L’ultimo discorso di Thomas Mann

di Ubaldo Villani-Lubelli

Un congedo imprevisto dal proprio Paese. Il discorso Dolore e grandezza di Richard Wagner che Thomas Mann tenne il 10 febbraio del 1933 all’Università di Monaco fu l’ultima apparizione del grande scrittore tedesco in Germania prima dell’esilio. Nei giorni successivi all’incontro di Monaco, tenutosi in occasione del cinquantenario della morte di Wagner, Mann si recò ad Amsterdam, Bruxelles e Parigi per ripetere la stessa conferenza.

Nel frattempo gli eventi politici in Germania precipitarono. Già il 30 gennaio Hitler aveva giurato come Cancelliere. Ma l’evento che cambiò radicalmente gli equilibri fu l’incendio del Reichstag del 27 febbraio a cui seguironoil decreto che sospese molti diritti civili fondamentali, le libertà personali e d’espressione garantiti dalla costituzione della Repubblica di Weimar (1919) e, successivamente,il decreto dei pieni poteri (24 marzo) dopo che il 5 marzo Hitler aveva vinto le elezioni politiche. A quel punto il leader nazionalsocialista aveva instaurato la sua dittatura.

Da dove vengo

La rivista “Lo Straniero” ha lanciato un’inchiesta chiedendo a diversi scrittori italiani di raccontare attraverso quale percorso la storia del paese può aver fatto da ispirazione per i propri libri, “tenendo conto anche dell’intreccio tra le motivazioni pubbliche e quelle più personali”. Su questo numero sono usciti gli interventi di Giulio Angioni,  Paolo Cognetti, Pino […]

Discorsi sul metodo – 3: Emmanuel Carrère

Torna il Premio Gregor Von Rezzori, che ogni giugno porta a Firenze alcuni dei più bei nomi della letteratura mondiale, e con esso tornano i Discorsi sul metodo di Vanni Santoni. La serie di interviste di quest’anno comincia con Emmanuel Carrère, a cui seguiranno Jonathan Lethem, Georgi Gospinodov e Vendela Vida, e poi ancora Tom McCarthy, Dave Eggers, Maylis de Kerangal e Leopoldo Brizuela.

(Le precedenti interviste, a Cunningham, Keret, Winterson, Tóibín, Vásquez, Egan, McGrath e Greer, possono essere lette qui e qui).

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Emmanuel Carrère è nato a Parigi nel 1957. Il suo ultimo libro edito in Italia è La settimana bianca (Adelphi 2014, apparso in Francia nel 1995).

Quante ore lavori al giorno e quante battute esigi da una sessione di scrittura?

Non ho quantità fisse di battute o parole, dato che sia il tempo che la produttività dipendono molto, anzi completamente, dalla fase dei lavori in cui mi trovo.
Quando sono all’inizio di un libro, è tutto molto difficile e poco produttivo, devo letteralmente forzarmi per scrivere o anche solo mettermi alla scrivania, e anche quando ci riesco vado lentissimo e non riesco neanche a fare sessioni lunghe, faccio massimo tre o quattro ore, e producendo pochissimo.

Le guerre di Salinger

Questo articolo è uscito su Il Foglio. Ringraziamo l’autore e la testata.

Chi ha avuto un’adolescenza se la ricorda, chi non l’ha avuta, beato lui. Chi l’ha avuta, a un certo punto, in uno di quei momenti che alterna la vergogna di stare al mondo al desiderio di potenza di distruggerlo, l’intelligenza e la noia dilapidate in giornate eccitate e storte, ha sentito le vene dei polsi ballare al suono elettrico della parola “ribellione”. Gratuita è la ribellione dell’adolescenza, e giusta insensata allegra, veloce velenosa e apatica. E a un certo punto, l’adolescenza e la sua ribellione sono diventate “schife” (“lousy” in inglese), come prosecuzione di un’infanzia altrettanto “schifa”. La comparsa di questo aggettivo, a differenza degli altri, è databile: luglio 1951 (1961 in Italia), mese di pubblicazione del Giovane Holden di J.D. Salinger. Da allora il romanzo ha venduto 65 milioni di copie ed è stato sfogliato da almeno il doppio delle persone: tanto che si può dire che sono pochi i lettori a non conoscere Holden Caulfield, e molto pochi gli adolescenti che non si sono riconosciuti nelle sue ribellioni.

Grandi scrittori immortalati da grandi fotografi

Questo pezzo è uscito su Europa. (Immagine: Emmanuel Carrère, Parigi, 2004. ©Lise Sarfati/Magnum Photos/Contrasto)

Soprattutto, gli scrittori pensano e osservano. Riconoscerli è semplice perché di solito sono circondati da oggetti e ambienti che certificano il loro talento artistico. Gli scrittori sono i loro stessi gesti, i vezzi e i velluti che sigillano la loro diversità (penne, baffi, scrivanie, papillon, bretelle, scarpette e bicchieri di vino). È appena uscito Scrittori (libro edito da Contrasto) che presenta 250 fotografie di grandi scrittori immortalati da fotografi altrettanto celebri (Cartier-Bresson, Robert Capa, Elliott Erwitt, Ugo Mulas, Salgado, e altri). Ma questo splendido catalogo è anche involontariamente un manuale di retorica che illustra la mitologia che avvolge intellettuali, romanzieri e poeti. Per prima cosa, lo scrittore autentico è circondato da libri. Libri sfogliati, libri che caricano chi li sfiora del loro potere evocativo. Molti volumi infatti tra le mani di Adonis e Yeats, di Apollinaire e Cabrera Infante, mentre Márquez ha una copia di Cent’anni di solitudine aperta sulla testa, e spessissimo i libri rifulgono dallo sfondo: dagli scaffali di Margaret Atwood, George Bataille, Malaparte e Gadda. Pile torreggiano da terra e circondano Peter Handke, Musil è sommerso da quelli impilati sulla scrivania; abbondano le librerie ordinate di Vargas Llosa, di Vila Matas, della Némirovsky, e quelle disordinate à la Mishima.

Un pomeriggio con Paolo Giordano. I colori di una narrazione

Questa intervista è apparsa su Sul Romanzo.

di Pierfrancesco Matarazzo

È un pomeriggio di luce e vento sottile, quello in cui mi dirigo verso la sede romana dell’Einaudi per intervistare Paolo Giordano. Non ci sono uccelli in volo. Almeno non ne vedo, nemmeno un piccione o un gabbiano, la cui vista non viene mai risparmiata alle macchie di turisti che si spingono fuori dalla metropolitana di Ottaviano per entrare in uno stato (Il Vaticano) dai confini invisibili e dai tesori inestimabili. Forse c’è davvero troppa gente per un uccello del paradiso. Tiro un sospiro e salgo le scale che mi portano a un corridoio stretto e una sala riunione zeppa di libri come di prammatica. Paolo Giordano ha già gli occhi puntati su di me. Hanno la stessa consistenza del cielo romano, per un attimo ti costringono a cercarvi qualcosa dentro.

Tradurre “Il giovane Holden”: intervista a Matteo Colombo

Questo pezzo è uscito sul Mucchio.

«È tutto un po’ più grosso del solito. L’attenzione che ha questo libro non ha paragoni».

Questo libro sarebbe «The Catcher in the Rye», in Italia «Il giovane Holden», e l’affermazione è di Matteo Colombo, che per Einaudi ha curato una traduzione nuova di zecca del capolavoro di JD Salinger: è la terza versione italiana, dopo quelle del 1952 (Jacopo Darca, con il titolo «Vita da uomo», un’edizione controversa, quasi clandestina) e del 1961 (Adriana Motti: l’Holden che conosciamo tutti). Con Colombo, considerato uno dei migliori traduttori italiani, (già al lavoro, tra gli altri, su Don DeLillo, Jennifer Egan, Dave Eggers, Chuck Palahniuk, David Sedaris e Michael Chabon) abbiamo parlato di tante cose: del suo mestiere, di Salinger e dei suoi eredi, di traduzione e di metatraduzione, e via discorrendo.

La Buenos Aires di Borges e Arlt

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica.

Buenos Aires. “Scrittori che hanno una fama superiore ai propri meriti? Borges, certo, benché ancora non possegga una sua opera”. “Arlt? Un comunista, un mezzo delinquente straordinariamente incolto”. Si detestavano e non poteva essere altrimenti. I pochi mesi di distanza alla nascita li avevano scaricati in due mondi opposti. Jorge Luis Borges, agosto 1899, era erudizione, biblioteca, labirinto. Roberto Arlt, aprile 1900, era criminalità, strada, follia. Il borghese conservatore e il proletario ribelle, l’esteta e il combattente, il minotauro e il ruffiano, il conoscitore di letteratura raffinata e il lettore onnivoro di traduzioni indegne. Non potevano essere più diversi. Non potevano detestarsi di più. E come sempre succede fra giganti tanto lontani, non potevano che rispettarsi e segretamente amarsi.

Scrittore, a tua madre tornerai

Pubblichiamo la versione integrale di un articolo di Andrea Cirolla apparso su Pagina 99.

Sarà vero che sempre alla madre torna, la scrittrice, lo scrittore, come al ricordo più antico? Che non ne parli o che ne celebri il culto a ogni pagina, davvero non può fare a meno di sceglierla? Ma poi, perché parlare proprio di scrittori e di scrittrici? Perché non domandarsi della madre del broker finanziario, ad esempio, o del lavavetri sui grattacieli, o del disoccupato?

Servirà resistere al giudizio che vede banalità nel riferimento, e superare il dubbio di una corrispondenza scontata, perché se è evidente che scrivere non basta a rendere speciale il proprio rapporto con la madre, sarà pure necessario ammettere che solo uno scrittore potrà dire qualcosa della sua relazione dicendo al tempo stesso qualcosa anche della relazione degli altri; se non altro per una questione di mestiere. In altre parole: attraverso la “lente” dello scrittore ci si aspetta di vedere qualcosa di più; o al limite di vedere le stesse cose, ma più chiaramente. E allora, e al di là di tutto, e anche fuori dai libri, chi sono queste madri, qual è il loro volto?

Tre poesie sui gatti

Uno dei redattori di minima&moralia risulta disperso in un oriente adriatico dove – sostiene –, superati i bastioni dei Mentecatti Organizzati Sud Europei, ci si ritrova già nell’elemento caro a Iosif Brodskij, e le cose (meravigliosamente) riappaiono per ciò che sono. La politica, ad esempio (le continue interviste a Matteo Renzi di questi giorni), e […]