fotogrammi, a restituirci quanto lontano sia l’uomo da ciò che è accaduto.

Perché senza volto, non c’è riconoscimento.

E senza riconoscimento, non può esservi misericordia. Torniamo così da dove siamo partiti: per avvicinarsi all’altro bisogna collocarsi in uno spazio da cui è possibile essere riconosciuti, perché è il mutuo riconoscimento il terreno fertile per ogni relazione.

Lo spazio e il tempo sono necessari allo sguardo misericordioso perché avvicinando l’altro, nel tempo che si fa relazione, lo sguardo misericordioso può compiersi in tutta la sua pienezza. L’attenzione ne è il presupposto; si differenzia dall’ascolto perché non è un atto ma un processo, indispensabile perché lo sguardo si apra e arrivi a toccare l’altro facendosi parte di un mondo comune.

Nella durata lo sguardo misericordioso può colmare ogni distanza.

Tra il 2005 e il 2006, per più di un anno ho realizzato le riprese de Il mondo addosso, film documentario che intreccia storie di minori stranieri non accompagnati. Molti di loro erano ragazzi afghani sfuggiti alle terribili persecuzioni dei talebani dei primi anni duemila. Mohammad Jan Azad aveva il compito di ascoltare le testimonianze dei suoi coetanei arrivati da noi, nascosti tra le assi dei camion partiti da Patrasso.

Durante un lunghissimo colloquio privato con un ragazzo appena sbarcato, ho filmato per molte ore il piano d’ascolto di Jan, cioè il suo primo piano nell’atto di ascoltare la testimonianza dell’altro: il viso di Jan era leggermente sollevato – io e lui eravamo seduti per terra e il giovane profugo era seduto su una sedia –, i suoi occhi erano puntati verso l’alto, nella direzione del fuori campo da cui proveniva il racconto doloroso della guerra e del viaggio: l’assoluta concentrazione dello sguardo di Jan rivolto a quel giovane, mi ha permesso di condividere il suo sforzo d’attenzione in quella che per me è diventata un’unica preghiera, in una lingua a me sì sconosciuta ma semplicemente e misteriosamente vicina.

È stato come disvelare, attraverso il perdurare del volto di Jan, la sofferenza di quel volto fuori campo, reso visibile dallo sguardo misericordioso di chi lo ascoltava, che io ho potuto filmare solo perché quello stesso sguardo mi ha riconosciuto. Quel giorno infatti, in ciò che chiamo mutuo riconoscimento, c’è stata la restituzione di un lungo percorso di avvicinamento, compiuto, giorno dopo giorno, in quella relazione unica e irripetibile che mi ha permesso di dare un volto a ciò che era naturalmente invisibile.

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Note

1

In 87 ore, attraverso l’utilizzo delle immagini di nove videocamere di videosorveglianza, ci viene raccontata la storia di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare che, in seguito a un tso, viene ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, la mattina del 31 luglio del 2009.
In ottantasette ore, nelle quali Mastrogiovanni resta sempre legato mani e piedi al letto di contenzione, si consuma la sua tragica morte, avvenuta in seguito a un edema polmonare, la notte del 4 agosto.
Il film, scritto e diretto da Costanza Quatriglio da un soggetto firmato dalla regista insieme con Luigi Manconi e Valentina Calderone, presenta la testimonianza di Grazia Serra, nipote di Mastrogiovanni.
Prodotto da DocLab con il patrocinio di Amnesty International e la collaborazione di RaiTre, è stato distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 23 novembre 2015, trasmesso da RaiTre il successivo 28 dicembre e pubblicato in Home Video nell’aprile 2016. 87 ore ha ricevuto il Premio Speciale dei Nastri d’Argento.
Per la morte di Francesco Mastrogiovanni sono stati imputati e processati i 6 medici e i 12 infermieri che si sono alternati durante il suo ricovero.
Il Tribunale di Vallo della Lucania, con sentenza di primo grado emessa il 30 ottobre 2012, ha definito la contenzione a cui è stato sottoposto Francesco Mastrogiovanni «illecita, impropria e antigiuridica», configurante il reato di sequestro di persona.
I medici sono stati condannati per falso ideologico in atto pubblico, sequestro di persona, morte per conseguenza di altro delitto.
Sono, invece, stati assolti tutti gli infermieri poiché, secondo il Tribunale, «pur essendo esecutori di un ordine criminoso, agivano ritenendo di obbedire a un ordine legittimo».
Il 10 marzo 2015 è iniziato il processo presso la Corte d’Appello di Salerno. Durante la sua requisitoria in appello il Procuratore Generale ha chiesto, tra l’altro, la condanna degli infermieri perché «non sono meri esecutori di ordini dei medici, ma professionisti autonomi che avevano il dovere di rendersi conto delle condizioni del paziente».
Il processo d’appello è ancora in corso.

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