La tossicità della condiscendenza

Pubblichiamo una recensione di Luca Alvino su «Melancholia» di Lars von Trier

Esiste una rotta privata dell’esistenza, dalla quale sarebbe opportuno non allontanarsi mai. È la rotta che transita lungo il corso degli eventi senza metterne in discussione il senso e la necessità. Se tale rotta viene smarrita, l’equilibrio di una persona può essere seriamente compromesso, e le si prospettano dinanzi due possibilità: l’inizio di un percorso di maturazione o la resa alla deriva dello smarrimento. Il percorso di maturazione deve consentire all’individuo di costruire certezze autonome, diverse da quelle ricevute in eredità, e basate su scelte individuali; e deve rafforzare in lui la facoltà di riscoprire ogni giorno il significato dell’esistenza, giacché non ne esiste più uno preconfezionato al quale ricorrere meccanicamente. Se tuttavia non si possiedono le risorse per compiere questo itinerario faticoso – o si è perduta la capacità di sospendere la propria incredulità quel tanto che serve per conferire nuovamente alle cose un significato accettabile – c’è il rischio di cadere nella malinconia. La malinconia è una forma grave di depressione che consiste in un doloroso abbattimento fisico e psichico, e nella perdita di interesse nei confronti di sé stessi e delle vicende del mondo esterno. E Melancholia è anche il titolo dell’ultimo lavoro di Lars von Trier, un film sull’ingombro della mortalità, sull’ineluttabilità della consunzione e della fine. E sugli stratagemmi dell’uomo per dimenticarsene.

La storia si divide in due parti. Nella prima, Justine celebra le proprie nozze con Michael in uno scenario da favola, una splendida villa con affaccio mozzafiato circondata da un enorme campo da golf. Il matrimonio è organizzato in ogni dettaglio da Claire – la sorella di Justine – e da suo marito John. Tutto sembra perfetto: gli sposi sono bellissimi e Justine dispensa sorrisi luminosi ad amici e familiari. Ma tanta bellezza a poco a poco si rivela esagerata, eccessiva, e non riesce a districarsi nelle pastoie delle convenzioni sociali in cui si muovono i personaggi. I silenzi sempre più imbarazzanti della sposa rivelano a poco a poco il suo stato di profonda depressione, la sua sostanziale incapacità di interpretare in modo convincente il proprio ruolo nella cerimonia nuziale, e più in generale la sua completa inadeguatezza a partecipare alla rappresentazione dell’esistenza. Radici nodose e prepotenti la vincolano alla terrestrità del suolo e le incutono una profonda insofferenza verso ogni umana consuetudine che emani anche un vago sentore di analgesica assolutezza. Lo sforzo di condividere con gli altri un senso coerente e duraturo le provoca solamente angoscia e desiderio di evasione, e il tentativo di combattere questa condizione tormentata è destinato a fallire miseramente. In una sola sera la donna riesce a distruggere i suoi affetti più cari, l’amore, la carriera, il matrimonio.

È la natura stessa di Justine a impedirle di credere nel loro valore, una natura che ha smesso da tempo di fidarsi delle sovrastrutture e alla quale non rimane che smantellare sistematicamente il castello dei significati. Le forme destinate a farsene carico, infatti, si rivelano troppo ingombranti, e non passano per le anguste strettoie della sua acuita sensibilità; come la limousine che conduce gli sposi alla sontuosa dimora in cui si svolge la festa, che a causa della sua eccessiva lunghezza rimane incastrata in una svolta troppo angusta della strada.

Nella seconda parte del film, un pianeta enorme – appunto, Melancholia – si approssima pericolosamente alla Terra, e le orbite dei due corpi celesti sembrano destinate a incrociarsi in una traiettoria potenzialmente fatale. Gli scienziati invitano la popolazione a non allarmarsi, affermando che si tratterà solamente di un passaggio ravvicinato, ma su internet iniziano a circolare con insistenza voci apocalittiche. Non si prospettano tuttavia scenari disastrosi di livello globale, con scene di panico collettive. L’ambientazione della storia rimane sempre interna a un contesto familiare. Claire, la sorella apparentemente più forte di Justine, davanti alla prospettiva catastrofica della distruzione della Terra deve appoggiarsi alla sicurezza del marito per non lasciarsi sopraffare dalla crescente inquietudine. Di fronte alla minaccia del disastro, John assume un atteggiamento sprezzantemente illuminato, da uomo del ventunesimo secolo, e si rifugia nelle certezze consolatorie della scienza. Si abbandona alla tranquillizzante sistematicità di un approccio razionale e fa affidamento solamente sulla propria intelligenza: non esiste nulla che non possa essere controllato con lo studio e la razionalità.

«John studia le cose, lo ha sempre fatto», dice Claire a Justine a un certo punto, traendo dalla propria affermazione un evidente conforto. Studiare significa dare forma all’ignoto, inquadrarlo in coordinate razionali che consentano di confrontarsi con esso dopo averne solidificato la massa indistinta, raffreddato la superficie e smussato le asperità. Lo studio permette all’individuo la conoscenza tramite il filtro dell’ermeneutica, nel quale si annida minacciosamente lo spettro del malinteso. Un procedimento che fissa la realtà in immagini statiche allo scopo di stabilire traiettorie e azzardare previsioni, trascurando l’aspetto più peculiare del divenire, ovvero la sua magmatica imprevedibilità.

A tale irritante apoditticità Justine non riesce a adeguarsi, e questa sembra essere la radice più profonda della sua incapacità di affrontare la vita. Come è possibile ipotizzare un mondo intriso di significato quando se ne percepisce con tale evidenza la natura arbitraria e provvisoria? Ciò che per John è solida struttura, per Justine non è altro che un puntello temporaneo. Dal suo punto di vista, la donna non può evitare di sentire quanto sia vano credere nella durevolezza di una forma, illudersi che essa possa davvero contenere in modo definitivo un senso che per sua natura è instabile e metamorfico. Non riesce a sentirsi moglie perché tutti si aspettano che lo faccia; lascia il proprio lavoro subito dopo aver ricevuto una promozione; rifiuta il suo piatto preferito quando le viene offerto come consolazione; percepisce ogni gratificazione come una frode e non riesce a tollerare la tossicità della condiscendenza. Ciò non significa che Justine non si relazioni con il mondo; ma solo che preferisce farlo con maggiore lealtà.

Fugge dalla banalità di un rapporto sessuale con Michael in una prima notte di nozze organizzata fin nelle minuzie, ma sa abbracciare con tenerezza il cavallo Abraham o il nipote Leo, perché queste relazioni non sono determinate dall’astratta rigidità di ruoli predefiniti, ma passano per l’immediatezza di una reciproca, istintiva predilezione. Justine non «studia» le cose; lei «sa» le cose. Ovvero le lascia libere di maturare nella loro complessità; non le semplifica riconducendole maldestramente alle proprie convinzioni; si confronta con esse senza imbrigliarle nei rigidi schemi dell’interpretazione; è consapevole della caducità del senso e delle definizioni. Di fronte alla minaccia apocalittica di Melancholia non si perde in complicati quanto inefficaci calcoli astronomici, né si abbandona al terrore di vedere lo sgretolamento delle proprie certezze. Viceversa, inizia a flirtare col pianeta: dapprima pregustando il potere terapeutico del suo potenziale di distruzione; e poi in maniera addirittura sensuale, nella scena memorabile in cui si distende nottetempo a ricevere sulla pelle nuda il balsamo della sua luce rivitalizzante.

Per comprendere questo concetto, occorre ripensare a un passaggio chiave de Le onde del destino, quello in cui Bess entra in chiesa e sente un uomo affermare dal pulpito: «C’è solo un modo per noi, peccatori quali siamo, per raggiungere la perfezione agli occhi di Dio: attraverso l’amore incondizionato per il Verbo, la parola scritta, e attraverso l’amore incondizionato per la legge». Bess, incredula, reagisce dicendo: «Come si può amare una parola? Non si può amare delle parole. Non si può mica innamorarsi di una parola. Si può amare un altro essere umano. Questa è perfezione».

Poiché l’amore porta in sé una potente illusione di assolutezza, è difficile concepirlo al di fuori di una dimensione sovrumana. Per questo gli uomini, abituati a credere piuttosto che a pensare, preferiscono idealizzarlo, incanalarlo nel binario morto della trascendenza, e rinunciano in tal modo al suo più fecondo potenziale relazionale. L’amore per la legge, per la parola scritta, si indirizza verso i ruoli piuttosto che verso gli individui che li interpretano, insegue le definizioni piuttosto che le cose che rappresentano, costituisce un’astrazione immobile piuttosto che una dinamica effettività. Ma i ruoli e le definizioni vengono smentiti continuamente dall’incoerenza della storia, e dunque l’amore che non accetta il confronto con il divenire è destinato lentamente a marcire e a trasformarsi da terreno fertile in putrida acqua stagnante. Chi sviluppa una progressiva insofferenza verso questa pericolosa contraddizione diviene a poco a poco incapace di rassegnarsi a una conoscenza basata sulla troppo rigida granularità delle categorie, e non riesce più a non percepire come insopportabile sconfitta determinate astrazioni ed etichette. Per questo Justine non può tollerare l’idea di assumere un ruolo definitivo nella storia, né di subire l’oltraggio degli stereotipi e della semplificazione.

Melancholia, questo pianeta enorme e spaventoso in rotta di collisione con il genere umano, ma anche astro affascinante, meraviglioso nella sua siderale magnificenza, si affaccia d’improvviso a ingarbugliare la meschina ritualità della contingenza e delle traiettorie definite. Esso rappresenta quella potenza astrale in grado di restituire la Terra all’originaria dimensione del caos e dell’indistinto, nella quale non sussistono grumi di senso ingannevoli e aleatori. «La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei. Nessuno sentirà la mancanza», afferma Justine. Ovvero la Terra, condensata in una forma compatta e apparentemente durevole, ha illuso spietatamente i propri abitanti sulla possibilità di edificare costruzioni – fisiche e mentali – su tale presunta consistenza. Melancholia non costituisce la metafora monumentale di quel male strisciante e insidioso che è la depressione, quanto l’anticorpo in grado di disinnescare la rovinosa potenza del suo propellente. E lo fa andando a scardinare gli illusori rapporti di causalità sui quali si fonda l’esistenza, smascherandone i falsi presupposti di assolutezza e ponendo un termine definitivo alla loro tirannica mistificazione.

Commenti
4 Commenti a “La tossicità della condiscendenza”
  1. pes ha detto:

    Molto bella la recensione, grazie. Anche il film è bellissimo, assolutamente coinvolgente, uno dei migliori che abbia visto ultimamente.

  2. Gian Maria ha detto:

    Un articolo molto istruttivo su un film eccezionale (non tutti quelli Von Trier lo sono a mio avviso, ma questo lo è). La tua rilettura del tema della malinconia è a tratti illuminante, anche se come riepilogo, per chiamare le cose coi loro nomi.

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