A me di avere la pancia non è mai importato niente

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di Barbara Bedin

La piscina è rotonda, un anello grigio chiaro ne delimita il bordo.

In acqua, un bambino di quattro anni muove le gambe e le braccia, apparentemente senza fatica.

È mio figlio, ma ancora non lo sa.

Ci sono milioni di altre cose che mio figlio non sa, ma ho deciso che nuotare non sarà una di queste. Non sa parlare, o quanti anni ha, per dire, o dove abitiamo e come mi chiamo. Per lui siamo solo vocali. Anche tutti gli animali lo sono, e le cose. Vive in un mondo di cinque lettere che pronuncia a gran voce ogni volta che indica qualcosa che non riesce ad avere.

L’istruttrice di nuoto gli mostra un riquadro dentro un foglio plastificato annuendo, con la mano sinistra tuffa una stella di gomma in acqua e con la destra lo addita, poi tuffa anche la mano a rincorrere la stella. Lui lancia un gridolino in aria e infila la testa sott’acqua. Usa le mani e le gambe per spingersi giù, fa movimenti che nessuno gli ha mai insegnato. Quando riemerge, l’istruttrice gli sorride e lo abbraccia, come dovrei fare io. Alla fine della lezione, mi restituisce la versione selvaggia del bambino che era fin tanto che è rimasto con lei.

Negli spogliatoi mio figlio scalcia, strattona, piange. In doccia vuole fare tutto da solo, l’acqua schizza ovunque e lui mi guarda sgocciolare soddisfatto. Usciti dal bagno provo a vestirlo. Niente di quello che tolgo dalla borsa sembra appartenergli, me lo rilancia addosso come fosse uno straccio sporco. Ai phon la situazione non migliora. La proboscide degli asciugacapelli è troppo corta, troppo alta, troppo rotta. Una protesi inutile. Lui non è soddisfatto di quello che faccio né di come lo faccio, quando gli appoggio una mano sulla testa urla AAAAA, neanche gli stessi strappando i capelli. Le altre mamme mi guardano con compassione. I miei tratti occidentali vicino ai suoi orientali e il nostro gesticolare muto raccontano quello che non c’è bisogno di dire. Mio figlio sente il disagio che provo e lo amplifica. Appena i suoi capelli sono asciutti accendo i due processori e glieli posiziono su ciascun orecchio. Faccio aderire il magnete delle chiocciole alla cute sotto cui si trovano le due piastre di metallo posizionate dal chirurgo e improvvisamente si placa. Entra nel mio mondo come io non potrò mai fare nel suo.

Prima che ci chiamassero per l’abbinamento non sapevo cosa fosse un’ipoacusia neurosensoriale bilaterale, né sapevo che attraverso un impianto cocleare i suoni potessero essere trasformati in segnali elettrici trasmessi al cervello; non avevo la più pallida idea dei danni e dei rischi che possono derivare da una mancata stimolazione del nervo uditivo sullo sviluppo cognitivo di un bambino, né della complessità e dei tempi di una riabilitazione dovuta a una diagnosi tardiva. Mentre il giudice parlava a me e a mio marito, io non sapevo niente di tutto questo. Sapevo solo di aver appena partorito e qualcuno mi stava dicendo che mio figlio era nato sordo.

Al corso serale preadozione eravamo in sedici, seduti in cerchio, come gli alcolisti anonimi.

«A me di avere la pancia non è mai importato niente», avevo dichiarato con incauta leggerezza durante il mio turno di presentazione.

«Dovrà argomentarlo, perché non le crederanno», mi aveva avvisato la psicologa. «Non è normale».

Agli altri quindici non era andata meglio. Le nostre convinzioni sembravano tutte sbagliate. Dopo il primo incontro avevamo iniziato a documentarci in maniera compulsiva: libri, siti, associazioni. Al quarto, alcuni di noi avevano già deciso di rinunciare all’adozione nazionale, il rischio giuridico era psicologicamente insostenibile. Al settimo incontro, la metà delle coppie aveva modificato la propria vita sessuale riscoprendo metodi contraccettivi abbandonati in anni di sterilità. «Capita ad alcune coppie di concepire proprio durante il percorso adottivo. In questi casi la domanda decade», aveva detto la responsabile dell’equipe. E tanto era bastato. I superstiti tra noi che erano arrivati all’ultimo incontro erano adepti fedeli.

Terminato il corso era iniziato l’iter con i servizi sociali, colloqui individuali e di coppia che tendevano a trovare il punto in cui avremmo potuto romperci. Dovevamo dimostrare di aver elaborato il lutto, così lo chiamavano. Noi aspiranti mamme, soprattutto. Dovevamo argomentare come avevamo superato la disperazione di non poter dare alla luce una vita. Io non mi ero mai sentita disperata. Mi sentivo incinta. Lo ero da quando avevamo depositato la domanda, solo che mio figlio non cresceva dentro di me, ma fuori, e dovevo trovarlo in tempo. Per me, e perché nessun adulto diventa grande se non conserva il ricordo di essere stato piccolo.

Alla fine del percorso eravamo stati giudicati idonei.

Non esiste una lista di attesa nazionale per le coppie adottive, ogni tribunale ha la sua e in Italia i tribunali dei minorenni sono ventinove. Così avevamo spedito la nostra domanda a tutte le cancellerie e al tempo stesso avevamo dato mandato a un’associazione per l’adozione internazionale. La nostra vita, raccontata in tre lingue, era archiviata negli schedari dei tribunali dei minorenni italiani e chissà in quali distretti cinesi. Lo stesso anno, altre quattromila coppie nel nostro Paese avevano fatto altrettanto. Considerando che ogni domanda dura tre anni – passati i quali l’iter ricomincia da capo – erano oltre undicimila le famiglie adottive in attesa di un figlio, quattrocentocinquanta in media quelle chiamate per un’adozione nazionale. Sperare di essere scelti richiedeva un atto di fede che noi non potevamo compiere. Ogni giorno aspettavamo una chiamata che non arrivava, ogni giorno controllavamo la cassetta della posta in attesa di una convocazione. Nessuno dei giudici con cui avevamo fatto colloqui in giro per l’Italia ci richiamava. Dalla Cina tutto taceva. Quando ci guardavamo intorno vedevamo bambini ovunque. Bambini di tutte le età, in passeggino, tenuti in spalla, in braccio, per mano. Tutti ne avevano almeno uno. Tutti tranne noi.

Dopo venti mesi dalla domanda il telefono aveva squillato, un Tribunale ci aveva convocato per un colloquio conoscitivo.

Arrivati in sala d’attesa c’erano altre cinque coppie. Sembravano tutte più giovani. O forse eravamo noi a sentirci più vecchi. Nell’ufficio del giudice eravamo rimasti un’ora durante la quale non c’era mai stato alcun accenno a un potenziale bambino. Il giorno dopo l’euforia si era trasformata in sconforto. Se richiamano lo fanno subito per fissare la visita domiciliare, avevano detto al corso. Invece, la chiamata era arrivata dopo una settimana.

Fino a quando l’assistente sociale non era entrata in casa nostra, l’appartamento non mi era mai sembrato così piccolo, squallido e inadatto. Si era fermata per due ore, osservando tutto, facendo un sacco di domande. Mentre si guardava intorno aveva chiesto: «Ma quanti sono?» indicando i cd e i vinili che coprivano le pareti. «Quasi cinquemila» aveva risposto mio marito.  Si era ammutolita. Quando se n’era andata, mi era sembrato che trascinasse con sé tutto quello che avevamo: mobili, vestiti, dischi. La casa era piombata in un silenzio irreale. Avrei voluto correrle dietro, fermarla afferrandola per una spalla. Invece non avevo corso, non avevo urlato, non avevo fatto niente.

«Accomodatevi». Eravamo di nuovo davanti al giudice e questa volta l’argomento era solo il bambino, la sua storia, il quadro sanitario, la sordità. «Adesso sapete tutto, andatevi a fare un giro e ragionateci su. Tornate tra un quarto d’ora per comunicarmi la vostra decisione».

Una volta fuori, non sapevamo dove andare. Nessun posto ci sembrava adatto per parlare. Avevamo immaginato quel momento centinaia di volte, avevamo letto e sentito decine di racconti sul magico momento dell’abbinamento. Nessuno assomigliava al nostro. Non so cosa passasse per la mente di mio marito, se pensava alla sua collezione di cd che doveva apparirgli improvvisamente inutile. Avevo avvertito l’unica sua esitazione in quei quindici minuti, gli unici in cui io ero rimasta calma e sicura, non di quello che sarebbe diventato mio figlio, di me.

«Intervento tardivo. Deficit cognitivo. Rischio autismo. Mappature per inserimento frequenze. Ruolo materno nella riabilitazione». Il primario usava un alfabeto Morse per comunicarci uno scenario che non conoscevamo. Il giudice aveva preteso da noi un colloquio prima di verbalizzare la nostra accettazione definitiva, prima di incontrare il bambino. Voleva escludere che non incrementassimo la statistica dei fallimenti adottivi.

Un mese, tanto era durato l’affiancamento in casa-famiglia. Ogni mattina trovavamo nostro figlio e ogni sera lo perdevamo di nuovo. All’inizio potevamo incontrarlo solo un paio di ore al giorno, dalla terza settimana la permanenza si era allargata all’intera giornata. Il penultimo giorno gli educatori avevano organizzato una festa di addio. Avevamo portato dolci e regali per tutti i piccoli ospiti. Dovevamo farci perdonare di non poter portare via anche loro.

Una volta a casa passavamo le ore mettendo a punto strategie di avvicinamento, strategie che cambiavano ogni mattina al sorgere del sole e che prima del tramonto erano già obsolete. Dopo cena preparavo litri di camomilla, ma quando arrivava il momento di andare a letto il sistema di allarme interno a mio figlio iniziava a suonare e non c’era verso di farlo dormire. La notte si agitava e girava per casa, quando finalmente accettava di lasciarsi andare ci addormentavamo tutti, ma solo per una manciata di minuti. Lui non capiva chi fossimo, non riconosceva dove si trovava e non c’era modo di spiegarglielo. Non capiva perché aveva dovuto lasciare l’altra casa.

Dopo una settimana mio marito era dovuto rientrare al lavoro ed eravamo rimasti soli. La mattina fissavo la porta dalla quale era uscito aspettando che si aprisse di nuovo, che lui entrasse ed esclamasse: “Lascialo a me, ci penso io!”. La sera, quando tornava e mi chiedeva cosa avessimo fatto, raccontavo solo la parte che aveva a che fare con l’ospedale, le mappe, la riabilitazione. Non so se per dimostrare a lui di aver fatto quello che dovevo o per ricordare a me stessa di aver fatto tutto ciò che potevo. Mi svegliavo stanca, sentivo il peso delle ore che avremmo dovuto trascorrere in ospedale o a fare gli esercizi della terapia. Non era giusto che tutto quel tempo ci venisse sottratto, che non potessimo decidere cosa farne.

Dicono che nell’adozione i primi mesi siano fondamentali per creare l’attaccamento familiare. È necessario isolarsi dal resto del mondo, raccogliersi e farsi nido, coltivare nuovi riti quotidiani che possano aiutare il bambino ad ambientarsi e a sentirsi al sicuro. Tutti i giorni uscivamo di casa ed entravamo in reparto. Mio figlio passava di braccia in braccia, a ogni passaggio una parte di me contava il tempo che sarebbe servito affinché tornasse a sentirsi mio. Tornando dall’ospedale si addormentava spesso in macchina. Quando succedeva mi fermavo alla prima area di servizio e scendevo dall’auto per guardarlo da fuori, come si guardano i neonati dal vetro della nursery. A volte capitava che si svegliasse all’improvviso, come se qualcuno l’avesse scosso forte. Allora si metteva a piangere, si sfilava le scarpe e le lanciava contro il finestrino. Quando ricadevano a terra una parte di me vibrava.

Lo scorrere del tempo era regolato dagli orari della terapia. La facevamo due volte al giorno, estate o inverno, che piovesse o ci fosse il sole, che ne avessimo voglia o meno. Mio figlio non recuperava, quello che facevo non era abbastanza. Di notte non sognavo più. O sognavo e non me lo ricordavo. Mi sembrava di non addormentarmi mai per davvero. Giravo in un vortice che aveva risucchiato solo me.

Dopo un anno avevo perso nove chili, i miei linfonodi erano impazziti e l’oncologo al quale mi ero rivolta aveva cercato di spiegarmi che il tumore che stava attaccando il mio sistema immunitario ero io.

 

Commenti
5 Commenti a “A me di avere la pancia non è mai importato niente”
  1. Caio ha detto:

    Una storia molto forte, che lascia pietrificati.

  2. Elisa ha detto:

    Bravissima! Riesce a trasmettere le emozioni e i sentimenti di chi ha la forza di intraprendere il percorso dell’adozione, che diciamolo, non è sempre tutto “rose e fiori”.

  3. Lila Ria ha detto:

    è stupendo, Barbara. Quando hai scritto che avevate portato regali e dolci per tutti i bambini che avete lasciato lì, mi è scesa una lacrima.
    Bravissima. Come ti ricordavo. ❤️ Lila

  4. Anna ha detto:

    Racconto potente, intenso ed emozionante che arriva dritto alla pancia del lettore. Grazie Barbara

  5. Mario ha detto:

    Sono rimasto molto colpito, proprio preso e commosso. Una narrazione così penetrante e adeguata ad una non semplice adozione non l’avevo mai letta! Sono un vecchio padre adottivo o adottante, (attraverso adozione intern.) e mio figlio ha ora quasi 53 anni… È arrivato in Italia all’età di due anni!

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