Discorsi sul metodo – 12: Jhumpa Lahiri

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Jhumpa Lahiri è nata a Londra nel 1967. Premio Pulitzer nel 2000 per L’interprete dei malanni, il suo ultimo libro, scritto direttamente in italiano, è In altre parole (Guanda 2015). Nell’ambito del Festival delle Letterature, Lahiri – vincitrice del premio internazionale Viareggio-Versilia – sarà presente oggi, mercoledì 24 giugno, alle 19 alla Casa delle Letterature, assieme ai finalisti del premio Viareggio-Rèpaci.

* * *

Quante ore lavori al giorno e quante battute esigi da una sessione di scrittura?

La verità è che difficilmente, oggi, riesco a scrivere ogni giorno. Dunque, scrivo quando è possibile. C’è stato un periodo molto limitato, nella mia vita, in cui potevo dirmi, bene adesso scrivo dieci ore, e farlo. Tale periodo è durato in tutto sette mesi. Prima di esso, quando ho cominciato a scrivere, stavo effettuando il mio dottorato, che mi prendeva molto tempo; dopo, è nato mio figlio, e poi mia figlia, e con due bambini il tempo è quello che è. Il mio approccio, oggi, è piuttosto quello di cercare di mantenere sempre una connessione con il mio lavoro: di non staccare mai a livello mentale, così che possa, appena ho un’ora libera, chiudere la porta e mettermi a leggere o scrivere con reale concentrazione rispetto all’obiettivo. Ho i miei alti e bassi e ormai ho imparato ad accettare il processo e il flusso, l’importante è non staccare, restare sempre aperti rispetto al progetto. Porto sempre con me un taccuino, prendo appunti, ho tuttora una buona disciplina.

Dove scrivi? Hai orari precisi?

Non riesco a scrivere ovunque. Di solito scrivo a casa. Adesso sto a Roma e mi trovo bene, ho un appartamento luminoso, silenzioso, con un bel panorama. Anche se ho un terrazzo non lo uso, scrivo al chiuso o mi distraggo. Ogni tanto invece vado in biblioteca, soprattutto perché la passeggiata che faccio per arrivarci mi è utile per staccare mentalmente. Grazie a Sara, una mia amica, ho scoperto una biblioteca strepitosa a Roma, il Centro Studi Americani di palazzo Mattei, un posto davvero fantastico per scrivere.

Fai preproduzione o scrivi di getto?

Scrivo, scrivo, scrivo, scrivo. Non ho formule. Inizio subito, vado avanti, il percorso di ogni libro è del tutto singolare e non esiste una ricetta buona in ogni caso. Quindi scrivo. Scrivo e scopro tutto solo tramite il processo di scrittura. Faccio moltissime stesure, e capita che lavorando così ci metta anche molto tempo a trovare il vero punto d’ingresso del romanzo. A volte riscrivo lo stesso paragrafo venti volte per trovare il tono e la postura giusta del brano. Poi però c’è un momento in cui trovi il passo, la struttura inizia ad apparirti chiara in mente, senti la velocità e allora procedi spedita.

Quante riscritture fai? Tendi giù a buttare giù prima tutto o cesellare passo passo?

Come ho detto riscrivo molto. In italiano scrivo a mano, mi piace quando, dopo aver accumulato un po’ di materiale, lo ricopio al computer, lo stampo e vedo cosa è venuto fuori. Lo rileggo, faccio mille appunti ai margini che portano di solito a buttare via oltre la metà del testo, poi di nuovo torno al quaderno a mano. Il fatto è che in italiano, se uso la tastiera, non riesco ad ‘ascoltare’ le parole; al di là di ciò, il risultato dello scrivere a mano è un’esperienza più intima e più diretta. A ripensarci, per i miei libri in inglese non l’ho fatto mai, è proprio un diverso processo, un diverso approccio al testo.

Scrivi più libri in contemporanea?

Scrivo spesso vari racconti allo stesso tempo, anche racconti che poi magari diverranno la base di un romanzo; ma quando entro nel vivo dei lavori di un romanzo, diventa impossibile pensare a un altro progetto. È pur vero che a volte, mentre scrivo, emergono idee che possono far parte di un altro progetto e allora mi trovo a fissare una pagina, ma non credo che conti come ‘scrivere due libri contemporaneamente’.Jhumpa_due

Come hai esordito?

Ho esordito con un libro di racconti, ed è stata un’esperienza particolare. Ci ho meso sette anni per scrivere quei racconti, ero una studentessa e nei buchi di studio o d’estate scrivevo. Dopo aver fatto un master in scrittura creativa mi sono messa a fare un dottorato, scrivevo in modo abbastanza discontinuo finché, dopo sette anni, mi sono resa conto che avevo in mano un manoscritto. Qualcuno di quei racconti era uscito su riviste molto importanti e in virtù di ciò avevo ricevuto due lettere da parte di agenzie letterarie, che mi dicevano di farmi sentire se avessi avuto un libro finito per le mani. Così ho mandato a quelle due agenzie il manoscritto della raccolta ma entrambe mi hanno detto che non era pubblicabile: volevano il romanzo, non una raccolta di racconti.
Così mi dissi, ok, volete il romanzo? Allora mi metto a scrivere un romanzo. Avevo appena concluso il dottorato e avevo ottenuto un regalo enorme, una borsa di studio in una comunità creativa chiamata Fine Arts Work Center a Province Town, a Cape Cod, le condizioni erano ideali. Sono andata lì dicendomi, bene, i racconti sono un esercizio, una preparazione, adesso si fa sul serio, ora scriverò il mio romanzo. Nel frattempo però ho conosciuto un’altra agente interessata al mio lavoro, che pur rimarcando che era quasi impossibile piazzare la raccolta di un’esordiente, ha detto che ci avrebbe provato. Mi ha detto anche di non farmi idee perché sicuramente non sarebbe accaduto nulla. E invece riuscì a piazzarli. Chiaro che un passo fondamentale resta la pubblicazione di alcuni di quei racconti sul New Yorker, che negli USA ha ancora un peso enorme, ma è stato comunque un risultato incredibile, tanto più che io mi ero ormai rassegnata a pensare che non sarebbero mai usciti dal cassetto.

Come è cambiato il tuo modo di lavorare da allora?

Mi sento più tranquilla. So che non posso vivere senza scrivere, che questa esigenza c’è sempre dentro di me, e ci sarà finché ne sarò mentalmente capace. Sono arrivata ad accettare questa parte di me. Prima ero una persona molto più insicura, in ogni senso, non capivo bene questa esigenza, ora è molto più chiaro, più facile, mi vengono le parole: sono una scrittrice. Allora non succedeva mica. Questa serenità prima non c’era, e aiuta. È una serenità che arriva a farmi dire: i libri che devono esistere, nasceranno. Su questo bisogna essere fiduciosi. È necessario stare sempre ‘accesi’ ma non serve il panico, non serve mettersi troppa pressione, non serve stare troppo alla scrivania. Inoltre capisco molto di più l’importanza di leggere, in modo attivo, penna in mano: le due attività sono così legate che il confine è molto più labile di quanto non si creda di solito. Da ragazza pensavo oddio devo fare cinque ore di scrittura o sarà una catastrofe, presto, devo sedermi e mettermi sotto… Ora sono più tranquilla. Però è bene ricordare che sono stata molto fortunata, ho pubblicato fin dal primo libro che ho scritto e le cose sono andate subito bene. Avrebbe potuto volerci molto più tempo a raggiungere questa tranquillità.

Le opere che più ti hanno influenzato per quanto riguarda la pratica e il mestiere della scrittura.

In questo momento direi Il diavolo sulle colline di Pavese, un gioiello tutto strutturato a capitoli brevi, in un luogo specifico e in un tempo ristretto – due mesi –: questo per me, oggi, è un modello, come anche certi libri ‘spezzati’, penso ad esempio a quelli di Lalla Romano, fatti di capitoli brevissimi. Siccome sto scrivendo in italiano, e arrivando da un’altra lingua non mi è possibile scrivere come Malaparte o Verga – un trattamento del testo del genere mi sarebbe impossibile – mi attrae una scrittura asciutta, così come a suo tempo fui influenzata da Agota Kristof e la sua Trilogia della città di K. Per i racconti senz’altro mi è stata cruciale la lettura delle opere di Mavis Gallant, e ancora quelle di Cechov, Joyce, O’Connor: provavo a costruire racconti come loro perché sono i maestri e l’unica strada, all’inizio, è tentare di seguirli, ma negli anni i modelli cambiano, se leggo oggi un racconto di Mavis Gallant, anche se resta un capolavoro, non mi aiuta più come scrittrice.

“Esisti” online?

No, niente presenza online, in questo sono un po’ ‘vecchio stile’ – inoltre come ho detto ormai mi conosco, dunque non mi forzo a fare cose che ormai so che non mi aiuteranno.

[12 – continua; le precedenti interviste: Sorokin, Pauls, Brizuela, McCarthy, Eggers, De Kerangal, Gospodinov, Vida, Lethem, Carrère, Vásquez, Egan, McGrath, Greer, Cunningham, Keret, Winterson, Tóibín]

Commenti
4 Commenti a “Discorsi sul metodo – 12: Jhumpa Lahiri”
  1. Franchino ha detto:

    Non ho letto l’intervista. Bella fregna, però.

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  1. […] Dodicesima puntata dei Discorsi sul metodo: oggi ho intervistato la premio Pulitzer Jhumpa Lahiri. […]

  2. […] minima&moralia, “Discorsi sul metodo – 12: Jhumpa Lahiri”: La verità è che difficilmente, oggi, riesco a scrivere ogni giorno. Dunque, scrivo quando è possibile. C’è stato un periodo molto limitato, nella mia vita, in cui potevo dirmi, bene adesso scrivo dieci ore, e farlo. Tale periodo è durato in tutto sette mesi. Prima di esso, quando ho cominciato a scrivere, stavo effettuando il mio dottorato, che mi prendeva molto tempo; dopo, è nato mio figlio, e poi mia figlia, e con due bambini il tempo è quello che è. Il mio approccio, oggi, è piuttosto quello di cercare di mantenere sempre una connessione con il mio lavoro: di non staccare mai a livello mentale, così che possa, appena ho un’ora libera, chiudere la porta e mettermi a leggere o scrivere con reale concentrazione rispetto all’obiettivo. […]



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