L’Etiopia vista dagli occidentali: diario di un viaggio esotico

Questo pezzo è uscito su la Repubblica. (Immagine: Armin Linke.)

Il modo migliore affinché un viaggio non si concluda è raccontarlo. È una tecnica elementare e originaria, individuale e sociale, duttilissima. Raccontare un viaggio significa prolungarlo nel tempo, traslocarlo da uno spazio a un altro: far sì che quanto è stato cammino, lavorio del corpo, attraversamento di meridiani, attenzione precisa o blanda al macro e al micropaesaggio, si converta in un altro codice, per esempio in un serpente di frasi, in un pannello di scatti fotografici.

Audaci, veri e molto comici, ecco i supereroi fai-da-te

Questo pezzo è uscito su Repubblica.

Un senso di giustizia, così come un barlume di filantropia, è presente in ognuno di noi. Nel momento in cui si supera la misura consueta e l’attaccamento alle persone insieme a un bisogno inestimabile di equità coagulano e si insediano in un individuo, allora, insensibilmente, irreparabilmente, sta per nascere una figura che conterrà in sé qualcosa di eroico e di grottesco.

Supergiusti, supertosti, superveri. Alla scoperta dei supereroi fai-da-te (Caratteri Mobili) di Silvestro Ferrara è il compendio – troppo breve, un centinaio di pagine, rispetto alle molteplici implicazioni di ciò che descrive – di che cosa sono i contemporanei real life superhero. Vale a dire coloro i quali, da qualche parte nel mondo, hanno deciso di servire il genere umano non tramite un bonifico bancario (troppo disincarnato) o un altrettanto generico volontariato presso una mensa o un dormitorio pubblico, bensì trasformando se stessi, un pezzo della loro vita, in un bene materiale attivo.

Perché ormai siamo circondati da tutti i racconti

Questo pezzo è uscito in versione ridotta su la Repubblica. (Immagine: Nick Gentry.)

In Continuità dei parchi Julio Cortázar immagina un uomo che a fine giornata si siede sulla sua poltrona preferita e riprende la lettura del romanzo che da tempo lo coinvolge. La scena che gli scorre davanti descrive i movimenti furtivi di qualcuno che sta per commettere un delitto. Tramite una rotazione di trecentosessanta gradi – un cataclisma prospettico – il lettore del racconto di Cortázar segue il lettore del romanzo che a sua volta segue gli ultimi passi di un criminale che attraversando le stanze di una casa armato di coltello raggiunge alle spalle un uomo seduto in poltrona.

Così il comunismo si fece oggettivo

Questo pezzo è uscito sul Sole 24 ore.

Nelle prime righe di Cose trasparenti, Vladimir Nabokov propone una riflessione sul legame che è possibile instaurare con gli oggetti che ci circondano: «Quando noi ci concentriamo su un oggetto materiale, ovunque esso si trovi, il solo atto di prestare ad esso la nostra attenzione può farci sprofondare involontariamente nella sua storia». Vale a dire che nel momento in cui si sceglie di non proteggersi attraverso una percezione ordinaria dell’ordinario, ogni oggetto materiale – da una semplice matita (come avviene nel romanzo di Nabokov) a, per esempio, un berretto (come nell’incipit di Madame Bovary) – si trasforma in un cratere in cui è impossibile non sprofondare.

L’inabissamento nella storia materiale e culturale delle cose è il metodo di cui si serve Gian Piero Piretto, docente di Cultura russa presso l’Università degli Studi di Milano, nel suo La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo (Sironi Editore). Un inabissamento che parte da una conoscenza profonda – storico-sociale tanto quanto sentimentale – degli oggetti raccontati, senza mai indulgere né in un motteggio ironico fine a se stesso né alla moda inerziale della ostalgia, vale a dire la nostalgia – via via che passano gli anni sempre più frusta – nei confronti degli stili della ex DDR. Piretto è consapevole che ogni oggetto è il risultato nonché la scaturigine di una serie di azioni, discende da un contesto, ne genera di ulteriori, descrive chi lo circonda, respira l’aria del tempo, rivelandosi dunque l’epifenomeno di una storia significativa.

La chiave gigante di Villiod

Questo pezzo è uscito sul Sole 24 Ore. (Immagine: Eugene Villiod.)

La città è una tra le più grandi tecnologie che gli esseri umani abbiano inventato. È spazio fisico in continuo mutamento attraversato da una popolazione altrettanto mutante. È progetto e incidente, razionalità e caso, lungimiranza e improvvisazione. Inevitabilmente la città è l’insieme delle esperienze che è possibile compiere al suo interno. Tra queste la fantasticheria è fondamentale.

In Parigi. Un apprendistato (edizioni di passaggio, traduzione e curatela – accuratissime – di Roberta Coglitore) Roger Caillois propone una percezione della capitale francese tanto lucida quanto complessa proprio affidandosi a una forma di pensiero involontariamente deflagrante, in grado di mescolare il presente al passato e al futuro, nonché di dissolvere il confine tra reale e irreale.

Storia delle sirene

Questo pezzo è uscito in forma ridotta su la Repubblica. (Immagine: Collier Twentyman Smithers, Gara di sirene e tritoni.)

Il circo elettrico delle sirene (Codice Edizioni) dello storico della scienza Emanuele Coco comincia riportando una frase attribuita a Sant’Agostino – «Non chiedetevi se queste cose sono vere. Chiedetevi cosa significano» –, ovvero ponendo da subito la marginalità se non l’irrilevanza dell’esistenza reale delle sirene. Nella misura in cui sono state immaginate, intensamente e ininterrottamente nel corso del tempo, le sirene sono reali. Le sirene esistono. Per comprenderne il significato è dunque legittimo se non indispensabile interrogarne la storia – la storia del mito – ricorrendo a una forma diretta e colloquiale. Perché le sirene, dalla Grecia antica a Kafka, ci riguardano. Volteggianti nel cielo o appostate su una roccia marina in attesa di un viaggiatore, le sirene non semplicemente parlano con noi: le sirene parlano di noi. Ci inducono a immaginare ciò che accadrà, come accadrà; ci irretiscono facendo leva su qualcosa che potrebbe sembrarci illogico e disumano essendo invece uno dei modi più straordinari in cui l’umano si manifesta: ci costringono a confrontarci con il nostro costante bisogno di naufragio.

Viaggio sentimentale nei luoghi dimenticati

Questo pezzo è uscito su Repubblica.

«Basta guardare», suggeriva Goffredo Parise. Dello stesso principio-guida – lavorare di sguardo, connetterlo alla durata, confrontarsi con la stratificazione dei fenomeni, con l’architettura complessa delle forme in divenire – si è avvalsa Antonella Tarpino nel compiere un viaggio, o meglio un «muoversi ragionato», attraverso ciò che in questo momento, fungendo da segnatempo tanto irregolare quanto efficace, è in Italia il paesaggio delle macerie e delle rovine. Vale a dire tutti quegli spazi che esistono sul crinale tra presenza e abbandono, tra dissoluzione e un tentativo di recupero che non sia meramente turistico. Frantumi che non sono soltanto forme fisiche della distruzione bensì manifestazioni concrete di quegli «impianti di pensiero» sui quali si fondano le epoche, zone in cui si accumulano i resti dei paradigmi ai quali ci siamo affidati per comprendere ciò che accade.

Un omaggio a Gabriele Basilico

Oggi è morto Gabriele Basilico. Il suo lavoro è stato per me una scoperta tutto sommato recente, eppure fin dal primo momento rivelatrice. Da quando ho cominciato a guardare le foto che Basilico ha scattato nel corso del tempo mi sono reso conto che fino ad allora non avevo capito niente di che cosa è lo spazio, soprattutto quello urbano, e di che cosa è la misura, nel senso dell’equilibrio, della precisione. Le immagini del fotografo milanese sono sempre, nella loro nettezza, l’equivalente fotografico di quando finalmente, dopo averla inseguita a lungo, la parola esatta, spietatamente esatta, compare sulla pagina o nella voce.

Le scritture che traboccano

Questo pezzo è uscito su la Repubblica. (Immagine: Composition IV, Wassily Kandinsky.)

Ci sono scritture che traboccano. La sostanza liquida della lingua non sta più nel suo alveo, raggiunge i bordi e comincia a tracimare. Alla leggenda (o alla storia) dei libri «scritti a tavolino» – e i tavolini più inquietanti non sono quelli che starebbero nascosti nei seminterrati delle grandi case editrici ma quelli conficcati nel cranio di chi scrive – queste scritture reagiscono rompendo ogni argine formale, procedendo per effrazioni della sintassi e smisurando la scelta lessicale. Dando vita, dunque, a vere e proprie visioni.

La loro pubblicazione accade in modo anomalo. Dovrebbe essere un’irruzione sulla scena letteraria, l’equivalente di una piccola abnorme fecondissima catastrofe. Nella realtà dei fatti sbalordisce la quota di silenzio che nella maggior parte dei casi ne accompagna la comparsa (rendendola dunque indistinguibile dalla scomparsa, come se la pubblicazione fosse per questi libri una fase dell’oblio). Scritture simili, rispetto ai boati dei primi posti delle classifiche di vendita, sono suoni sottilissimi, infrasuoni che domandano un ascolto altrettanto sottile e accurato. Nel momento in cui decidiamo di dedicarglielo, ci inoltriamo in una serie di scoperte.

Beati i tempi dell’imbecille monolitico

Questa recensione è uscita su Il Sole 24 Ore. (Immagine: Siri.)

Siri è l’«assistente personale» di chi possiede un iPhone o un iPad di ultima generazione. A un comando vocale, risponde eseguendo un’azione oppure formulando un’ulteriore domanda. Nel momento in cui questo dispositivo è diventato disponibile si è chiarita la relazione che unisce oggi tecnologia e stupidità. Quest’ultima, tutt’altro che costituire – come accadeva in passato – un inciampo al funzionamento del dispositivo, sembra essere uno dei suoi interlocutori principali. La diffusione di Siri è stata infatti accompagnata da un proliferare di scherzi e di motti, molti dei quali rintracciabili su YouTube. Se Siri serve – dovrebbe servire – a risolvere problemi concreti, se dunque è stato concepito in una prospettiva funzionale, ugualmente un software come questo è nelle condizioni di rispondere a tono alle domande più inverosimili. Come se gli ideatori di Siri avessero previsto la quota di stupidità – sana, ludica, sperimentale – che si annida in ognuno di noi nell’attesa di venire alla luce.