Un estratto da “Filosofia del gaming” di Tommaso Ariemma

Pubblichiamo un estratto da “Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation” di Tommaso Ariemma, uscito per Tlon.

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Super Mario Hegel

Sono stati i ragazzi chiusi nelle loro camere, davanti allo schermo del loro computer, ad aver dato al mondo il suo volto di oggi. 

Ogni contatto diretto può essere evitato, ogni conversazione può essere gestita attraverso le applicazioni di messaggistica, tutto viene mediato dalla tecnologia secondo algoritmi, cioè procedure regolate e razionali. 

Negli anni Ottanta e Novanta queste strategie quotidiane erano per “i ragazzi con gli occhiali” delle vere e proprie fughe dalla “realtà”. 

Gli schermi del computer permettevano di essere tutto quello che non si era in grado di essere: i ragazzi erano dei nerd nella misura in cui preferivano i videogame alle feste e allo sport dal vivo, gli scontri anche cruenti purché basati su giochi di finzione rispetto a un confronto faccia a faccia. 

Negli anni Ottanta e Novanta nessuno avrebbe scommesso su questo modo di vivere: lo stile di vita ricercato era ancora quello che poteva regalare sensazioni intense, puro godimento. Tutto quello che poteva apparire ripetitivo e meccanico veniva visto con sospetto, soprattutto se ottenuto davanti a un computer. La realtà era qualcosa di diverso dalla sua controparte digitale che si stava lentamente formando e arricchendo.

Il mondo alla fine del secolo scorso sembrava letteralmente spaccarsi in due dimensioni. Sappiamo come è andata a finire: una delle due ha preso il sopravvento sull’altra, creando una strana sintesi: la ricerca di sensazioni oggi passa attraverso gli schermi. 

La “realtà” corrisponde sempre di più a ciò verso cui i nerd correvano: un mondo fatto soprattutto di immagini su uno schermo. 

Ha vinto l’impulso al gioco di cui parlava Schiller: è stato proprio questo impulso sono stati proprio i videogame, le interfacce pensate come dei videogame a far sì che le due dimensioni si unissero sempre di più. 

Il gaming ha rimesso in moto la Storia (mettendola letteralmente in gioco), quella Storia che più di qualche teorico aveva visto “finire” agli inizi degli anni Novanta, tirando in ballo la filosofia di Hegel o meglio, quella di un suo grande interprete: Alexandre Kojève. 

Per Hegel la Storia è il risultato di una dialettica, di una lotta per il riconoscimento tra le parti in gioco che continuamente si affrontano, negando lo stato di cose esistenti (come quelle celebri di un signore e di un servo). 

L’attività umana è un’attività “negatrice”: è capace di dire “no” dinanzi a ogni cosa, a tutto ciò che le viene imposto. 

L’essere umano, così come lo intende Hegel, assomiglia molto al protagonista di Elden Ring: è letteralmente, come quest’ultimo, un “senza luce”, perché in lui alberga la libertà, che Hegel non esita a definire «la notte del mondo»: qualcosa di spaventoso, perché è la negazione di ogni destino. Il filosofo usa proprio quest’espressione nel suo corso di lezioni a Jena (1805-1806): «L’uomo è notte».

Per Kojève, lettore di Hegel nella Parigi degli anni Trenta, la Storia finisce nel momento in cui non esiste più nessuna vera opposizione al mondo, così come si è realizzato: la notte si trasforma in un dolce sogno. 

La democrazia liberale, il sistema economico capitalistico, lo stile di vita basato sul consumo sono considerati insuperabili, soprattutto dopo il crollo dell’Unione sovietica nel 1991. È la realizzazione dell’american way of life a livello planetario, proprio come l’aveva individuata Kojève. 

Viaggiando in Giappone, verso la fine degli anni Cinquanta, Kojève vede, tuttavia, uno stile di vita opposto, che ancora conserva una sorta di negazione del mondo: quello incarnato, ad esempio, dal rito cerimoniale del tè. Lo stile di vita giapponese gli appariva ricco di formalità, di distanza dal vivere immediato. Un’immagine, tuttavia, decisamente turistica

Il Giappone, infatti, dopo la tragica sconfitta della Seconda guerra mondiale sarebbe cambiato radicalmente e soprattutto sarebbero cambiati sempre di più i suoi giovani e i loro consumi: manga e anime si sarebbero affermati in un modo davvero sorprendente e diversi giovani giapponesi sarebbero diventati degli otaku, chiusi nelle camerette a consumare le loro storie e le loro immagini. Uno strano ibrido tra godimento immediato e riti di distacco dal mondo, tra cultura occidentale e orientale. 

La Storia sarebbe ripartita da lì, non dalla conservazione dei riti tradizionali osservati da Kojève: dai ragazzini davanti al computer e dagli otaku giapponesi. Per questi motivi, l’industria videoludica trova terreno fertile e un momento di grande rilancio dopo una grave crisi negli Stati Uniti proprio in Giappone. Quest’ultimo, da Paese sconfitto militarmente, fa sue e potenzia le strategie culturali del vincitore.

Negli anni Ottanta la Nintendo, celebre azienda videoludica giapponese, si afferma in modo definitivo anche grazie a un game designer: Shigeru Miyamoto, il creatore di videogame leggendari come Super Mario Bros

Mario, il protagonista del gioco, è un “idraulico” che deve riuscire in una missione impossibile, un individuo molto comune in cui i giocatori possono identificarsi e lottare contro nemici molto potenti.

La sua grafica fa la differenza. Mario non sembra tanto un essere umano: assomiglia di più a un pupazzo. È carino kawaii direbbero i giapponesi: ha tratti molto simili ai protagonisti di manga e anime

Qualcosa che non si presenta come un vero Altro e che, dunque, facilita l’identificazione. «I personaggi resi meglio graficamente nei videogiochi», sottolinea J. C. Herz, «sono generalmente i nemici. I buoni vengono sempre arrotondati, semplificati, resi infantili, un guanto visuale simile al pongo nel quale infilare mani e volto». 

L’essere “carino” di Mario è se vogliamo usare la definizione del filosofo Simon May «l’espressione giocosa della mancanza di chiarezza», che fa della categoria del “carino” una vera e propria arma di seduzione globale.

Super Mario Bros. è un gioco profondamente hegeliano anche, e soprattutto, nel suo gameplay davvero innovativo: per la prima volta l’avventura non si svolgeva nel quadrato statico delle schermate che si avvicendavano, ma “scorreva” orizzontalmente sullo schermo. La Storia aveva ripreso a scorrere in una direzione precisa: quella indicata dai videogame.

Commenti
2 Commenti a “Un estratto da “Filosofia del gaming” di Tommaso Ariemma”
  1. Alessandro Montani ha detto:

    Mi sembra più un manifesto che un testo filosofico.

  2. Tommaso Ariemma ha detto:

    Nulla vieta che un manifesto possa essere un testo filosofico. Nella storia della filosofia troviamo diverse opere scritte nella forma del manifesto, da Marx a Badiou. Mi piace molto comunque l’associazione al manifesto. Ha ragione, non ci avevo pensato.

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