Edizioni WoM, non tutti i libri escono col buco

Non ho mai capito perché si dice che un libro non si giudica dalla copertina; come fa un libro di cui non sappiamo nulla a comunicarci subito qualcosa se non attraverso la copertina? Che poi l’errore sta nel verbo giudicare. Un giudizio è qualcosa che, se proprio, si dà a posteriori. Comunque. Se è vero che tra gli editori italiani prevale una pavida prudenza circa la sperimentazione, forse per paura di perdere il lettore più attratto da meccanismi ben rodati, è anche vero che di recente il nostro panorama editoriale ha visto la nascita di nuovi attori indipendenti che puntano molto, tra le altre cose, su scelte di design originali e non convenzionali.

Un esempio sono i ragazzi di Utopia, che ho già intervistato qui, ma anche quelli di Edizioni WoM, casa editrice nata a marzo 2021 e sviluppatasi da un laboratorio di studio del linguaggio giornalistico, con montaggi video di pamphlet-pastiche di telegiornali o trasmissioni radio (qui un esempio) e i giornali WoM in versione digitale, da cui deriva il nome, acronimo di Word of Mouth, ovvero “passaparola” in inglese. Per dirlo alla francese invece la rumeur  – ci dice Matteo Pinna – quel “brusio”, il meccanismo della chiacchiera attraverso cui si sviluppa la fantomatica e onnipotente divinità del moderno: l’Opinione Pubblica (da immaginare con le fattezze con cui appare nell’Orphée aux enfers di Offenbach…). Segue la mia intervista a Matteo.

Come nasce WoM?

WoM Edizioni nasce dopo quel progetto decennale di laboratorio, con lo scopo di sviluppare in ambito letterario la stessa linea anarco-patafisica. La nascita della casa editrice è la conseguenza poi dello sviluppo umano dei membri originari di WoM e di nuovi incontri oltreché dell’acquisizione, nel corso degli anni, di tutto il savoir-faire tecnico necessario alla costruzione di una casa editrice, ovvero la costituzione di un pool di persone capaci di leggere e tradurre, sommandole tutte, una decina di lingue differenti – dalle 5 più canoniche ad alcune dell’est Europa e dell’estremo oriente –, di un’équipe di tecnici grafici e informatici capaci al contempo di maneggiare tutti gli strumenti di impaginazione e montaggio e la programmazione informatica per la costruzione del sito che abbiamo voluto modellare (ed è in constante rielaborazione) secondo le necessità grafiche della casa editrice stessa.

È singolare, ma molto caratterizzante, la scelta del buco in copertina (che poi gioca bene col vostro logo, essendo la O di WoM). Da dove nasce questa idea, e in generale la vostra linea grafica?

Abbiamo una visione di insieme che guida il lavoro di design dell’oggetto-libro in quanto contenitore, oltre che contenuto. Tuttavia, l’idea in sé del foro è stata concepita con un pensiero al contempo iconoclasta e iconodulo – da cui la doppia copertina fustellata nel gioco di vedo/non-vedo.

L’iconoclastia si esprime nell’idea di avere una copertina sostanzialmente sobria e monocroma a discapito della mania imago-eiaculatoria da cui è caratterizzato il mondo delle copertine di libri – dove spesso le uniche collane o case editrici che non hanno immagini in copertina sono quelle scientifiche o istituzionali/universitarie, come se la sobrietà debba andare di pari passo col peso contenutistico della pubblicazione – mentre noi abbiamo voluto giocare con questa apparente sobrietà con uno spirito di pura ortodossia bizantina iconoclasta – come delle novelle imperatrici Irene di Costantinopoli, a mo’ di sfida alla dottrina che vuole che un libro debba avere una bella immagine accattivante per attirare le allodole…

Al lato opposto invece l’iconodulia, il tripudio e il gioco della copertina interna stampata sull’aletta, concepita come un’immagine cultuale che non deve essere disturbata né dal titolo né dall’autore, né da loghi o altro, ma lasciata libera di ritrovare il proprio statuto di immagine disfunzionale a qualsiasi utilizzo o richiamo ad altro uso che non sia quello della sua stessa apparizione.

Infine, a fare da connubio tra queste due opposte tendenze, l’oculo del logo, pensato secondo una forma procedurale di tipo erotico, come il classico «buco della serratura», nonché ispirato alla schopenhaueriana descrizione psichica del desiderio come proiezione del manque – o quella messa deliberatamente in scena nell’ultimo capolavoro postumo di Marcel Duchamp: Étant donnés: 1° la chute d’eau, 2° le gaz d’éclairage . . .

Infine, vi è un’altra motivazione che ha più a che fare con un ragionamento di natura gestuale che in qualche modo si impone e vogliamo suggerire al lettore, ossia quella di coinvolgerlo in questa forma di svelamento, di modo che le copertine fungano, più che da semplice réclame, da tabernacolo in cui si condensi l’immaginario del volume – motivo questo anche che ci ha spinto ad utilizzare la “O” del logo come oculo da un lato e dall’altra ad avere tendenzialmente un controllo e un’elaborazione, o rielaborazione, completa delle copertine interne, piuttosto che avere un utilizzo delle immagini di tipo “museale”, incorniciate nelle griglie tipografiche e tratte da un repertorio esistente (nella classica modalità alla edizioni SE o Adelphi) – emblematica in questo senso sono ad esempio le copertina del volume di Mark Twain, 3000 anni tra i microbi e quella di Uccidiamo lo zio della O’Grady.

Il vostro catalogo al momento conta tre collane, raccontamele un po’. Avete già in programma di espanderlo ulteriormente?

Il nucleo delle tre collane si articola sul concetto di Comico, da intendersi in modo ampio e preciso, non come sinonimo del “buffonesco”, del “satirico”, o di altre forme di “burla e scherzo”, bensì come carica precipua che secondo lo scrittore ceco Kundera è la cifra fondamentale della Letteratura in quanto forma di conoscenza che la plasticità del suo linguaggio rende, per sua stessa natura, difficilmente sottilizzabile – ovvero quale terza via della conoscenza, sorta di Gnosi serpeggiante che elabora l’incertezza e la devianza in quanto modalità di apprendimento della realtà, a scapito della altre due che sono la Scienza e la Filosofia nelle loro più seriose e lineari procedure.

Perché il Comico non è “ciò che fa ridere”, ma un punto di vista glaciale sulla realtà: comici, in questo senso, sono Kafka, Leopardi, Baudelaire, Cioran, l’Ecclesiaste, Sterne, Pascal… comico è tutto quanto si oppone al tragico, tutto quanto non permette una fuga catartica o una risoluzione della realtà e di una sua chiusura lineare e logica in un sistema, sia esso scientifico o filosofico – di tutto quanto insomma ha il sentimento dell’irreparabile, il che implica una certa forma d’assiderata lucidità e di ofidica intelligenza: «COMICO. Offrendoci la bella illusione della grandezza umana, il tragico ci offre una consolazione. Il comico è più crudele: ci rivela brutalmente l’insignificanza di tutto». (Milan Kundera, L’Art du Roman, Gallimard, Paris, p. 150).

Fatta questa premessa, la collana dei Neri si iscrive perfettamente in questo solco (e nelle sue sottilità e declinazioni), in primis con Mark Twain che nella costellazione del Comico è di certo uno dei capostipiti e capisaldi. Poi con la scrittrice canadese Rohan O’Grady il cui romanzo, Uccidiamo lo zio, inedito finora in Italia, elabora una visione pinocchiesca della realtà. Ma poi sarà così anche per il romanzo di B. Traven che pubblicheremo in novembre, in cui persino la violenza dello sfruttamento e della rivolta vengono declinati con uno sguardo machiavellico, dove il buffonesco e il sublime trovano un loro equilibrio alchemico.

Anche  la collana dei Rosa, che si occuperà sempre di narrativa e saggistica ma concentrandosi sulla pubblicazione di testi che hanno a che fare con corpo e sessualità, mantiene un forte legame col Comico, assumendo però come fonte di riferimento e di ispirazione la Corporalità elevata a sublime materia – in un senso che è stato stupendamente esplicitato da Michail Bachtin nel suo studio sull’opera di François Rabelais (autore, quest’ultimo, da cui WoM ha preso il Motto del suo Emblema «HIC BIBITUR» tratto dal Libro Primo del Gargantua e Pantagruel). Qui il Corpo è da intendersi nella sua dimensione di abbassamento carnevalesco dell’Essere che permette la considerazione suprema di tutto ciò che è corporale, intenso nella sua dimensione carnale primaria e il meno possibile sublimata. Ragion per cui il testo che abbiamo scelto per aprire la collana sono le Confessioni di un omosessuale a Émile Zola, che pur leggendosi come un romanzo intimista è una vera e propria confessione in cui un Anonimo aristocratico napoletano si racconta, denudando la sua passione e i suoi amori omosessuali con una sincerità esplicita, in un’epoca in cui la questione era ancora penalmente passibile di denuncia e psicologicamente medicalizzata.

Infine, la collana degli Ivory, incentrata su albi illustrati e libri d’arte (le cui due prime pubblicazioni sono Kaguyahime, Principessa Splendente dell’illustratore Philip Giordano e l’ultimo capolavoro del Maestro Hokusai, le Cento vedute del Monte Fuji), si iscrive nello stesso movimento, giocando però sul comico insito nell’immagine a discapito della serietà delle parole (antica disputa che affonda nella diatriba platonica della paranoia del simulacro). Dal momento che le immagini rispetto alle parole, per loro stessa natura, si offrono con una leggibilità molto più sfrangiata e ambigua, che per questo stesso motivo le rende autonomamente più inclassificabili e sfuggenti.

Come selezionate i testi da pubblicare?

Questa domanda chiama direttamente in causa la magia nera!

Tendenzialmente se la lettura di un testo è capace di risvegliare i demoni viene calendarizzata, se poi, ad una seconda lettura, supera persino la prova delle interiora di volatile del nostro aruspice di fiducia, viene presentata al comitato di lettura della casa editrice – e a quel punto si tenta la prova del fuoco, per poi passare direttamente a quella segretissima dell’ordalia. Se tutte queste prove vengono superate, allora e solo allora, il volume assume il grado porporato cardinalizio diventando così papabile.

A quel punto viene lasciato bollire nel calderone psichico dell’ecclesia di WoM con ripetuti riti di purificazione, sacrifici, inni, prebende ecc. – in attesa dell’intervento dissacratorio dello Spirito della santa abazia di Thélème che lo eleggerà al soglio ultimo dell’entrata in catalogo.

Sul vostro sito c’era anche un contest (Romanzo breve, anzi brevissimo), i cui primi cinque classificati verranno pubblicati in un’antologia di inediti. Si tratta di un unicum o di un modus operandi che riproporrete? E, in tal caso, sempre focalizzandolo sulla brevitas?

Non si tratta di un metodo, ma probabilmente neppure di un unicum. Dipenderà molto dal risultato, e non tanto dal risultato dei racconti in sé, bensì del progetto nato – ora che il contest si è concluso possiamo dirlo – seguendo un’idea di Queneau nel suo ruolo di consulente presso la casa editrice Gallimard.

Queneau aveva un teoria riguardo alla scoperta di una scrittura di valore: diceva che bastava leggere una quindicina di righe di un romanzo per capire da un lato se valesse la pena di continuare e venticinque righe per capire se lo scrittore fosse uno scrittore e non uno scribacchino…

Ora, questo metodo ha di certo il valore di una boutade, ma ha anche una certa dose di verità ed è questa dose di verità che il contest vuole andare a cercare. L’idea insomma è, oltre a creare una brevissima antologia che riproponga la brevitas quale valore di concisione stilistica e narrativa al massimo grado quale sublimazione del Romanzo, quella di cercare futuri autori con cui poter eventualmente intraprendere un percorso di scrittura/pubblicazione – perché lungi dal voler cercare la pepita nascosta nel marasma delle “proposte editoriali” che arrivano a palate giornalmente persino ad una neonata casa editrice come la nostra, pensiamo che lo scrittore esordiente debba collaborare con l’editore, spalleggiarsi in un lavoro di editing combinato e di elaborazione reciproca del progetto… quindi si spera tra i partecipanti (e i vincitori) di scovare uno Scrittore, ovvero una penna e una mente con la quale poter dar avvio a delle collaborazioni meno brevissime.

Com’è fare libri in Italia oggi? Specifico l’oggi, che si biforca su due binari: quasi due anni di pandemia che hanno stravolto tutti e tutti; un tempo dominato dalle immagini e dai social, dove se è vero che si legge come mai prima d’ora, è anche vero che si leggono più post e tweet che libri.

Tecnicamente – ma questo penso valesse anche prima della pandemia – il problema maggiore nell’ambito editoriale non è tanto il “fare i libri” (certo è difficile farli bene, sia in quanto contenuto che contenitore), bensì – come sottolinea il motto ballardiano della casa editrice, ciò che è difficile è venderli («Qualunque sciocco può scrivere un libro, ma ci vuole un vero genio per venderlo» [J.J.Ballard]).

Il problema maggiore è riuscire ad avere un sistema promozionale strutturato e calibrato anche sulle piccole realtà – poiché all’interno di un meccanismo come quello attuale, nella sostanza, tutto è costruito attorno agli editori di medio-grandi dimensioni, che possono investire maggiormente in pubblicità e coprire completamente lo spazio visivo, nascondendo le piccole realtà che sono costrette a fare salti mortali nell’intrico coacervo della Grande Distribuzione. Ci si fa spazio tramite meccanismi come quelli interattivi e nobilissimi di presentazioni itineranti, o altri meno nobili e talvolta del tutto fatiscenti, come ad esempio l’affitto di spazi espositivi all’interno delle librerie di catena e simili forme di estorsione pubblicitaria.

Il problema oggi è che le due entità più curiosamente attive nel mondo dei libri, ovvero certi Editori Indipendenti e certi Librai Indipendenti (un buon numero comunque per entrambe le categorie), sono sulla stessa piccola barchetta, mentre attorno l’oceano della Grande Distribuzione e Promozione è in piena burrasca e i transatlantici dei medio-grandi editori sono sempre lì lì per travolgere tutto, sollevare uno tsunami di “nuove proposte” in cui far affogare piccoli editori, piccoli librai indipendenti e quei (pochi) lettori che ancora si barcamenano nel tentativo di non soccombere alla “marea nera” di capolavori che con squilli di fanfara sono proclamati almeno 9 giorni su 10.

Inoltre, in questo maremoto costante dell’editoria e dell’impossibile promozione, ci sono i social come vetrina di autopropaganda-pubblicitaria, dentro la quale il libro diventa spesso e volentieri una suppellettile per abbacinare qualche allucinato in cerca di cuoricini però magari anche interessare quei lettori che magari riescono a raggiungere la piccola realtà editoriale proprio attraverso quelle piattaforme, oppure quell’altra forma di (auto)promozione (mal)celata che sono le recensioni bookstagrammiche o altre forme di collaborazioni più o meno spontanee e più o meno gratuite che infestano il mondo promozionale dei libri – in cui si naviga tra veri appassionati e vere e proprie agenzie pubblicitarie, in un universo per nulla regolamentato, in cui magari si sta leggendo una recensione creduta sincera e spontanea, che in realtà è stata semplicemente comprata come pubblicità.

E poi vi è il mondo dei media, in cui, allo stesso modo, sono rari coloro che si interessano alla questione editoriale per virtute e conoscenza, per spassionata curiosità e per ricerca culturale di fondo. Maggiori sono invece da un lato le marchette, del genere io recensisco il tuo libro perché tu hai recensito il mio la settimana scorsa, dall’altro coloro che si investono su un progetto/soggetto perché è di quello che tutti parlano, oppure perché l’amico dell’amico è in amicizia col direttore di una testata amica, ecc.

Il discorso poi è certo molto più complesso e articolato (se anche solo sociologicamente si andasse a spulciare la questione del capitale simbolico investito in nomee) ma nelle linee macroscopiche le dinamiche più atroci sono, a nostro avviso, quelle indicate – in un universo mediatico e paravirtuale in cui il debordiano Spettacolo è diventato così cristallino e trasparente da avere la stessa consistenza dell’aria che respiriamo.

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